La prima domanda vuole essere autobiografica. Come ha incontrato il pensiero delle donne e il femminismo e come lo ha accolto?
Allora in prima istanza c’erano dei luoghi di riferimento culturali e teorici e, dato che l’alfabetizzazione su questi argomenti è obbligatoria, perchè questo è un fenomeno che ha anche espresso una certa capacità creativa nel linguaggio, per un periodo è stato necessario assumersi la capacità di capire questa forma di espressione. Inoltre mi ha aiutato molto quella che sarà l’elaborazione di due punti di riferimento, punti di elaborazione molto forte di questa tematica, cioè la Libreria delle Donne di Milano e Diotima di Verona. E la conoscenza personale di alcune delle esponenti del femminismo, posso richiamare Adriana Cavarero, Ida Dominjianni, Maria Luisa Boccia.
Poi per me c’è stato anche un altro luogo di apertura al tema che oggi non viene richiamato, ma credo fosse importante in quella fase tra gli anni Settanta e primi anni Ottanta. Mi riferisco al fatto che questa tematica entrò anche nella politica, non astrattamente, ma proprio nel luogo della politica dove io ero situato, cioè nel PCI. Dove, parliamo del PCI di Berlinguer, il femminismo ebbe un’irruzione molto significativa, tant’è vero che se ne parlava molto, perché quello era un momento in cui ebbe un grande impatto, anche pubblico. Oggi è più un fenomeno di élite, allora fu un fenomeno di massa perché c’era un coinvolgimento di grandi numeri delle donne. Entrò nel PCI in questo senso, perché diventava un elemento di contatto con qualcosa che era esterno al partito ma si riconosceva come molto significativo. Allora nel PCI c’era Livia Turco che si occupava molto di queste cose. Andava in uso un termine che poi si è perduto che era quello del “popolo delle donne” che è un popolo particolare, che marcava una sua specificità e non era una cosa puramente rivendicativa, come poi è diventata anche all’interno dei partiti. Era una cosa più seria, era un fatto più serio.
Quindi l’ho presa un po’ da questi due lati, un lato teorico attraverso la conoscenza delle elaborazioni di questi nuclei intellettuali, e un lato politico attraverso un’esperienza e una pratica di partito che mi stimolava a prendere visione del problema e di parteciparvi.
Allora ebbi una forte apertura, appunto da un lato una curiosità intellettuale per un’elaborazione che era di tutto rispetto, di notevole livello e, da un punto di vista politico, perché mi sembrava un grande tema di presenza del partito nella società, anche di una presenza nuova rispetto al passato. Nel PCI ce n’erano di cose su questo versante da superare. Ripeto, era il partito di Berlinguer, insomma molto aperto a quello che si muoveva nella società, a quelli che allora si chiamavano i movimenti.
E da un punto di vista teorico che effetto ha comportato l’incontro con il pensiero delle donne?
L’emancipazione in fondo è una ricucitura, io l’ho sempre vista come una forma che sì, ha contato molto nelle lotte femminili del Novecento, però fa parte di quelle lotte che possiamo definire “democratico-progressiste”, verso le quali io non ho mai avuto grandi simpatie.
Il tema della differenza di genere tra uomo e donna, è quello che mi interessava. E devo dire che l’elaborazione di quei tempi era molto seria su questi temi. Guardavo poi alle elaborazioni teoriche maschili della politica che erano allora come oggi, forse oggi ancora un po’ peggio, erano molto povere, mediocri. Invece lì trovavo una brillantezza di pensiero che mi stimolava a capire e a vedere. E questa brillantezza era anche espressa in questa forma di invenzione del linguaggio, che è sempre una grande cosa, perché, quando si rompe, bisogna dire le cose in modo diverso da come si dicevano prima. Non solo cose diverse, ma anche dirle in modo diverso da prima. E qui, nel femminismo della differenza, c’erano queste due cose che si legavano bene.
Però sempre nel Tramonto della politica e in altri scritti lei ha nominato il femminismo come una rivoluzione del dopoguerra e da una parte riconosce questa forza al Movimento delle donne, d’altro canto però afferma anche che è stato una rivoluzione fallita, perché “arrivato tardi”.
Il femminismo a suo modo è andato ad impattare in quest’epoca in cui il pensiero potenzialmente rivoluzionario si è svolto in un’età di restaurazione. E questo è il motivo per cui credo non abbia sfondato a livello di massa. E’ dovuto regredire a quel livello di élite come dicevamo prima. Si è persa quella carica che stava nel popolo delle donne e dopo questo popolo non s’è più ritrovato. Anzi, s’è creata una forte frattura tra il popolo delle donne e queste élite intellettuali molto raffinate. Ma questo non per colpa loro, ma per colpa dell’epoca in cui la cosa si è verificata.
E lei dice che la rivoluzione femminile, usa questi termini, è stata “solo culturale” e “non politica”. Potrebbe spiegare meglio questa distinzione?
Il limite della cultura del ’68 è stato quello di essere stata un’irruzione un po’ anarchizzante, un po’ nichilistica, poco costruttiva. E questo non ha aiutato il pensiero delle donne, che poi è andato avanti per conto suo, ma non ha avuto quell’impatto sociale che si pensava e che si sperava.
Oggi sono molto preoccupato della condizione femminile complessiva. Perché vedo una disparità troppo forte. Se guardiamo l’immaginario, una parola molto a cuore del pensiero e della pratica femminista, l’immaginario femminle oggi è devastante, a livello pubblico, mediatico, a livello di pubblicità. Ecco l’insufficienza delle culture degli anni Sessanta, che in qualche modo sono state deboli, si sono mostrate deboli, malgrado avessero allora una grande forza.
Giustamente si è affermato che probabilmente non basta nemmeno abbattere il capitalismo per risolvere il problema femminile, anzi si sarebbe riproposto anche in una diversa forma sociale, come poi di fatto è stato in altri tentativi avvenuti in alcuni paesi. Ricordo che un benevolo motivo di polemica nei miei confronti che ho sempre negato è stato: “Tronti, dopo aver visto che il conflitto di classe non funziona più, si sposta sul conflitto dei sessi”. Era una critica ingiusta perché non sono convinto che il conflitto di classe sia estinto ma si sia solo trasformato. Piuttosto ho apprezzato quel tipo di specificità del discorso della differenza che spostava il terreno del conflitto su altri piani.
Poi naturalmente loro hanno fatto e stanno facendo ancora, ma il contributo che hanno dato bisogna prenderlo per quello che è, non trasformarlo in altro.
Oggi porto avanti un discorso che si può definire “il lavoro dopo la classe”. La conflittualità sociale non è estinta, si è estinta solo questa contrapposizione esplicita tra grandi classi, perché si sono estinte le forme soggettive che la esprimevano. Non c’è più il capitalista collettivo di una volta, Gianni Agnelli. Il capitalista collettivo semmai è a livello mondiale, e poi non si esprime più in figure individuali, ma in strutture oggettive, in grandi forme, in grandi concentrazioni finanziarie. Oggi il capitalista collettivo è la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale. Dall’altra parte, non c’è più nessuna espressione soggettiva del mondo del lavoro, ma c’è una stratificazione del lavoro che è molto forte. La Libreria delle Donne, per esempio, Lia Cigarini e altre, hanno una grande attenzione per il tema del lavoro femminile. Questo è molto importante, perché secondo me nella stratificazione orizzontale, nella frammentazione del mondo del lavoro, la femminilizzazione del lavoro è una delle componenti essenziali. C’è anche una femminilizzazione dell’impresa, in Italia abbiamo addirittura la presidente di Confindustria, quindi questa è una presenza da valutare.
Secondo me queste mutazioni sono destinate a rilanciare forme molto evidenti di conflitto. Non sappiamo se verranno espresse politicamente o meno, su questo sono molto scettico, non vedo forze in grado di assumere politicamente questi temi, però socialmente, quindi oggettivamente, sicuramente ci sarà una conflittualità sociale che non tenderà a scemare, come del resto stiamo vedendo. Oggi non viviamo solo una conseguenza della crisi, ma la conseguenza di una fase di dominio neoliberista che aggrava il disagio sociale. Lì il conflitto si riproporrà e nel conflitto è molto importante vedere questa presenza femminile, che sarà anche elemento soggettivo di spinta e in parte, auspicabilmente, anche di avanguardia. E’ comunque qualche cosa da analizzare. E, ripeto, le analisi ci sono, si stanno facendo. E lì c’è il problema del declino della politica che secondo me nuoce molto anche a queste forme di pensiero, compreso il pensiero della differenza.
Una mia diversità rispetto al loro percorso riguarda sempre il tema della politica. Lì non riesco a trovare un ponte di accordo, anzi trovo molti elementi di disaccordo. Perché io penso che la politica abbia una sfera autonoma, che vada coltivata per sé, la politica per me è ancora la politica moderna e per loro non lo è più. Una cosa su cui ho molte riserve è il modo in cui parlano di politica, perché è vero che la differenza è stata una forte identità conflittuale, però a volte quando la mettono in politica sembrano volerne attutire l’effetto. Pensare alla politica come uno schema di relazione, invece che come uno schema di conflitto, beh questo è un punto di dissenso. Del resto è una cosa che non ho mai taciuto, né loro lo hanno taciuto e che ripropongo sempre. Io ho un’idea della politica che è quella, molto polarizzata, mi piace molto il criterio dell’amico/nemico, cosa che fa saltare sulla sedia le mie amiche femministe.
E quindi non è ammesso pensare che il conflitto, la politica che lei ha in mente, possa essere considerata come politica neutra e quindi, da un punto di vista femminista, un neutro che in realtà è pensiero maschile mascherato?
Sì, una delle cose che mi ha sempre affascinato, fin da principio, era proprio questa critica. Una volta dissi che la mia illuminazione nei confronti del femminismo della differenza è avvenuta leggendo il testo della Libreria delle Donne di Milano, Non credere di avere dei diritti. La penso proprio così, non ho mai coltivato la tematica dei diritti, della cittadinanza. Le ho sempre viste come una forma ideologica di mascheramento dei conflitti reali. Di pari passo, l’altra cosa che mi affascinava era la critica dell’individuo neutro, cioè la critica dei diritti dell’’89. Già lo rivendicavano le femministe della rivoluzione francese: i Diritti dell’Uomo erano solo i diritti dell’uomo, del maschio. Mi piaceva molto, perché era quel che avevo pensato e imparato dal giovane Marx: la critica dell’uguaglianza formale tra gli uomini, che presuppone che l’uomo sia un individuo neutro e che non contempla la differenza. Spezzare in due l’individuo neutro è stata un’operazione teorica di grande impatto, di grande importanza. Però, rimane questa distanza che a volte ci porta un po’ a polemizzare. Con riconoscimento reciproco.
Volevo però anche dire che, ultimamente, il femminismo è un po’ spento. Non ritrovo più la carica iniziale, ripeto, le difficoltà sono molte, l’ho detto in una formula: “la rivoluzione femminile è una delle rivoluzioni fallite del Novecento”, loro sostengono di no, dicono che è l’unica riuscita. Però questo non mi convince, non vedo dove sia la vittoria. Proprio per quel che dicevamo prima, perché il femminismo ha avuto un po’ lo stesso destino di altre idee rivoluzionarie del Novecento. Non sono riuscite a parlare al popolo, alla grande massa delle persone, nemmeno alle persone più portate ad ascoltare quel discorso, e così si sono chiuse. Come la sinistra si è chiusa nel ghetto dei ceti neoborghesi acculturati – perché questa è la sinistra che abbiamo oggi – i ceti medi riflessivi, e ha consegnato il popolo alle pulsioni della destra. Lo stesso destino ha avuto il femminismo per certi versi. Si è chiuso in luoghi prestigiosi di elaborazione, mentre il popolo delle donne sta lì a guardare le telenovelas di Mediaset o della Rai. Oppure, la parte emancipata è diventata una parte del tutto omologata. Mi chiedo: che ci sia la Marcegaglia invece che Montezemolo alla guida della Confindustria, che cambia? Non c’è stata una rivoluzione. Se metti Rosi Bindi invece che Pierluigi Bersani non è che questo cambia la situazione. E quindi c’è qualche cosa che non mi torna. Non basta il passaggio dall’uno all’altro e tanto meno basta chiedere le quote. Ha vinto il paradigma emancipazionista e ha perso il paradigma della liberazione. La grande differenza che diceva: “adesso l’emancipazione l’abbiamo acquisita e vogliamo la liberazione della donna”, ebbene la liberazione della donna non c’è stata, cosa che loro non vogliono ammettere. Ma secondo me è un blocco. Se lo riconoscessero, potrebbero fare uno scatto ulteriore, anche di pensiero, che sarebbe interessante fare poi anche insieme.
Sempre nella Politica al tramonto lei delinea il maschile come un mondo da esplorare, però non dice nulla di come possa essere una risorsa per ricostruire una politica, ammesso che ci possa essere una ricostruzione. Quindi mi chiedevo, se la critica del neutro comporta anche una critica della politica moderna, come ci si inventa una politica nuova, che non sia più la politica moderna, ma che abbia la stessa forza conflittuale?
Invito dunque a rifare sempre i conti con il Moderno. Siccome penso che siamo in una tarda Modernità, non credo affatto che poi i paradigmi della politica moderna siano conclusi. Sono emarginati. Per me “politica al tramonto” significa proprio questo, che la politica non è com’era abituata ad essere nel Novecento, il che non vuol dire che non ci sia. Piuttosto c’è in forme depravate come oggi e poi in forme possibili di ricostruzione di conflitti ad altro livello, di ulteriore conflittualità, insomma quello che io auspico, o almeno spero, che da qualche parte esploda. E invece loro considerano la questione del tutto chiusa e quindi si mettono nel dopo, una sindrome tipica dei movimenti che mettono in discussione quello che c’è, e poi però si perdono, non si ritrovano, non hanno continuità, non mettono radici e quindi poi non cambiano le cose. Questo è insomma quello che mi preoccupa e non so come uscirne. Secondo me le donne dovrebbero avere uno scatto, prendere altri modi di intervento, forse anche più radicale.
Io chiedo loro: ma perché quando accendete la televisione e vedete questo femminile esposto e declinato in una sorta di corpo animale che è esposto a tutti, perché non vi ribellate? Perché quando parla uno Sgarbi, che narra del suo rapporto con le donne e dice “io sono il maestro di Berlusconi”, non lo schiaffeggiate? Dovrebbero in qualche modo esprimere il simbolico che tanto amano. Farlo vedere. Altrimenti piano piano non si vedranno più e ho l’impressione che si estingueranno anche i luoghi di elaborazione alta.
Un’ultima domanda. Cosa può guadagnare il maschile da un pensiero della differenza sessuale?
Ci può guadagnare ritrovando il proprio limite, la propria sfera limitata di presenza nel mondo. Perché ha avuto questa idea di onnipotenza, nel senso che era il centro di tutto, il comando di tutto. Oggi vedo che le cose sono già molto rovesciate, anche in modo a volte preoccupante: basta vedere i propri figli, gli amici e le amiche dei figli. Vedo brillantezza nelle giovani donne e depressione nei giovani maschi. Le prime stanno prendendo la guida di tutto, delle professioni, degli studi, e i secondi arrancano un po’. Per un periodo sarà salutare, riequilibrerà un po’ la condizione, ma non vorrei andasse avanti troppo a lungo.
La politica al tramonto, Einaudi, Torino 1998
Ma Tronti nemmeno si esime dal riconoscere i limiti e il disaccordo sull’efficacia e la riuscita della rivoluzione femminile, che a suo parere è rimasta solo “una cultura […]. Meglio che niente”.
Cfr. soprattutto pp. 41-44, 77-78, 134-135.
Intervista a cura di Alessandro Grassi