Dal lavoro al corpo, alla sessualità dunque. Riconoscendo la sessualità come dimensione di energia, erotizzante, della vita politica, degli spazi comuni. Abbiamo scritto che
“la sensazione è che la sessualità non investa soltanto il discorso sul sesso, ma in senso più ampio quello sul corpo e sullo stare al mondo […] sessualità, consapevolezza del proprio corpo e vivere insieme sono legati, soprattutto nelle esperienze di politica e di militanza […] E’ il corpo che dà la misura della relazione. Misura che non è solo limite, ma misura della vita, di ciò che la costruisce e la frammenta. […] Esserci tutte intere è passione nel condividere in presenza pensiero e politica”L’abbiamo definita erotizzazione diffusa. E’ proprio negli spazi della vita politica comune, nella relazione tra donne, che sentiamo radicata la possibilità di aprire spazi di libertà. Oggi siamo eredi di ormai diverse generazioni di donne “liberate”, con il vantaggio delle risorse lasciateci da chi ha lottato e pensato prima di noi, ma a nostra volta alle prese con problemi nuovi, o vecchi ma in forme nuove, con le parole trasmesse, con quelle scivolate via. E ancora con le parole da recuperare e quelle di cui sentiamo il bisogno e ancora da inventare.
Ma se condividere e riappropriarsi dell’esperienza del corpo è stato il fondamento dell’identità femminile degli anni Settanta, cosa è accaduto dopo? Forse quelle pratiche hanno perso presa sulle vite concrete, forse quando sesso e corpo sono diventati solo o soprattutto questioni legate alla salute, alla contraccezione, all’aborto. Insieme alla perdita degli spazi femminili non solo simbolici quali erano per esempio i consultori, diventati oggi strutture di emergenza per minorenni o a costo zero per le donne immigrate, che hanno mancato nella trasmissione delle pratiche e dei saperi sui corpi delle donne. E noi, che abbiamo rintracciato nella nostra esperienza di donne, di età compresa tra i 25 e i 30 anni, la solitudine, l’assenza di parole, di trasmissione, sui saperi del corpo, sulla sessualità, ci siamo chieste quale sia stato il cortocircuito che ha impedito alle madri di trasmettere alle figlie e alle figlie di raccogliere dalle madri.
“Probabilmente negli anni Settanta le donne non hanno pensato tanto alle parole da trasmettere e si sono affidate ai corpi”allo scambio nel movimento, poi affievolito.
“Certo c’è stata la controffensiva maschile-patriarcale che ha declassato il discorso sul corpo, sul piacere, sul desiderio delle donne ad espressione di odio nei confronti degli uomini, oppure l’ha ridotto ai temi sulla salute e sulla prevenzione, ad una medicalizzazione dei corpi femminili che non mette in crisi il modello eterosessuale, monogamico, patriarcale, fallogocentrico”.E ancora forse le donne di generazioni precedenti per molto tempo non hanno voluto fare i conti con la trasmissione, con la successione, credendo di comprendere automaticamente l’esperienza di donne più giovani nel proprio discorso, impedendo una genealogia che facesse circolare parole e pratiche che dall’autorevolezza del pensiero e della politica circolasse nelle vite e nelle esperienze di ciascuna. Allora cosa sarebbe accaduto se si fosse trasmesso un linguaggio sulla sessualità che arrivasse anche alle nate negli anni Ottanta? Forse non avremmo sentito il bisogno di pensare la sessualità, a partire da noi, e sarebbe stato un peccato. O forse l’avremmo fatto comunque, come libera espressione del nostro desiderio, un desiderio femminile, per nominare quel ponte che ci ha portate dal lavoro, che sentivamo come un’urgenza, alla sessualità e che dalla sessualità riporta al lavoro.
Perché avere un corpo fertile significa ancora oggi essere soggette a discriminazioni, soprattutto in una società che non riconosce la maternità come valore sociale in una generale tendenza alla dedizione assoluta all’imperativo della produzione e del consumo.
La maternità oggi, quella delle donne che la scelgono, è messa a dura prova perché la precarietà è la vera contraccezione del nostro tempo, ma d’altra parte, e qui comincio a pensarmi madre, se scartata dalla dicotomia produzione/riproduzione, può diventare universale. Perché maternità non è (solo) riproduzione, non è (solo) mettere al mondo un figlio, la maternità è quel potere che viene dal corpo fertile delle donne (tutte le donne: quelle che scelgono di essere madri, quelle che scelgono di non esserlo, quelle che non possono esserlo, le lesbiche), quello che si esprime nella cura delle relazioni, è un modo di fare e trasformare, come cura del processo di produzione e di lavoro, cura dell’organizzazione, del sistema, dei contesti, cura delle attività, cura del bene comune, cura dell’ambiente in cui si vive, cura del proprio tempo, del proprio corpo. Quella cura, che se assunta come modo altro di pensare il mondo e il mondo del lavoro, sposta dal paradigma della produttività a tutti i costi che è inevitabilmente fallito, partendo da una prospettiva sessuata, partendo dalle donne.
Quando Pateman analizza lo stato sociale patriarcale dice:
“Teoricamente e storicamente, il criterio principale di cittadinanza è stato l’“indipendenza”, e gli elementi compresi sotto il titolo di indipendenza si sono basati su abilità e attributi maschili. Gli uomini, e non le donne, sono stati visti come i possessori delle capacità richieste di “individui”, “lavoratori”, “cittadini” […] perché si dia piena cittadinanza alle donne lo stato sociale deve assumere come valore sociale la responsabilità nei confronti degli altri […] E’ visibile l’opportunità di creare una democrazia genuina, di spostarsi da uno stato del benessere ad una società del benessere senza esuli sociali involontari, di cui le donne, così come gli uomini, possano fare pienamente parte”.Il concetto di diritto universale alla maternità raccoglie questa ambizione e per questo motivo parla a tutte e tutti. Perché non è solo rivendicare l’indennità di maternità per quelle donne lavoratrici a cui non è riconosciuta, ma è riconoscere un tempo ed uno spazio non produttivi nel senso capitalistico del termine, è riconoscere un tempo riproduttivo, generativo, dedicato alla cura, di sé, dell’altro. E’ riconoscere ai cittadini, donne e uomini, il tempo della rigenerazione dei corpi, è pensare un nuovo paradigma del mondo e del mondo del lavoro. E’ dare vita allo spostamento di Pateman dallo stato del benessere alla società del benessere partendo dalla maternità come un diritto universale per tutte e tutti, riconoscendo un diritto di cittadinanza, e poi un reddito di cittadinanza, sessuati, per una cittadinanza che veda la produttività dipendere dalla cura. Per lavoro di cura intendiamo non quello che donne e uomini svolgono quando si occupano di una casa, dei figli, degli anziani, ma un modo di fare e trasformare, una cura che si manifesta anche nel processo di produzione e di lavoro, cura dell’organizzazione, cura delle attività, cura del bene comune, cura dell’ambiente in cui si vive. E allora eccola la trasformazione della maternità, così intesa, non come mettere al mondo un figlio, ma come trasformare il mondo, avere un modo altro di pensarlo. Allora ecco che il paradigma della riproduzione come cura – paradigma pensato dalle donne – diventa quello di tutti, diventa il nuovo paradigma del mondo e del mondo del lavoro.