Tre studiose italiane di diversa formazione come Lia Giachero, Silvia Giorcelli Bersani, Laura Brignoli si interrogano e fanno emergere, in questo libro, la profonda influenza che la cultura classica ebbe sul processo formativo, emotivo e più in generale sulla vita di tre, tra le più note pensatrici e intellettuali del secolo scorso, come Virginia Woolf, Hannah Arendt e Marguerite Yourcenar.
Il saggio introduttivo, a cui spetta l’appassionante compito di tenere insieme le diverse voci, è di Barbara Lanati che, immersa nel labirinto di letture e rimandi reciproci, individua il doppio binario temporale, il presente ed un passato remoto, su cui le tre narrazioni viaggiano.
Un passato remoto della “classicità” dunque, fin da subito rimodulato in un passato prossimo, che viene interrogato non senza difficoltà dalle tre studiose, senza tensioni filologiche e/o romantiche, come ingenuamente è stato visto spesso, né tantomeno tramite la lente, questa si, facile, degli istinti nostalgici, proprio perché consapevoli dell’ influenza esercitata sul nostro presente.
Arendt, Woolf e Yourcenar studiano e quindi introiettano, i classici greci e latini, perché individuano, in quelle parole, l’eternità di uno spirito portatore di un linguaggio veritiero, si rendono protagoniste di un incontro/scontro con una lingua “altra” e con una cultura solo apparentemente lontana, perduta e non di certo come un esercizio solipsistico che spiana la strada al più classico dei circoli viziosi, l’autoreferenzialità, bensì per instaurare un dialogo, poi rivelatosi proficuo, con testi tanto complessi quanto “altri” rispetto a quelli da cui provenivano.
Il primo saggio, curato da Lia Giachero, si concentra su V. Woolf, sul rapporto controverso con la cultura classica intrecciata indissolubilmente al rapporto col fratello Thoby, per cui proverà sempre un certo tipo di invidia scaturita dalla consapevolezza che lui, in quanto maschio, ebbe il privilegio di andare a scuola, di seguire lezioni di greco e di latino e incontrare compagni con cui dialogare e scambiare le proprie impressioni, idee e opinioni.
Un destino, quello di Thoby, per cui Virginia d’altra parte, nutre un profondo fascino, si lascia ammaliare dai racconti che egli le concede, tornato da scuola, contravvenendo alla regola vigente in casa Woolf: mai parlare delle lezioni seguite al collegio.
Disobbedisce, instaurando una felice similitudine con Antigone, una legge non scritta, ma contro cui si scaglia, con forza, anche grazie all’alleanza fraterna.
Per Virginia è facile specchiarsi nell’amore fraterno che lega Antigone a Polinice, perché grazie alla tragedia sofoclea rivive il rapporto con l’amato Thoby, il fratello con cui condivideva i segreti, strappati sulle scale della loro casa, relativi al mondo classico appreso durante le lezioni a lei precluse. Le sofferenze fisiche e morali inflitte ad Antigone dal re, sono le stesse inflitte a Virginia dal “re della sua casa”.
Va in scena la triste danza di una cultura negata violentemente, una porta sigillata, che solo grazie alle confidenze di Thoby poteva essere aperta e lasciar entrare spiragli di luce.
Facile di nuovo, stabilire un contatto con il destino di Antigone e Virginia, una murata viva dal re, l’altra costretta in casa da un mondo maschile che detiene, unico, le chiavi del potere e della cultura, una cultura negata tanto quanto desiderata da Virginia, che individuò una via di fuga, al contrario di Antigone, tant’è che cominciò ad autoistruirsi, organizzò la propria autoformazione sui testi classici, prendendo lezioni di latino e di greco, che la penetrano fin sotto la pelle e a stabilire, dopo la precoce morte del fratello avvenuta in Grecia, un legame indissolubile con la sua patria culturale.
Certo, una solida cultura accademica non le permise mai di distinguere facilmente un dattilo da un giambo, ma senza dubbi, quel “sapore di Omero” che aveva sulle labbra, le restò per tutta la vita, lo stesso che le permise di empatizzare con il contenuto dei testi, piuttosto che avere quel distacco scientifico che presuppone il rigore universitario.
Non “sentire” il testo era insopportabile, inconcepibile quasi.
L’antichità classica era ormai profondamente personale e la follia di Antigone, così la definisce Sofocle, si intreccia con la fragilità di Virginia.
Un essere puro, la prima, che muore per essere stata insensata per l’amore estremo che la lega al fratello, lei che era troppo forte, troppo orgogliosa per non suicidarsi, si sottrae alle leggi del re, impiccandosi. L’altra, Virginia, che negli ultimi anni della sua vita sarà davvero satura del mondo che la circonda, si affiancherà alla prima sfidante dell’autorità famigliare che conosca, Antigone appunto e di cui fa proprie, nel saggio Le tre ghinee, queste parole “non compagna dell’odio, ma compagna dell’amore io nacqui” sfidando l’establishment maschile, famigliare, accademico e politico che faceva parte della sua formazione classica e grazie alla quale ebbe gli strumenti necessari per contrastarlo.
Preferirà l’acqua, come Ophelia, per abbandonare la vita, per non essere connivente con le brutture del mondo, che contribuivano ad acuire le sue crisi, rese sempre più frequenti dallo scoppio della seconda guerra.
Laura Brignoli invece, ci accompagna nella lettura di Fuochi, un’ opera giovanile di Marguerite Yourcenar, scritta nel 1935 durante un viaggio in Grecia, che si presenta come una raccolta di prose liriche, appunti e racconti tratti dal mito e dalla storia.
Yourcenar rielabora nove vicende del mito classico, ma qui si indaga, attraverso la sola figura di Clitemnestra, il rapporto esistente tra la scrittrice belga e l’antichità classica, disvelando aspetti del mito che indirettamente svelano elementi biografici, sceglie di raccontarsi, di rivelare frammenti della sua anima attraverso storie mitiche che attualizza, senza mai banalizzare. È in realtà un’ operazione di continui corto-circuiti temporali e spaziali, che posizionano le sue narrazioni in una pura dimensione di acronia.
Iniziamo dal titolo dell’opera: Fuochi. Perché?
Chiara è l’allusione alla passione, ma sono anche i fuochi del Bosforo, quelli che Agamennone, nella tragedia eschilea, fece accendere per comunicare ad Argo la caduta di Troia e del suo ritorno in patria. La scrittrice accenderà, di volta in volta, le nove vicende mitiche per significare un’altra caduta nell’incendio della passione d’amore.
La passione, secondo Yourcenar, in cui vive il desiderio di appagarsi e talvolta di tiranneggiare l’altro, l’amore, in cui al contrario c’è abnegazione e dedizione di sé, convivono e sono evocate insieme attraverso il mito.
Così ad una Clitemenstra eschilea, il cui contrasto con Agamennone è il fulcro centrale della scena, si contrappone una Clitemnestra della modernità, madre di Oreste ed Elettra, su cui si concentrano le vendette dei figli, fino ad arrivare al capitolo di Yourcenar, dove i ruoli della moglie, madre, regina e amante si intrecciano in unico personaggio che si fa apprezzare per i tratti contradditori e primitivi del mito.
La Clitemenstra di Yourcenar si macchia dell’omicidio del marito perché il ritorno dell’eroe, o meglio, del suo eroe, la pone davanti alla realtà del tradimento. Agamennone infatti, torna in patria, nel palazzo regale, davanti a tutto il popolo, con Cassandra al fianco.
Yourcenar ci presenta la donna accerchiata dai giudici che devono pronunciarsi sul gesto omicida, attinge ad una versione successiva del mito, visto che in quella tradizionale è Oreste ad uccidere la madre per vendicare l’uccisione del padre.
Clitemnestra, la cui identità si spiega solo in relazione al suo uomo, si fa interamente carico delle sue responsabilità, minimizza addirittura l’uccisione della figlia, necessaria per la partenza delle navi, comandate dal marito, verso Troia.
Una Clitemnestra che diventa espressione della labilità dei confini tra maschile e femminile, è una virago, che rivendica il suo diritto ad esistere in quanto sposa-serva.
Un uso distorto del mito che si capisce solo se teniamo in considerazione la biografia della scrittrice francese, infatti è di quegli anni una passione per un letterato, André Fraingneau, il quale non poteva ricambiare per differenti preferenze sessuali.
L’amore infelice crea angoscia, una perdita dei punti di riferimento che la conducono direttamente allo sbandamento e alla confusione della sua individualità.
Il ricorso al mito dunque, fa emergere al contempo il non-detto della scrittrice e della donna, in un’esplosione che erompe come un fiume carsico, che inserisce la sua vicenda personale nella storia dell’umanità e spesso vi ritorna lasciando tracce dentro di sé, diluendo così il dolore personale. Yourcenar intende fissare nell’eternità solenne la propria dolorosa esperienza personale, che assume proporzioni insostenibili, rimane confusa tra l’intimo e l’universale e proprio negli interstizi delle due sfere riesce a trovare sé stessa.
Infine il saggio di Silvia Giorcelli Bersani, che getta luce sulle influenze esercitate dalla tradizione classica sul pensiero di Hannah Arendt.
Un punto di partenza imprescindibile per la studiosa che individuava in Socrate e in Cicerone non solo i modelli classici di rigore intellettuale e civile a cui far riferimento per comprendere il pensiero politico e la cultura occidentale, ma anche nelle città di Troia, Atene e Roma le matrici da cui deriva tutto il patrimonio originario dell’esperienza politica.
È nella polis greca che prende forma il concetto di “politico” e di “pubblico” e l’età imperiale rappresenta un perfetto connubio tra diritto, filosofia, letteratura e politica che mai si sia realizzato, grazie ai continui rimandi e citazioni classiche, le opere di Arendt rimangono il tentativo più lucido di analizzare storicamente le catastrofi del Novecento.
Il quadro culturale precedente è in sostanza quello di una Germania assuefatta dal mondo classico, spesso letto anche in chiave nostalgica, in cui prendono vita opere sull’antichità ancora oggi capitali, da cui non si può prescindere se si intraprende uno studio universitario della tradizione filologica, letteraria e storico-geografica sul mondo antico.
Ma in che misura Hanna Arendt ha assorbito queste suggestioni otto-novecentesche?
La metafora “se si sale o scende dalle scale si è sempre trattenuti dalla balaustra e quindi non si può cadere. Ma noi abbiamo perso la balaustra” è utilizza da Arendt per spiegare lo smarrimento di noi moderni di fronte alla frattura venutasi a creare nelle esperienze laceranti del secolo scorso, che hanno fatto perdere le certezze derivate da un solido confronto con l’antichità.
Compare inoltre, come sottotitolo di questo ultimo saggio e sta ad indicare non una perdita definitiva dell’antico, ma una lontananza che permette di riattivare un rapporto genuino con il passato, spogliato da ogni peso di autorità e vissuto come ricettacolo dei valori più autentici che possiedono un valore assoluto.
Grande merito di Arendt fu inoltre quello di svincolarsi dalla storiografia tradizionale che venerava il mondo greco a discapito di quello della Romanitas, in cui riesce a scorgere non solo una degenerazione della civiltà greca classica ed ellenistica, ma anche e soprattutto una civiltà capace di fondare sull’auctoritas, -l’autorevolezza- dunque un passato edificante e prestigioso, il proprio potere e di creare un sistema politico e un progetto comune forte, duraturo e in cui tutti potevano riconoscersi fino ad arrivare ad ammettere il debito del cristianesimo nei confronti della romanitas.
La riflessione sulla frattura tra filosofia e azione politica è centrale nel pensiero arendtiano ed è per questo che fa riferimento al passato greco e latino dove il linguaggio, il pensiero e la pratica hanno avuto origine ed è anche per questo motivo che individua in Cicerone un intellettuale impegnato ed esposto che si contrappone, rischiando, alle più feroci degenerazioni del potere.
Un’ammirazione dell’antico, intrisa della concezione che i romani stessi avevano del loro passato remoto e più prossimo, che non deriva certamente da un atteggiamento reazionario e conservatore, bensì da una tensione verso il futuro. Per i Romani infatti, come anche per Arendt, lo studio del passato non aveva nulla di malinconico, ma era immaginato come unico strumento attraverso cui elaborare un percorso verso il futuro.
È indubbia quindi, la permanenza dei valori e del pensiero classico nella modernità e le tre pensatrici, Hannah Arendt, Virginia Woolf e Marguerite Yourcenar, approcciandosi con estrema umiltà a quel mondo lontano, confermano e ribadiscono con forza.
Una forza tutta la femminile.
Recensione di Ilaria Coccia