Dietro l’icona della vita, le politiche delle multinazionali e della governance attuale
«WE-Women for Expo parla di nutrimento e lo fa mettendo al centro la cultura femminile. Ogni donna è depositaria di pratiche, conoscenze, tradizioni legate al cibo, alla capacità di nutrire e nutrirsi, di “prendersi cura”. Non solo di se stessi, ma anche degli altri… Le artefici di questo nuovo sguardo e nuovo patto per il futuro [saranno] le donne».
Così recita la presentazione del progetto che Expo 2015 dedica alle donne come prime protagoniste del grande evento mondiale che avrà sede a Milano tra qualche mese. Donne, quindi, come icona di salvezza, universale mitico che raccoglie in sé i valori della generazione, della cura, del nutrimento, della maternità. Donna come portatrice di un potenziale differente nel lavoro, nell’impresa, nella cultura. Insomma, Expo lancia un grido al mondo: «Nutrire il pianeta, energia per la vita», a cui dovrebbero rispondere tutte le donne «per essere le protagoniste del cambiamento e di uno sviluppo pienamente sostenibile».
In questo grido, che è un grido d’allarme, leggo il segno violento di una storia millenaria: la Storia del maschio, dell’Uomo come categoria universale e universalmente imposta, scritta da quell’infamia originaria di cui parla Lea Melandri per cui «la donna che entra nella storia ha già perso concretezza e singolarità: è la macchina economica che conserva la specie umana, ed è la Madre, un equivalente più generale della moneta, la misura più astratta che l’ideologia patriarcale abbia inventato».
Expo, quindi, smette di essere “solo” un cantiere di speculazioni e un banco di prova delle nuove riforme strutturali del lavoro (all’insegna del self-management, della gratuità e della flessibilità), ma si configura anche come spazio di produzione di discorso, di simboli, di miti e di pratiche che vanno ad alimentare un’idea di mondo nata nella notte dei tempi, «un dramma di cui si cominciano a vedere oggi i protagonisti». Uno dei campi discorsivi e simbolici attorno a cui si costruisce l’Esposizione Universale del terzo millennio è appunto quello della femminilità come insieme di attributi salvifici e creativi della donna e quello della vita come terreno di sfida politica ed economica. Il mito trascendente della Dea Madre o della Madre Terra, mito universale che sacrifica l’immanenza e la singolarità composita delle vite in un’astrazione separata dai corpi, è sempre esistito nella cultura maschile e patriarcale. È quell’ideale prodotto dall’Uomo in corrispondenza a un sistema di dualismi che vedono irrimediabilmente separati mente e corpo, materia e forma, produzione e riproduzione e il cui correlato è stata la creazione di un “femminile” tanto negato e oppresso nello spazio del biologico e del riproduttivo, quanto sacralizzato in veste di principio materno, generativo e vitale. Questo mito non ha smesso di esistere nell’epoca della religione del denaro e anzi, negli ultimi quarantanni, ha avuto un ruolo preminente all’interno di quel passaggio storico in cui un nuovo paradigma economico ha tentato di recuperare la forza dirompente delle lotte femministe degli anni Settanta. Ha stabilito, cioè, quel differenziale femminile da poter valorizzare sul mercato che prende il nome di diversity management: maggior capacità di cura delle relazioni, di creatività e di pragmatismo che richiamerebbero gli attributi tipici del lavoro domestico come luogo – in fondo e sempre – riservato alle donne.
Expo conferma questa narrazione e ne mostra i paradossi, rilancia la sfida internazionale in difesa della vita e in nome delle donne ma ne svela il nesso indissolubile con le logiche di accumulazione di profitto e con le politiche della morte dell’attuale governance globale.
Non a caso uno dei primi partner di Expo (insieme a Nestlé, Coca Cola, McDonald’s, Mekorot e Israele, Barilla e tanti altri) è Monsanto, la più grande multinazionale di biotecnologie agrarie e principale produttrice di semi geneticamente modificati del mondo, nonché mostro devastatore di ambiente (attraverso il monopolio delle sementi e dell’imposizione dei brevetti sui semi e l’uso di agro-tossici e agenti chimici che distruggono le proprietà del terreno e che causano cancri mortali alle persone che vivono nelle località limitrofe alle aree contaminate) e principale obiettivo di lotte e contestazioni da parte di numerosissime organizzazioni disseminate su tutto il pianeta. A questo proposito mi viene in mente il caso di Ituzaingó, una località argentina situata nella periferia di Cordoba e circondata da coltivazioni intensive di soia di proprietà di Monsanto. Qui, a partire dal 2001, un gruppo di madri (Las madres de Ituzaingó) cominciò a denunciare la morte dei propri figli nati con disparate malformazioni, gesto che inaugurò l’inizio di una lotta feroce che dura tutt’ora contro la multinazionale e l’uso di agro-tossici. Quando cominciarono le ricerche si scoprì che su una popolazione di circa mille persone 200 soffrivano di cancro, si rilevarono casi di giovani da 18 a 25 anni con tumore al cervello, altri dai 22 ai 23 che già erano morti e più di tredici casi di leucemia in bambini e ragazzi giovani. Lo scorso Luglio a Buenos Aires ho avuto la fortuna di partecipare all’inaugurazione del FINCA (Festival Internacional de Cine Ambiental) che ha dedicato la prima serata ad Andres Carrasco, un biologo molecolare che aveva lottato in piazza a fianco de las madres e che aveva dimostrato scientificamente gli effetti nocivi del Glifosato, ingrediente contenuto nei pesticidi di Monsanto.
E così penso anche alle centinaia di sgomberi che hanno colpito negli ultimi mesi alcuni quartieri popolari di Milano, in particolare Corvetto, Giambellino e San Siro, e che seguiranno fino all’inaugurazione di Expo, come previsto dalle dichiarazioni del presidente della regione Roberto Maroni. Sebbene non sia esplicitato il nesso che lega il provvedimento repressivo e il mega evento di maggio, è evidente che dietro il primo ci sia l’intento di riqualificare la città in vista del ruolo-vetrina che le sarà attribuito per tutto il 2015. Così centinaia di persone hanno occupato le strade per fermare un’inaudita violenza poliziesca che obbligava decine e decine di famiglie a lasciare le proprie case, un tetto sotto cui vivere. Senza dimenticare la denuncia di quella donna che ha perso il figlio di cui era incinta durante gli scontri e le manganellate.
Questo per mostrare, attraverso due esempi tra migliaia, la faccia oscura, necropolitica, di un evento come Expo e del modello di “sviluppo” che ci propone. Accanto alla costruzione di nuovi miti di generazione, di cura e di nutrimento (con tutta una simbologia che riguarda la Donna, la Terra e la Vita) e alla produzione della femminilità come insieme di fattori messi a valore dal mercato, Expo si fa portatore di un sistema economico e politico che fa della riproduzione della vita e dell’ambiente il principale campo di sfruttamento e di espropriazione. E, sebbene si tratti di un modello di mondo che ha radici in un pensiero sessista e patriarcale che ancora oggi vive in tutte le manifestazioni di violenza diffusa e crescente sul corpo delle donne, la sua portata distruttrice riguarda tanto le donne quanto gli uomini e le altre soggettività oltre il genere, ed è per questo che tutti e tutte siamo tenute a rispondere. La sfida che ci pone Expo è a trecentosessanta gradi, è radicale perché interroga alla radice le strategie future delle multinazionali e della governance globale: si tratta di decostruire categorie di genere imposte dal mercato, di stabilire cosa significa per noi vita e biodiversità, di saper ricostruire il cammino della filiera produttiva che connette a filo teso le piantagioni intensive di soia e mais transgenici del Latino America ai nostri acquisti al supermercato e chiederci che risposta diamo noi alla crisi agro-alimentare, e tanto altro.
Rosi Braidotti scrive che «confrontarsi con la storicità della nostra condizione significa spostare il fulcro della riflessione verso l’esterno, nel mondo reale, in modo da assumersi le responsabilità delle condizioni e relazioni di potere che definiscono la nostra collocazione. L’epistemologico e l’etico avanzano in tandem nei complicati orizzonti del terzo millennio. Ci occorrono creatività concettuale e coraggio intellettuale per afferrare quest’occasione, e non si può tornare indietro».
Credo che questa esortazione bene riassuma la portata epocale della battaglia contro Expo.