Fiorita a metà degli anni Ottanta del Novecento la filosofia interculturale ha accolto pienamente la sfida umana e filosofica contemporanea, avendo come scopo oltre che una destabilizzazione profonda di tutte le precomprensioni, l’abbandono delle ottiche dicotomizzanti, l’allargamento del dialogo filosofico tra diverse culture, non reificate e ridotte a meri oggetti di studio, con l’obbiettivo d’instaurare, a partire dal riconoscimento dell’importanza fondante della relazione, un autentico confronto che renda operativa la coesistenza pacifica delle diversità in un arricchimento che possa aprire a nuovi ed inediti orizzonti per pensare le dimensioni dell’essere umano e il senso che ha per tutti e per tutte noi coabitare in questa Terra.
Da tempo uno degli studiosi italiani dell’interculturalità, Giangiorgio Pasqualotto, e con lui Giuseppe Cognetti attraverso le sue lezioni di filosofia interculturale nell’Università di Siena, sottolineano l’impossibilità di definire a priori, con gli strumenti occidentali dellaratio calcolante, gli esiti di una comparazione interculturale: le regole del confronto si creano nel momento del raffronto stesso, che non deve pretendere di costruire una panoramica oggettiva, con il pericolo di una reductio ad unum, ma neanche deve sfociare in un relativismo apatico che rischia di appiattire le differenze fino ad annientarle.
Nel grande “dialogo” che Alessandra Chiricosta, insegnante presso la Hanoi University del Vietnam, intraprende tra i vari approcci per ripensare la storia e gli esiti del pensiero filosofico in un contesto multietnico e globale, nel suo libro pubblicato nel mese di Aprile di quest’anno e intitolato “Filosofia interculturale e valori asiatici” emerge meravigliosamente proprio la sua mirabile apertura verso nuove prospettive d’indagine al di fuori dei paradigmi interpretativi dominanti in ambito occidentale.
Nella prima parte del suo attento lavoro, chiamando al confronto di volta in volta come interlocutori, il multiculturalismo, il postcolonialismo, il femminismo e la filosofia comparativista, l’autrice fa emergere in modo critico, grazie ad una vastissima bibliografia, grazie all’energia del suo pensiero dell’esperienza e ad una curatissima e vivace rassegna dei contributi internazionali di pensatori e pensatrici nei diversi ambiti analizzati, i limiti e le risorse dei differenti apporti per pensare e porre il problema dell’alterità.
A metà strada del percorso del libro, dopo aver esaminato i principali ostacoli che impediscono l’attuarsi reale di pratiche dell’incontro, il cammino delineato dall’autrice ci guida, in modo esaustivo e oltremodo approfondito, (in un contributo esclusivo, da parte di una filosofa italiana) verso i metodi dell’interculturalità e verso la loro efficacia.
E’ solo dopo aver chiarito che “l’apertura della filosofia all’intercultura, polifonica e plurilinguista, si presenta non tanto nei termini della fondazione di un’ennesima disciplina, quanto di un movimento rinnovatore dell’intero panorama filosofico, che colga l’occasione offerta dal pensiero plurale per far riguadagnare alla filosofia il ruolo di guida a lei sottratto dal primato della tecnocrazia economica nelle società odierne” (p. 13), che si può attuare un’originale comparazione con i valori morali del Vietnam, in un’ermeneutica interculturale che superi i confini di quella di Gadamer, Ricoeur, Jullien e il conflitto mal posto e dicotomizzato tra valori asiatici e diritti umani.
In un approccio dialogico e non dialettico, che, richiamando a più riprese a Raimon Panikkar, richiede un ripensamento dei paradigmi che vincolano il nostro agire e il nostro pensiero, Alessandra Chiricosta propone una rivoluzione antropologica radicale, che, richiamandosi anche al pensatore cubano Fornet-Betancourt, si realizzi attraverso sistemi polilogici che possono rimuovere le assimetrie esistenti e che possono prospettare scenari di maggiore dialogo. A favore del fecondo polilogo, il distruttivo monologo della concezione occidentale deve esser messo in discussione svelandone i postulati e i presupposti, la pretesa di universalità a priori. E’ qui che trova spazio allora la prassi virtuosa e vitale della comparazione interculturale, molto lontana dall’ ipostatizzare “l’Altro” funzionalmente al tipo d’identità che si vorrebbe rafforzare. In una dimensione babelica, denuncia più volte l’autrice, l’altro vien spesso nominato in absentia, relegato ad un’eccessiva mitizzazione in un romanticismo descrittivo, riportato violentemente al concetto fagocitante dell’identità.
Qui invece la scelta del Vietnam come campo di studio coinvolge per sconvolgere l’inerzia dei nostri pensieri.
Nell’ultima parte del percorso del libro, oltre a permettere di superare la sterile contrapposizione dialettica-duale tra universalismo e relativismo, la scelta del Vietnam apre a nuove uniche visioni, anche per la peculiarità del suo vissuto storico: ex-colonia, l’affermazione dell’unità nazionale del Paese coincide con la lotta per la liberazione dal colonialismo francese e dall’imperialismo statunitense, combattuta facendo leva su di un codice valoriale condiviso dalla nazione tutta, che, vien accennato dall’autrice, ha trovato fortuna nella sua unicità anche nella costruzione del suo femminismo.
La peculiarità del Vietnam è data anche però dal ruolo simbolico che ha rivestito per molti paesi occidentali durante l’omonima guerra, e proprio tale simbolicità ha determinato fraintendimenti di molti elementi della sua ricchissima cultura.
Lontano da generalizzazioni di stampo etnocentrico, distante da esotismi e idealizzazioni, da riduzionismi strumentali, Alessandra Chiricosta mostra come attraverso una profondissima ricerca, oltre che filosofica, sociolinguistica, il Vietnam possa offrire una diversa prospettiva tra Valori asiatici e Diritti umani: il primato della morale su qualsiasi forma di epistemologia, una concezione relazionale dell’essere e della persona chiama ad una dimensione valoriale che si radica non contro, ma al di là dei postulati, alla base del diritto, che strutturano le concezioni individualistiche occidentali.
Nel linguaggio vietnamita, nella sua terminologia, non esiste una forma fissa della parola “io”; questa infatti è sempre determinata dalla relazione tra gli interlocutori e tra le cose e struttura in modo peculiare la concezione del sé, distante da un’idea ego-centrica del vivere sociale. Non ci si può dunque stupire se, spiega l’autrice, nelle scuole coloniali franconfone la frase cartesiana alla base del pensiero occidentale “Io penso dunque sono” suscitasse l’ilarità generale tra studenti e intellettuali vietnamiti.
L’autrice non vuol arrivare ad affermare che in Occidente non sono esistite declinazioni meno ego-centriche dell’essere umano, ma vuole constatare che l’individuo-persona così come è contemplato dalla teoria dei diritti abbia una storia culturale che si è incentrata più sull’autopercezione che sulla relazionalità.
Il richiamarsi a una dimensione valoriale in opposizione alla razionale oragionevole o decente, (per dirla con Rawls) teoria dei Diritti apre alle domande: di quale ordine di valori morali è portatrice la teoria dei Diritti umani? Su quali logiche si fonda e quale storia l’ha costruita nella sua versione contemporanea? La risposta dell’autrice spiega come
“l’essere umano a cui si è fatto riferimento nella tradizione filosofica vietnamita si pensa a partire da una serie di relazioni che sono in primis etiche, espressione, e, al contempo, perpetuazione di valori morali-sociali, su cui si fonda l’intera cultura”.(p.309)
E ciò la porta a chiedersi:
“Può dunque la teoria dei Diritti Umani essere accolta in un diverso contesto senza che ciò significhi importare anche tutto il sistema etico, morale, politico a esso soggiacente?”
Lontano dalla volontà necoloniale di continuazione monologica di una globalizzazione di stampo neoliberista, l’eco in espansione della fondamentale domanda di Alessandra Chiricosta arriva sino a noi e ci riporta all’urgenza pratica prima che teoretica della messa in discussione dei modelli rigidi e dicotomizzanti che ci limitano nel campo della prassi e del pensiero, imprigionato nelle gabbie di un’etnocentrismo del sé incomunicante e impositivo con le differenze tra cui, da sempre, si trova, e da cui, da sempre è costituito. Alla fine del viaggio proposto in questo libro, che forse per la prima volta in modo così esaustivo propone, in senso panikkariano, una comparazione completa, per un autentico dialogo interculturale, ci si abbandona al rischio della dispersione dei propri riferimenti certi, allo spaesamento per l’aver perso un senso preciso unilaterale; si esplorano allora nuovi lidi, lasciando da parte ogni precomprensione certa, si esaminano i limiti del pensiero postcoloniale che pure richiama ad una prassi d’impegno politico e militante; infine, a partire da lì, ci si trasforma, proprio grazie alla forza di quella auspicata metanoia radicale che Alessandra Chiricosta, accompagnandoci contestualmente, in modo appassionato e appassionante all’interno della filosofia interculturale, arricchente e sovversiva al contempo, ci chiede di compiere, rivoluzionando pensieri e pratiche, dando avvio a risignificazioni più libere e a narrazioni pacificamente polifoniche, che spalanchino scenari nuovi e rinnovatori per qualsiasi riflessione filosofica che voglia partire dalle urgenze della contemporaneità non solo per comprendere, ma anche per modificare gli assetti di potere e, allo stesso tempo, gli schemi di senso che regolano la nostra esperienza e la nostra coesistenza nel mondo.