L. Irigaray, Il mistero di Maria, Paoline, Milano 2010, pp. 58, € 11,50
di Annarosa Buttarelli
In un delizioso libriccino da tenere in tasca come quelli destinati alla meditazione quotidiana, Luce Irigaray scrive una delle tappe più significative della sua ricerca intorno al divino di segno femminile. L’autrice si conferma come geniale filosofa della differenza sessuale, attraversata dalle contraddizioni del presente e sempre più fedele all’impegno di sperimentare e offrire compassionevolmente le chiavi della liberazione per donne e uomini, senza cessare di dare priorità a un cammino di libertà delle donne, che è in corso e le è debitore, di passi decisivi e, crediamo, irreversibili.
Il testo, un’intensa riflessione su Maria di Nazaret e madre di Gesù, scritto con la semplicità accurata di chi vuole arrivare al cuore di molti e di molte, si muove per soccorrere un’umanità che ha fatto a pezzi sé e il pianeta dove vive; che si è ridotta a non avere quasi più la capacità di alimentare lo spirito e di conservarsi caro l’accesso alla trascendenza, prima ancora di gettarsi in qualche confessione religiosa. Da grande pensatrice qual è, Irigaray sa che nel presente le trasformazioni non possono più avvenire secondo argomentazioni e dimostrazioni logiche neo-illuministiche, alle quali ci ha abituato un razionalismo estenuato, vista la sua impotenza di fronte al bisogno di saper dare parole anche al sentire, all’immaginazione, a tutto quel mondo dell’interiorità che María Zambrano e Simone Weil indicano come bisogni radicali dell’anima. Irigaray va al punto forse più dolente della crisi globale contemporanea: l’ottusità della ripetizione di tutto ciò che non solo non ma che anzi è distruttivo e la correlata mancanza di creatività dovuta, in Occidente, anche all’abbandono di quella che si può chiamare filosofia sapienziale.
Con Il mistero di Maria, la filosofa incoraggia l’accelerazione del necessario processo di ri-spiritualizzazione dell’umano proponendo esplicitamente un cambiamento generale della forma mentis occidentale in favore di una nuova “cultura della saggezza”. Si può provare la tentazione di attribuire tutto il merito di questa mossa alle sue personali ricerche in ambito buddista e induista, ma rimaniamo comunque stupiti e stupite dalla finezza con cui queste ricerche vengono messe al servizio della riapparizione e della collocazione di Maria di Nazaret al centro della nostra vita politica e spirituale. Riprendendo il filo tessuto nel suo fondamentale Sessi e genealogie, Luce Irigaray ci chiede di mettere al cuore del cambio di civiltà in corso la Madonna cristiana cattolica, in modo da riconoscerla e di avvalerci della sua opera di “co-redentrice del mondo”, insieme a suo figlio Gesù.
Se il senso profondo di questa proposta fosse già stato recepito, potremmo già tirare un respiro di sollievo: significherebbe che l’intelligenza generale ha registrato che ci troviamo in pieno post-patriarcato, un tempo che non ha più punti di orientamento, che ha bisogno di un nuovo ordine simbolico da condividere, per il quale occorre trovare immagini, metafore vive, creatività, nuove dimensioni narrative, e perfino mitologiche, così da scuotere e trasformare un immaginario spento da una sciatteria a senso unico (leggi fallocrazia), che l’ha tenuto in vita per un tempo incalcolabile. Luce Irigaray sa bene che sarebbe tragicamente ridicolo affidare di nuovo ai soli uomini intellettuali il compito di rimettere ordine ai legami sociali o a quel che ne resta, dopo che ne hanno accelerato il disfacimento attraverso la doppia morale: scrivere bene e, nella vita di relazione, razzolare male ma con più efficienza. E’ piuttosto necessario sapere come la mente abbia bisogno di nuove immagini per riprendere a pensare veramente e a pensare tutte e tutti.
Qui da noi, il cristianesimo popolare e femminile ha seguitato a coltivare il culto di Maria come virgo potens e come figura storica che merita e sostiene tutte le meravigliose attribuzioni contenute nelle Litanie lauretane. La dottrina istituzionale della Chiesa invece, scrive Irigaray, ha scelto di coltivarne la memoria e la posizione come archetipo di maternità esemplare al servizio di Dio-padre e del suo progetto. Il suo essere “Porta del Cielo” è stato scambiato come semplice essere corpo che si offre per l’attraversamento di un corpo celeste, mezzo tra padre-dio e figlio-dio. La cosa non è rimasta senza conseguenze, né per la nostra cultura, né per la politica, né per la ricezione della differenza femminile, quando vada intesa, ad esempio, come autorità filosofica, sapienziale e politica. Tanto è vero che, in pieno cristianesimo realizzato (?) e sbandierato, di “Maria non sappiamo quasi nulla”, scrive Irigaray, facendo di questa costatazione la cifra di una grave ignoranza della cultura generale e delle pratiche relazionali. L’incipit di Irigaray è infatti da leggersi anche come un reiterato “delle donne non sappiamo e non vogliamo sapere quasi nulla”.
Sono le donne stesse e il culto popolare che hanno traghettato e difeso una presenza e un’esperienza che ora vengono buone per soccorrere i nostri tempi. La pretesa di Irigaray è alta, è il tentativo di mostrare l’evidenza di una correzione teologica improcrastinabile: ciò che le donne sono riuscite a sapere di sé e di Maria di Nazaret si rivela necessario per riposizionare le carte in tavola del simbolico, per calarne altre, per ascoltare davvero il bisogno di trascendenza dell’anima. Colei che è cara a chi “ha fame e sete di giustizia” può essere la figura di una nuova era in cui il pensiero si incarna veramente, così come ha segnato l’ingresso nell’era cristiana con il suo consenso alla necessità di concepire il messaggio d’amore incarnato in suo figlio Gesù. Dice infatti Irigaray che Maria è protagonista consapevole di una novità: il concepimento di una nuova umanità non può essere solo emotivo o fisico (Maria non è mai solo corpo materno) ma accade se si trovano parole nuove, se si parla con l’angelo, come ha fatto per l’appunto Maria. Ci viene ricordato che ogni concepimento è simultaneamente nel corpo, spirito, pensiero e parole e che ogni nuovo inizio ha bisogno di parole vere incarnate e sessuate.
Maria, secondo la filosofa, corregge genealogicamente l’incauto errore di Eva perché le insegna che non si può pretendere di diventare divini prima di portare a compimento la propria umanità, prima di assumerla avendola accettata. La “redenzione” viene intesa in questo senso e anche nel senso della ripresa del respiro e della parola autenticamente pronunciata. Ma da dove viene l’autorità simbolica di Maria? Proprio dalla sua misteriosa verginità, bistrattata e fraintesa dalla Chiesa al punto da indurre Luce Irigaray ad accusarla di minare paradossalmente “i fondamenti stessi del cristianesimo”, forse perché le è sfuggito che è già stata formulata l’idea che uno dei nomi della Madonna sia “Spirito Santo”. La filosofa respinge in particolare la teologia della “mediazione dello Spirito Santo (nel mettere incinta Maria, n.d.r) che rappresenta l’amore tra il Padre e il Figlio della Trinità cristiana. “Maria avrebbe concepito senza partecipare!”. La cifra della verginità di Maria (non la castità!) starebbe invece a significare che, alle radici stesse del cristianesimo, il legame diretto delle donne con Dio, non è mediato da alcun uomo, né da alcunché di maschile. Come a dire che l’autonoma verginità del pensare e parlare delle donne è garanzia di buona novella per tutta l’umanità, è conveniente per tutti.
Maria appare così anche l’affrancamento, fin dall’origine, dall’identificazione con lo stato di natura in cui la cultura filosofica occidentale ha invitato spesso le donne a rincantucciarsi. Poiché il “gesto etico” di Maria non consiste solo “nel rispettare la vita dell’altro, ma anche nel dare la vita all’altro”, fisiologicamente e spiritualmente differente da lei, ecco che nella vita femminile si evidenzia la capacità di “rispettare la trascendenza dell’altro, di cui pochi uomini sono effettivamente capaci”. Questo affondo di Irigaray intende colpire sia i residui culturali e psicoanalitici dell’ortodossia freudiana, quando teorizza la necessità dell’intervento del padre per separare il bambino dalla madre, sia la responsabilità degli uomini di oggi, quando continuano a non vedere come sono loro ad essere i più vicini allo stato di natura, incapaci di affrancarsi da impulsi violenti e distruttivi. Le donne già si trascendono nel concepire l’opera di dare la vita e di mettere al mondo altre vite differenti in corpo e spirito.
Infine, in continuità con la sua ricerca filosofica sell’importanza dei “trascendentali sensibili” nella vita di relazione (Etica della differenza sessuale), Luce Irigaray ci presenta Maria come “la prima figura divina del tempo dell’incarnazione”, come ben sanno gli artisti che hanno provato a rappresentarne la novità. Fatta eccezione per la mistica, l’autrice polemizza con l’esito di una cultura cristiana anestetizzata, che considera trascendente solo ciò che “sfugge alle nostre percezioni sensibili, solo ciò che è disincarnato”. Maria, concependo e crescendo nel suo corpo l’invisibile divino, mostra la realtà del divino dentro l’umano e testimonia la necessità di coltivare le percezioni sensibili interiori ed esteriori, una “cultura del toccare” sensibile e carnale versus le politiche dell’immunizzazione, dell’astrazione e dell’indifferenza.
Mostrando Maria di Nazaret in questa luce, Luce Irigaray, oltre a indicare un modo di fare filosofia radicalmente trasformato, ripercorre i luoghi catastrofici della nostra epoca e presenta la sua proposta, che si accompagna ad altre proposte femminili analoghe, di una nuova politica, forse l’unica politica possibile oggi. Ci offre così una testimonianza ulteriore che porta acqua al mulino di un’intuizione sempre più consistente, un’intuizione che dice al secolo appena iniziato: la filosofia è la filosofia delle donne.