di Anna Simone
In una società come la nostra, prevalentemente basata sulla crisi prodotta dal neoliberismo, determinata dalla non-etica della prestazione e della concorrenza, dal malessere prodotto dai processi di individualizzazione e scomposizione sociale, dall’aumento esponenziale della vendita di psico-farmaci, dall’impoverimento generalizzato, dalla gabbia d’acciaio prodotta dal debito collettivo e individuale, dalla supremazia della quantità sulla qualità, dall’aumento del tasso suicidario per ragioni economiche e da un sistema di valutazione basato sulla “meritocrazia”, ovvero un sistema che “premia” solo chi sa vendersi meglio nel mercato sottostando ciecamente alle sue regole, azzerando definitivamente la cultura dell’esigibilità dei diritti sociali, un titolo come Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte (DeriveApprodi, 2014) potrebbe persino apparire ostile, se non fosse che l’autrice porta il nome di Rosi Braidotti.
Sul tema, infatti, si scrive da più di un decennio, a ridosso della grande rivoluzione analogica e a ridosso dell’avvento della bio-genetica, delle bio-tecnologie, delle neuro-scienze, del successo delle scienze psico-cognitive, la cibernetica e via dicendo, ma l’approccio si è sempre collocato su un doppio binario: o l’accettazione esaltata della nuova realtà, o la critica radicale. All’interno di questa letteratura, invece, leggere il nuovo libro di Braidotti – che peraltro non avevamo il piacere di leggere in Italia dal 2008 – può generare un respiro, un sollievo, ma anche qualche punto di domanda, come vedremo più avanti.
La sofisticata ricostruzione epistemologica di Braidotti, infatti, pur collocandosi sempre al presente e nel presente resta prepotentemente legata ad una certa idea di intendere la ricerca e la scrittura che non prescinde mai né dal corpo, né dall’esperienza. Questa postura, propria di molto pensiero della differenza, incarnata da una scrittura densa e intervallata da una miriade di esempi, in Braidotti incontra sempre un esterno, ovvero un grande tema della contemporaneità, togliendo ogni dubbio sulle critiche ad un approccio femminista che non tiene mai conto dei grandi mutamenti sociali in relazione alle stesse trasformazioni del sé.
Ma ha anche una specificità perché Braidotti, fin da Madri, Mostri e Macchine, ha sempre fatto suo l’approccio rizomatico e in divenire di Deleuze e Guattari, producendo a sua volta una “differenza” rispetto ad altri autori maschi che hanno fatto la stessa scelta epistemica, collocandosi dentro e oltre Marx. La differenza è data soprattutto dalla postura epistemica: fuori da ogni dualismo l’autrice riesce sempre a dare conto anche di ciò che produce “striature” nello “spazio liscio” del perenne divenire, riesce sempre a situarsi a partire dal corpo e dall’esperienza – come dicevamo -, riesce ad avere sempre una tensione etica, non esce mai dal bisogno di chiarire dove può collocarsi una nuova soggettività in grado di essere responsabile e rivoluzionaria insieme. Affermativa e dentro l’avanguardia, ma mai assertiva e imperativa, la parola di Braidotti chiarisce subito due punti essenziali prima di scendere nelle declinazioni possibili di quel che lei definisce “condizione postumana”.
Intanto l’impossibilità di scindere il dato dal costruito, ovvero la natura dalla cultura, contro l’ipotesi socio-costruttivista secondo cui tutto è solo cultura. Concentrandosi sui processi di naturalizzazione e di culturalizzazione prodotti dalle bio-tecnologie e dalla biogenetica è possibile, infatti, disvelare le pratiche e gli ordini discorsivi che rendono merce i corpi o pezzi di corpi nel mercato, così come assumendosi la logica secondo cui non v’è biopolitica senza tanatopolitica si rifiuta il principio di rimozione permanente sull’inumano o sul disumano presenti nelle società globali (guerre, gestione della paura, il fantasma del nucleare etc.). Ma c’è anche di più. Questo bisogno di collocare le varie declinazioni della complessità generata dalla condizione postumana diventa, per Braidotti, un’occasione fondamentale anche per riflettere sul ruolo delle scienze umane e sociali, nonché sul ruolo delle Università. Il volume, infatti, si compone di quattro parti, tutte collegate tra loro: il postumanesimo in tutte le sue declinazioni, il postantropocentrismo, l’inumano (ovvero le tanatopolitiche) e le scienze postumane.
Con l’ambizione riuscita di tracciare un grande quadro di riferimento l’esito di questa ricerca tocca da vicino anche la postura politica da assumere dinanzi a queste radicali trasformazioni dell’umano, della vita e dei saperi. La “politica affermativa” di Braidotti – come abbiamo già detto mai liscia e messianica, ma sempre caratterizzata da un alto livello di complessità – si attesta, come sempre nei suoi lavori, soprattutto su due linee: il ripensamento delle soggettività nel postumano e la necessità di tradurre la politica attraverso una nuova etica pubblica. Ma è proprio qui che collocherei i miei punti di domanda: da cosa può essere data la misura nell’epoca della dismisura prodotta anche dal postumano? Situarsi criticamente nell’oltre, inventando una nuova etica, è davvero così facile se la governance neoliberale e il capitalismo, sempre più veloci di noi, svolgono in prima battuta una funzione antropofagica sia dell’umano che del suo desiderio?
Insomma, al di là di ogni bisogno e desiderio di produrre nuove politiche affermative dentro la condizione postumana, non sarebbe anche utile capire quanto, di fatto, l’estrazione di valore e plusvalore, dentro la logica dell’accumulazione del capitale, tocchi e produca prepotentemente il senso stesso della vita e della morte? Qui le strade tornano ad essere due: o una nuova etica pubblica dentro la linea del divenire e delle metamorfosi prodotte dalla condizione postumana, come suggerisce Braidotti, o la sottrazione, la resistenza, il conflitto per difendere quel che resta dell’umano, nel senso della sua irriducibile materialità. Io propenderei per seguire entrambe le strade perchè non è detto che sia sufficiente seguire l’avanguardia per produrre potenza critica al suo interno. La storia recente e la crisi della nozione stessa di società, così come la crisi irrevocabile delle scienze umane e sociali, ci raccontano una storia un po’ più tragica.