Riccardo Guidi ha posto come prima questione la necessità di riconoscere che se l’accesso al lavoro retribuito è stato un terreno importante per l’emancipazione femminile, esso si rivela anche una trappola che cattura la differenza ai fini della produzione, mantenendo il ricorso alle donne per quanto riguarda le mansioni della cura e pretendendo di trasferire quelle stesse attitudini sui contenuti dell’attività lavorativa. D’altra parte secondo Guidi la peculiarità dell’oppressione che sperimentiamo in epoca post-opportunità ha una forte componente generazionale e quindi trasversale rispetto al genere, tanto che secondo lui la divisione uomo-donna è oggi meno forte di altre asimmetrie.
Su questo punto abbiamo discusso il fatto che se da una parte si assiste in effetti, con la femminilizzazione dei modi di produzione, ad una generalizzazione della condizione femminile anche agli uomini, in particolare per quanto riguarda i più giovani, dall’altra l’asimmetria uomo-donna viene confermata in questo nuovo contesto in cui le donne rimangono in alcuni casi al margine (pensiamo all’occupazione nel Meridione) o non valorizzate (differenze di salari) o combattute tra l’impegno lavorativo, sempre più pervasivo, e quello domestico, che di fatto almeno nel nostro Paese continua ad essere assolto prevalentemente dalle donne.
Guidi ha poi evidenziato la prospettiva espressa nel numero della rivista dal testo di Carmen Leccardi secondo cui le donne possono rappresentare altri, ma resta da chiarire in che senso ciò possa avvenire; noi riteniamo che questa opportunità non debba darsi come un parlare per altri, ma piuttosto come un intreccio di relazioni potenziate dal sapere e dalla pratica politica femminili, che grazie alla loro trasversalità, generazionale, di classe, etnica, incrociano già altre differenze, sono già nelle condizioni di creare nuovi discorsi, azioni, alleanze.
Ilaria Possenti ha rilanciato le questioni sollevate da Riccardo Guidi, riprendendo il numero dedicato al tema del lavoro dalla rivista Genesis, in cui si legge appunto che la frattura generazionale sembra oggi più ampia di quella di genere, e suggerendo che possa trattarsi di una questione di generazione che si capisce meglio mediante una questione genere.
Rispetto a questa interpretazione credo che invece si potrebbe dire che si tratta di una questione di genere che diventa evidente a tutti nel momento in cui si fa generazionale e trasversale, mentre cioè il “biocapitalismo”, per dirlo con l’espressione di Cristina Morini, impone anche agli uomini una condizione storicamente ben nota alle donne.
Ma soprattutto anche Ilaria Possenti sottolinea che la dimensione generazionale del conflitto segnala la necessità di guardare a come viene agito da altre differenze rispetto alla differenza di genere.
Intanto il lavoro delle donne, nella ricerca di autorealizzazione da una parte e di autonomia materiale dall’altra, sta prendendo sempre più la forma di un buco nero in cui buttare le proprie attitudini fino alla trappola della disponibilità permanente.
Un altro aspetto discusso da Ilaria Possenti è il fatto che nel numero sembra ci sia un certo imbarazzo rispetto al termine progetto e che al progetto si preferisca l’immaginazione che sarebbe però meno concreta, meno capace di incidere sulla realtà. L’insofferenza verso questa parola deriva dal fatto che il progetto costituisce la forma prevalente in cui si dà l’esperienza del nostro fare, a partire da quella lavorativa per finire alle implicazioni su altre sfere dell’esistenza, di un fare che però sembra scollegato dai nostri desideri, costituito da una serie di attività e possibili tutti plausibili ma non del tutto scelti, su cui è difficile far presa per costruire vero cambiamento.
Anche il termine precarietà è assente del numero, volutamente inutilizzato perché ci sembra che la precarietà non esaurisca la questione, ma sia piuttosto una forma che potenzia il modello lavorativo che si va imponendo e ne aumenta il potenziale ricattatorio, riducendo al contempo gli spazi di relazione e di azione collettiva (poiché siamo tutte e tutti impegnati nella lotta per farci “confermare”), un meccanismo che enfatizza la nostra vulnerabilità e la contraddizione di barcamenarsi tra la necessità di reinventarsi continuamente per non essere improvvisamente espulse/i, l’impegno assoluto che dedichiamo al lavoro e la sensazione che ne segue di essere indispensabili e allo stesso tempo lo scoprirsi inessenziali quando l’impegno di mesi viene vanificato alla scadenza di un contratto che non sarà rinnovato.
A questo proposito si può dire che il lavoro precario è contesto ideale ma non esclusivo dell’espropriazione dei talenti, delle intelligenze e in generale delle soggettività, se si pensa agli schemi di pressione per l’autosfruttamento sperimentati anche nel contesto di lavori strutturati, continuativi e tutelati da contratti regolari.
Ancora una volta la retorica dell’assunzione di responsabilità e del portare se stessi al mercato si salda con la spinta a competere, per salvarsi, per ottenere riconoscimento o per uno status superiore, che ci tiene ancorati alle regole del sistema.
Ripristinare la solidarietà al posto della competitività diventa allora precondizione per affrontare la questione del lavoro in un discorso che tenga conto nuovamente del bene comune.
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