La festa è qui. Grande Seminario di Diotima – Verona, ottobre-novembre 2011

LA FESTA È QUI E ORA, E OVUNQUE SIANO LE DONNE
Uno scambio di battute tra le protagoniste del Grande Seminario di Diotima 2011

Così sono arrivata al femminismo,
che è stata la mia festa.
Carla Lonzi, Taci, anzi parla. Diario di una femminista

Quello della festa è un tempo eccezionale, addirittura divino. Niente a che vedere con la monotonia della vita quotidiana: un giorno uguale all’altro, ancora e ancora. Ecco perché le donne, tenacemente ancorate alle cose materiali, per molto tempo non sono state invitate. Oppure venivano accolte, qualche volta, ma come addobbi e oggetti di scambio. La festa era sempre altrove.
Invece no, sostengono le protagoniste del Seminario di Diotima: la festa è precisamente qui e ora, e ovunque siano le donne. Per esempio, la redazione di una rivista, luogo di appuntamento per un gruppo di studentesse. O un teatro occupato da donne e uomini che hanno deciso di prendersene cura e di riscrivere lo statuto del bene comune o, ancora, la stanza in cui alcune studiose lavorano insieme per riscrivere la Bibbia assecondando un criterio differente. O la Plaza del Sol a Madrid, dove lo scoraggiamento cede il passo alle risate del movimento del 15 maggio, o le strade in cui il popolo boliviano manifesta la propria gioia per una costituzione nuova, più fedele al codice della vita.
E, naturalmente, il Seminario stesso. Là, ospiti e organizzatrici scambiano battute tra loro. Sono, in ordine alfabetico, Elisabetta Cibelli, Federica Giardini, Stefania Ferrando, Valeria Mercandino, Luisa Muraro, Gemma del Olmo Campillo, Antonietta Potente, Tania Rodríguez Manglan, Diana Sartori, Antje Schrupp, Chiara Zamboni.
Diana lancia un’idea: «La rivoluzione femminista è stata una grande festa: dopo una lunga, snervante attesa, le luci hanno iniziato a scintillare». Una festa grande, quella del femminismo, durante la quale è accaduto qualcosa di inedito: «la rivoluzione femminista», secondo Diana, «è un’ontofania creativa, interrompe il tempo lineare, scavalca i parametri della prevedibilità».
«La festa è occasione di relazione nutrita di affetto e intelligenza, specialmente in queste circostanze», precisa Chiara. Non a caso dice intelligenza, che è inter-legere, ossia cogliere, comprendere tra, nel bel mezzo delle cose e insieme alle altre e agli altri. L’intelligenza funziona nella necessità, l’intelligenza riguarda la pratica. «A causa della crisi economica», prosegue Chiara, «accade che nella logica dominante vita e desiderio siano divenuti insignificanti». Marginali, senz’altro trascurabili. «Se quello che noi facciamo non viene preso in considerazione dal mondo, c’è qualcosa che non va tra noi e il mondo», sostiene.
Allora bisogna tagliare corto con le faccende inutili e guardare alle questioni essenziali: «le relazioni sono più importanti che mai perché su di esse poggia il senso della vita, materiale e simbolica», riepiloga Chiara. Al punto che, ribatte Federica, «posso rinunciare alle parole che conosco quando vedo che chi ho davanti si mette in gioco con intensità». Luisa raccomanda pertanto di «alimentare questa potente corrente di relazioni, vera effettiva alternativa alla corrente del potere e del denaro». Le relazioni prima di ogni altra cosa.
Per questo la festa non è più occasione eccezionale da salotto buono e abiti luccicanti, ma di ogni giorno e in qualunque luogo ci sia piena presenza femminile. Ormai, ovunque. «Eppure è sempre un po’ meno di quello che vorremmo», commenta Chiara. Sì, perché sempre si insinua un persistente e «fiero antagonismo tra desiderio e lamento, che risulta dal considerare lo scarto costitutivo tra noi e la realtà come un fallimento, come una ferita personale». Una ferita, una piccola lacerazione, poi un lamento, per l’appunto. Elisabetta Cibelli suggerisce, a questo proposito, di «rimanere nel presente della ferita e schiudere una feritoia in cui mettere in gioco la differenza per aprire varchi di inaudito, senza eludere il presente». Trasformare la ferita in feritoia consente di prendere coscienza del fatto che, riprende Chiara, «lo scarto è la realtà che viviamo. E dalla lettura dei limiti della realtà nasce il desiderio d’altro». In pratica, considerare fino in fondo lo scarto condurrebbe al desiderio: dal lamento al desiderio, con un salto repentino, immediato, senza pensarci su. Esattamente qui, proprio ora.
Una parola familiare, senz’altro storica, e ancora molto efficace: desiderio. Stefania racconta che quando era studentessa di filosofia era triste perché sapeva bene di avere acquisito strumenti validi, ma non aveva la più pallida idea di cosa farsene: «come di un vestito troppo largo o troppo stretto». Vale a dire, fuori misura. Ma sentiva anche il desiderio di fare qualcosa di grande, «grandezza ma anche paura insieme», ammette. Paura che il desiderio non si realizzasse, o meglio non si facesse reale, non trovasse una forma per accedere alla realtà. Una questione di simbolico, allora. Stefania assicura tuttavia che il desiderio somministra la «forza di rapportarsi alla realtà cambiando qualcosa, perché il desiderio passa in noi e vibra della nostra singolarità, ma non si esaurisce lì: continua a circolare intorno a noi». Per questo, conclude, è importante «mettere in circolo i desideri in modo che sappiano fare mondo e diventino promettenti». Un desiderio più grande di noi, come una promessa di felicità.
Le donne, secondo Antje, «hanno un gran desiderio di politica, ma occorre che la misura del loro successo non sia quella maschile, altrimenti vivono un’esperienza frustrante»: rassegnandosi a rinunciare al loro desiderio autentico, rimangono all’interno della politica, certo, ma con modalità prescritte, estranee. Assecondando quelle modalità, offuscano la presenza delle donne. «In Germania, attualmente, è facile trovare una donna in posizione di potere, ma questo non significa che ci sia parità», puntualizza Antje. E chiarisce: «per assumere una misura davvero efficace, le donne non devono essere confrontate con gli uomini ma con le altre donne». Il fatto è che «se il loro obiettivo è il potere tacciono il fatto di essere donne, se invece hanno intenzione di cambiare le cose lo rendono visibile». La differenza va illuminata, rinvigorita in ogni contesto. Antje chiama questa pratica «mediazione della differenza».
Si percepisce «il brivido di aver intuito qualcosa di profondo: la necessità di vincolare la mia stessa differenza femminile al tempo presente, confrontarmi con altre e altri, con gioia», conferma Elisabetta.
La differenza femminile, il presente. Di nuovo: ora, qui. L’immediatezza.
La crisi è «perdita della misura, quando le mediazioni che prima funzionavano non funzionano più, e questo è disorientante», ammette Federica. D’altro canto il disorientamento è la nostra prova. Infatti, «se la fine della funzione della legge del padre per un ragazzo è lutto da elaborare, per una ragazza non lo è affatto. Ecco perché le donne sanno stare nell’urgenza del presente disorientante». Le donne sono vere specialiste dell’immanenza.
Detto per inciso, alla radice della parola crisi (in greco khrìsis) si rintraccia il significato di separazione, lotta, evento, decisione ma anche, sorprendentemente, forza distintiva. Forza di rapportarsi alla realtà cambiando qualcosa, «forza di partire da sé, di conservare la propria parzialità e irrobustirla», dice Valeria, «di lavorare per acqua, sapere e territorio, beni comuni che smontano la differenza tra materiale e immateriale». Allora «chi ha a cuore le cose deve averne cura», afferma Federica, perché «politica è passione della contingenza». Vuol dire che prima accade un incontro e poi si inventano le parole per nominarlo e per significare la differenza sessuale. Disidentificazione? Per niente, dato che le parole non cambiano i corpi e le cose. In tal modo si trova una misura valida sempre e ovunque: la misura della differenza. Federica la spiega in questi termini: «quando la partecipazione della differenza lavora per sottolineare la differenza».
E la differenza femminile lavora perché le donne ci sono, eccome. Sono dappertutto e sono punto di riferimento imprescindibile. Senza sensi di colpa, hanno smesso i panni simbolici e inefficaci della vittima, hanno iniziato a parlare tra loro, tanto, e hanno modificato il patto sessuale. E gli uomini che riconoscono loro autorità guadagnano pensiero. «Quello che era impossibile è già accaduto, è stato fatto e quindi era possibile», garantisce Diana.
In un momento come questo in cui, illustra Federica, si ha l’impressione di «saltare in aria senza avere la più pallida idea di dove si atterrerà, perché di sotto la terra si muove», le donne si rivelano grandi saltatrici, come indica Diana in una sorta di spassosa metafisica del salto: specialiste fin da bambine nel salto alla corda in due e poi, nella vita di tutti i giorni, nel salto all’ostacolo, storicamente hanno effettuato salti nel vuoto, salti mortali e salti di qualità. Hanno chiuso gli occhi e rischiato, risolute, senza previsione, verso il nuovo.
«Spesso si accorgono di aver saltato quando il salto è già stato fatto», commenta Diana. Proprio come la libertà femminile: c’è sempre stata, ma dopo il salto del femminismo vediamo quanta libertà c’era già. Il salto cambia le condizioni della nostra libertà, dimostra che non c’era alcuna costrizione, alcun vincolo inscindibile. Il salto non è andare altrove, ma è trascendenza e immanenza insieme. È a questo punto che si accendono le cose concrete e comincia la festa.
Dunque non c’è posto più opportuno per saltare del qui e ora: «coordinate anarchiche», le chiama Antonietta. Senza ordine? No, in un ordine differente, una sorta di mappa che fornisca coordinate valide alle sollecitazioni della vita sociale, senza mettere da parte la passione per il presente, per la contingenza: non logica scrupolosa e formule al posto delle cose, ma toccare, guardare, annusare, immaginare.
In quest’ordine, che stiamo costruendo, una donna che si occupa di beni comuni, come l’acqua, ottiene il premio nobel per l’economia. E la perdita di fiducia lascia spazio alla creatività di un movimento grande.
La festa è davvero qui, allora. Una festa per tutti e per tutte, una festa spassosa ma anche solenne. Per questo, non possono mancare le invocazioni. Antonietta, infatti, suggerisce di ripetere nomi di cose concrete proprio come fossero litanie. Eccone alcune: contingenza, presente, relazioni, desiderio, differenza, forza e salto. Di gioia.

Report di Chiara Turozzi
Chiara Turozzi

Chiara Turozzi si è laureata in Filosofia all'Università di Verona con una tesi che riconduce la posizione del cyberfemminismo alla metafisica platonica e all’economia binaria. Vincitrice del premio Maria Grazia Zerman per gli studi sulle donne, (...) Maggiori informazioni