E. Kosofsky Sedgwick, Stanze private. Epistemologia e politica della sessualità: recensione a cura di Roberto Ciccarelli su Il Manifesto

Tagli diagonali contro la gabbia dell’identità.

Roberto Ciccarelli – Il Manifesto

Donna ebrea, femminista, obesa, sposata che non ha mai esitato a definirsi eterosessuale». Quand’era in vita *Eve Kosofsky Sedgwick*, docente di letteratura inglese a
Duke, non amava proteggersi dietro la neutralità del suo ruolo accademico e ha sempre dichiarato il suo posizionamento politico, corporeo e sessuale, senza risparmiare la critica al potere che lei stessa rappresentava. Un giorno nel 1985, durante un corso di women’s studies, le accadde di scusarsi del fatto che, in quanto donna non lesbica, provasse difficoltà
nel parlare di una condizione per lei sconosciuta.  Alla fine della lezione, tre studentesse che giocavano nella squadra di basket del college le dissero con tono gentile, ma fermo, di non farlo più. In quanto donne lesbiche, le sue parole avevano prodotto la sensazione che non volesse essere identificata con loro. Da allora Sedgwick ha preferito non trovarsi più in una posizione dispotica e riprovevole. È stato forse questo l’episodio che l’ha spinta a scrivere Epistemology of the Closet, con Corpi che contano di Judith Butler universalmente
considerato il libro fondatore della teoria queer. Pubblicato nel 1990, e finalmente tradotto in italiano con il titolo Stanze Private. Epistemologia e politica della sessualità (Carocci, pp. 301, euro 31,40) grazie all’entusiasmo e alla competenza del filosofo della politica Federico Zappino, Stanze private dimostra che il queer è una forma di resistenza alla classificazione della sessualità nel campo eterosessuale o in quello omosessuale, la cui distinzione è vincolata alle decisioni culturali e politiche e non alla natura o ad una qualsiasi volontà «divina». In questo libro, come ricorda la stessa Sedgwick nella prefazione del 2008, di queer non si parla, anche perché la definizione la formulò Teresa De Lauretiis nel 1991 parodiando l’insulto omofobo che in italiano suona più o meno come «frocio».
Ciò che per Sedgwick conta davvero non è l’appartenenza ad uno di questi campi, ma il desiderio di superare l’identità sessuale in cui si nasce. Nel primo caso l’identità induce a sconfessare il proprio antonimo a favore dell’affermazione di uno status, come accade in tutti gli ambiti dicotomici sui quali è costruito il sapere occidentale: privato contro pubblico, naturale contro artificiale, immanenza contro trascendenza, cittadino contro straniero. Nel secondo caso invece il desiderio dichiara ed esibisce una condizione politica che si condensa nell’esperienza del «closet» armadio). Con questa espressione i movimenti gay e lesbico hanno inteso lo svelamento (oppure l’occultamento) dell’omosessualità di un singolo. Si parla infatti di «coming out of the closet» che allude all’uscita da una stanza privata in una pubblica. Questo movimento non ha nulla a che vedere con la famosa uscita dalla caverna di Platone. Il singolo non si dichiara omosessuale per ricreare il binarismo tra «dentro» e «fuori», tra chi è sapiente e chi è ignorante. Per chi si «dichiara», o per chi resta in silenzio, resta sempre una zona d’ombra insuperabile (il «closet», appunto) nella quale avviene una continua negoziazione tra la sessualità e il contesto che la governa.
L’«omosessualità», così come l’«eterosessualità», sono il risultato di un conflitto incessante tra l’istanza della liberazione e quella della stigmatizzazione dei singoli, non categorie astratte fondate sul genere o sul sesso. È questo il contributo innovativo offerto da Stanze private secondo il quale l’identità sessuale si forma in un continuo scambio di generi che non sono identità fisse, ma termini di un rapporto da costruire.
A questo punto si può dire che la sessualità non è una funzione genitale legata ad un rapporto gerarchico (uomo/donna), ma è una potenzialità dell’essere che si manifesta attraverso il dispiegamento di una molteplicità di posizioni. La complessità della strategia queer (dal tedesco «quer», cioè «diagonale», e dal latino torquere, «torcere») si spiega con il fatto che il suo pensiero di riferimento è relazionale e transindividuale, parte cioè dalla differenza e dalla sua differenziazione e non da un’identità precostituita da affermare con le armi della dialettica. Lo stesso dualismo omo/etero è il risultato di questa incessante contrattazione politica sull’identità che oggi, come ieri, governa la vita sessuale. Per Sedgwick la nascita di
questo dispositivo risale al 1891, data di pubblicazione e di scrittura deIl ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde e di Billy Budd di Melville, analizzati in quanto archetipi fondativi della moderna cultura gay (insieme a Proust, Nietzsche e Henry James). Ciò che rende quest’opera di storicizzazione dei ruoli sessuali, e della loro divisione, ancora più interessante è la sensibilità etico-politica con la quale Sedgwick ripete che il queer si inserisce nel più ampio scenario della critica dell’autorità e delle identità politiche come hanno già fatto nel Novecento i movimenti anti-razzisti e quelli per il riconoscimento dei diritti delle minoranze politiche e culturali. Stanze private è un manifesto della molteplicità sessuale, ma è anche uno straordinario strumento per le lotte politiche più attuali. Anche questo libro oscuramente virtuoso, denso e labirintico deve più di qualcosa alla storia dei movimenti di base. Il pensiero di Sedgwick nasce dalla crisi del cosiddetto «femminismo universitario», quello che vide la luce dopo la pubblicazione nel 1970 di Sexual Politics di Kate Millet. dando vita in un
solo decennio ad almeno 300 corsi sui women’s studies. Fu Millet a riscoprire negli Usa la contro-storia dell’oppressione delle donne come una «contro-rivoluzione sessuale» e a realizzare la ricerca pionieristica – di cui Sedgwick è debitrice – tra i classici letterari, denunciando la cultura patriarcale e la misogina in Henry Miller o in Jean Genet. Quando
l’università dell’Impero si trasformò in una gigantesca azienda della trasmissione di file pedagogici, una parte del femminismo radicale ispirato da Gayle Rubin decise di contestarla alleandosi con i movimenti degli studenti (la Sds da cui mutuò le pratiche anti-autoritarie) e quelli della liberazione gay e lesbica esplosi dopo i moti di Stonewall del 1969.
Queste vicende coincisero con l’ampia diffusione del femminismo anti-essenzialista, della decostruzione di Derrida, insieme alla critica ai dualismi «molari» (uomo-donna, omo-etero) dell’Anti-edipodi Deleuze-Guattari e della genealogia della sessualità di Foucault (che Sedgwick criticò, pur condividendone metodo e finalità). Stanze private
deve anche molto all’approccio del «nuovo» femminismo di Luce Irigaray, di Hélène Cixous e di Julia Kristeva, importato dalla Francia insieme al pensiero della differenza dei colleghi maschi, perché entrambi criticano il soggetto in quanto «da sempre maschile» e la figura della Madre trasformata in «soggetto esistenzialista». Il queer è originariamente debitore di
questi saperi esportati negli anni Cinquanta da una provincia orgogliosa nel cuore dell’Impero. Da quando l’Impero è in crisi, e i saperi critici hanno abbandonato l’università per essere disseminati nel mondo, il queer resta uno degli interpreti più inquieti della critica delle identità sessuali e della creazione di norme per la vita dei singoli e per quella in comune.

Redazione

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