Fabrice Olivier Dubosc – Il nome del figlio. Diaspore ed ecologia culturale, eredità dei padri

Fabrice Olivier Dubosc – Il nome del figlio. Diaspore ed ecologia culturale, eredità dei padri

Fabrice Olivier Dubosc

Nel desiderio di compensare l’inevitabile logocentrismo della mia relazione ho pensato a un breve incipit musicale che introduce il motivo principale del mio intervento: la generatività e il rapporto creativo con l’ eredità. Il primo brano è tratto da un famoso musical di Broadway e il secondo la sua reinterpretazione al sassofono da parte di un grande interprete della musica afro-americana.

  1. L’ontonomia come legge relazionale

Dal punto di vista dell’antropologia sociale mi sembra molto problematico disarticolare la ‘funzione paterna’ dalla sua declinazione sociale. L’antropologia sociale ha sottolineato la complessità e varietà di modi in cui i sistemi di parentela e l’ organizzazione sociale, la lingua, le cose e le narrazioni, si articolano per costituire il sentire condiviso di una società. Qualsiasi tentativo di sintesi rischia di essere astratto e etnocentrico. In questa diversità qualcosa però accomuna:  la disarticolazione fa problema. Guardando all’Italia verrebbe da dire che il familismo  – la difesa scorata e rivendicativa dell’orticello familare, del ‘campo’, della propria ‘parte’ – è il sintomo di una disarticolazione che si manifesta ciclicamente sul piano sociale in forme analoghe: derive immunitarie, populismo vittimario, conformismo omologante delle rivendicazioni e anche nella supposta trasgressione di un godimento immediato  e mal appagato, degrado della cittadinanza e della fiducia nella possibilità di co-costruzione della polis. Derive che hanno preso il posto di processi storici di soggettivazione animati da un orizzonte narrativo più vasto. Proporre psicoterapia oggi credo voglia dire proporre psicoterapia critica e psicoterapia degli immaginari e delle pratiche che ci costituiscono e che spesso ci assoggettano. E riflettere anche su come il discorso dell’individualismo liberista tocchi anche le pratiche di una certa psicoterapia ‘adattiva’. Tutto questo riguarda anche la metodologia del conoscere: la fedeltà esclusiva alla propria specializzazione rischia di impoverire le connessioni e la libertà del pensiero. Paradossalmente la ricerca ossessiva delle radici rischia di non accogliere le eredità. Per esempio, dopo Devereux, una parte dell’etnopsichiatria francese ha voluto buttar via l’acqua ‘sporca’ del contesto positivista in cui nasce la psiconanalisi rischiando di liquidare anche i contributi vitali e proteiformi che da essa sono nati. O ancora – per restare nella sfera di interesse legata alla ‘cura’ di padri (e figlie) migranti – in ambito italiano abbiamo una etnopsichiatria ‘critica’, una etnopsichiatria ‘radicale’, una etnopsichiatria ‘sistemica’, una etnopsicologia ‘analitica’, una psicoterapia ‘transculturale’, una tradizione importante di antropologia medica. Nella ricerca della ‘differenza specifica’ di ogni orticello rischiamo non solo di diventare resilienti al dialogo ma di diventare sordi al contributo degli studi post-coloniali, della filosofia, del pensiero femminista, della narratologia, delle neuroscienze, delle prospettive interculturali. Differenze – vertici di osservazioni – finestre sul reale che offrono panorami non sempre assimilabili o unificabili, ma che potrebbero almeno incuriosirci se non diventare deposito e bene comune. Insomma auguriamoci che i saperi vecchi e nuovi non vengano usati come diserbanti immunitari verso i saperi degli altri.

In molte culture il padre non può nemmeno essere considerato nella sua supposta funzione psichica a prescindere dall’articolazione sociale. Lo psichiatra senegalese Ibrahim Sow diceva per esempio che in Africa un conflitto edipico centrato sul romanzo familiare è inconcepibile. Il conflitto tra generazioni implica sempre una riorganizzazione complessiva degli equilibri sociali. (Sow 1971). In Africa là dove l’autorità relazionale e l’interdipendenza entrano in crisi si moltiplicano i processi per stregoneria e i conflitti tra forme del potere e poteri locali diventano estremi.  Questo ci aiuta a capire perché in un’epoca in cui le logiche post-coloniali fomentano le divisioni etniche, e le logiche del mercato regolano occultamente la protezione armata delle enclavi ricche di risorse la manipolazione delle dinamiche sociali ha trasformato le reti dell’interdipendenza e degli obblighi reciproci, rafforzando i potentati locali in un sistema di clientelarismo al servizio di un principio mortifero di profitto indiscriminato che divora risorse e vita e che ha prolungato le dinamiche coloniali in nuove forme. (Mbembe 2010)

In una prospettiva di pluralismo critico proverei però a partire da coordinate a noi vicine per individuare alcune polarità relative alla funzione paterna nella ‘fabbricazione’ delle nostre identità culturali. Per poi cercare di capire se possano essere traducibili anche in altre lingue e riconoscibili in altri contesti.

Una possibile variabile è il rapporto tra funzione paterna e legge. A un estremo abbiamo  un’identificazione con la legge, una vera e propria eccedenza pulsionale, un godimento sadico della legge del taglione. All’altro estremo c’è la via della gratifica immediata in cui la legge del ‘discorso capitalista’  per certi versi ingiunge addirittura il godimento. Gli estremi (Es e Super-Io diceva Freud) si toccano. La via di mezzo è una prospettiva generativa che propone delle tappe per strutturare l’aspirazione e il desiderio a partire dalla relazione e che diventa legge transizionale della parola e della trasmissione.

Rispetto alla prima polarità possiamo evocare nel diritto romano la patria potestà che indicava il diritto di vita e di morte – vita necisque potestas – del padre sui figli. E’ stato sottolineato da Giorgio Agamben in homo sacer che la figura del padre padrone è un analogo del sovrano. Qui le coordinate di fabbricazione dell’identità richiedono che la sovranità assoluta del pater sia garante di un ethos in cui potere e conquista restano centrali. In questo Levi-Strauss aveva ragione: più aggressivamente una società si pone in termini di conquista, colonizzazione e trasformazione più è intrinsecamente autoritaria e gerarchica. E tuttavia se la figura del sovrano assoluto ha statuto di eccezione essa è tutt’altro che stabile: sia l’osservazione antropologica, che l’analisi delle fiabe – si pensi alla vicenda dei re traditi nelle Mille e una notte –  sottolineano un ritmo di inflazione e crisi che esige una costante rigenerazione simbolica. Dubito che – anche in ambito clinico – lavorare sulla crisi dei sistemi simbolici di parentela e sulle problematiche famigliari senza tenere a mente la crisi dell’economia psico-sociale del sistema Occidente possa bastare. Si rischia di restare impotenti di fronte alle frustrazioni del desiderio insaziabile, mentre il mito salvifico e medicinale del nuovo oggetto alimenta nell’immaginario la solita compulsione a ripetere.

Le stesse fiabe indicano che il riconoscimento della generatività e genitorialità implica non solo un accoppiamento ma una messa in gioco discorsiva. E che la legge della parola – come mostra Shehrazade – non è prerogativa di genere. (Dubosc 2003)

La polarità generativa che ci interessa non cede invece sulla creazione di nuovi orizzonti, nel dono di una processualità che già ritroviamo nel racconto di molti miti di creazione e della stessa dimensione rituale.

Nei miti di creazione Yoruba, per esempio, il dio creatore Oludumare rinuncia alla dialettica tra monismo e dualismo a favore di un’apertura costitutiva al molteplice, a ciò che si manifesta al di là di ogni dicotomia e di ogni ‘già-dato’. In molti di questi miti fondanti ritroviamo un’idea di processualità  che non coincide con quella evolutiva, storicista, hegeliana del progresso infinito della ragione occidentale. E tuttavia  si può cogliere quanto meno una costante narrativa o un’omologia funzionale del pensiero nella ricerca umana di senso di questa prospettiva ricordando la domanda che rappresenta il problema per eccellenza della filosofia greca: «perché e come dall’Uno derivano i molti?» (Reale 2003).

In ogni caso, tra i contributi degni di nota di queste cosmo-visioni ‘tradizionali’ troviamo in nuce il pluralismo e l’ontonomia, cioé la necessità che ogni persona e ogni essere visibile e invisibile partecipi alla co-creazione, al mantenimento e alla trasformazione del mondo. (Panikkar 2008)

 

Una bella descrizione di questa posizione la troviamo nel libro di Massimo Recalcati: ‘Il complesso di Telemaco’ (Recalcati 2013):

 

«Il padre non è un detentore della Legge, non sa quale sia il senso  ultimo del mondo, cosa sia in ultima istanza giusto e ingiusto, ma sa mostrare, attraverso la testimonianza incarnata della sua esistenza che è possibile – è sempre ancora possibile – dare un senso  a questo mondo, dare un senso al giusto e all’ingiusto. Ma [il compito della testimonianza paterna] è anche di trasmettere il desiderio da una generazione all’altra, di trasmettere il senso dell’avvenire: non tutto è già stato, non tutto è già stato visto, non tutto è già stato conosciuto. Ereditare non è solo ricevere un senso del mondo, ma è anche aprire nuovi sensi del mondo, nuovi mondi di senso»

 

Questa visione tutto sommato politica (nella costruzione di una casa comune)  della funzione paterna come tutela del futuro ben si accorda con i contributi antropologici e sociologici contemporanei che sottolineano come il deposito culturale sia anche risorsa per la costruzione di ciò che ancora non c’è, un aspetto che l’antropologia ha spesso trascurato a favore della visione etnicista della riproduzione del passato. In questa prospettiva la cultura è un po’ come la lingua e la coerenza culturale non è mera ripetizione di singoli aspetti, ma la possibilità di ricombinare il sistema di relazioni simboliche in modo generativo. Naturalmente non si tratta di costruire nuove dicotomie tra culture ‘aperte’ e ‘chiuse’  ma di considerare bene come si intreccino politiche della memoria e dell’oblio e politiche identitarie.

Vi è del resto tutto un pensiero e progetto di decolonizzazione che rifiuta la centralità dell’appartenenza unica e mette l’accento sull’idea di una «cittadinanza umana originaria» come diceva Fanon, di un patrimonio comune (en-commun diceva Senghor), di un Tout-monde per Edouard Glissant o per sfere di orizzontalità e etica della reciprocità per dirla con Paul Gilroy. Pensiero sintetizzato benissimo da Achille Mbembe: «il sogno di un umanesimo critico fondato prima di tutto sulla partecipazione comune a ciò che ci rende diversi, al di qua degli assoluti!»

 

  1. La falsa dicotomia tra società calde e fredde

 

Non possiamo evidentemente più accontentarci della dicotomia proposta da Levi-Strauss tra società calde e fredde (Levi-Strauss 1962). Le società calde – e la nostra per Levi-Strauss è paradigmatica – abitano il flusso storico. La loro organizzazione gerarchica sfrutta efficacemente le risorse naturali con scarso rispetto per l’ambiente ma grande capacità di trasformazione. Le società fredde, caratterizzate da semplicità e scarsa gerarchizzazione, sarebbero invece capaci di grande adattamento nella relazione eco-sistemica con l’ambiente ma incapaci di trasformazione. La fedeltà alla struttura inconscia  preserverebbe insomma il ‘buon selvaggio’ dalla processualità storica. In altre parole il padre della società calda sarebbe autoritario e dinamicamente generativo quello delle società fredde saggio e conservatore.  Oggi quasi tutti gli antropologi concordano nel dire che questa geniale dicotomia ha semplificato eccessivamente le cose: per esempio esistono società tradizionali altamente gerarchiche mentre la capacità di trasformazione non è un’esclusiva dell’Occidente, anzi vien da chiedersi in quale misura l’economia psico-sociale del sistema Occidente sia in grado di trasformare le tirannie del desiderio insaziabile, mentre il mito salvifico e medicinale del nuovo oggetto non fa che rinnovare le compulsioni a ripetere.

Altri antropologi come Clifford Geertz hanno messo in luce che questa semplificazione rischia di non riconoscere i grandi margini di variabilità delle sensibilità culturali. (Geertz 1983) Roger Bastide che è stato il primo antropologo a riconoscere la funzione terapeutica dei culti di possessione (Bastide 1961)  ha anche sottolineato la capacità creatrice e mitopoieica dell’eredità culturale – una traccia desiderante capace di ricreare un orizzonte a partire dall’infranto, capace di ricucire creativamente quel che resta del mondo, il tessuto frammentato di mito e rito che l’esperienza della schiavitù ha dislocato.

Detto altrimenti, il principio di trasformazione viene messo in moto dall’incontro tra culture e non necessariamente solo nella dinamica con cui le società calde ‘bruciano’ quelle fredde.

Oggi  la logica del mercato iperliberista sta spingendo l’ethos globale (Gramsci aveva ragione a parlare di egemonia culturale!) verso una sorta di presente contratto, incapace di memoria. Gayatri Spivak sottolineava per esempio che le tribù indigene dell’India vivono in un presente assai più esteso dei suoi studenti alla Columbia University per cui il ‘68 appartiene al passato remoto.

Con varie sfumature i pensatori post coloniali – africani, antillesi, indiani – hanno messo in luce la connessione tra diaspora e ecologia culturale, cioé una capacità di trasformazione generativa e inclusiva che non si piega allo pseudo-adattamento proposto dai modelli prevalenti di integrazione. Paul Gilroy nel suo The Black Atlanticdescrive le navi degli schiavi come luogo fondante dell’esperienza interculturale e della controcultura della modernità al di fuori di ogni essenzialismo della razza. Anche il camerunense Achille Mbembe ci ricorda che l’epoca della tratta è stata quella «in cui alcuni uomini strappati alla terra, al sangue e al suolo, impararono a immaginare delle comunità al di là dei legami del suolo… ». Uomini senza padri o forse con padri invisibili ma la cui traccia è stata comunque sufficiente a generare orizzonti anche nello sradicamento più totale .

 

  1. Di figlio in padre: l’eredità e le costellazioni

 

La domanda che qui ci interessa è dunque che cosa possa propiziare la funzione generativa, che cosa possa ampliare il presente, cosa possa propiziare la funzione paterna nella sua funzione di trasmissione aperta alla trasformazione. O forse come immaginare e nominare nuove funzioni che sappiano riconnetterci a quella rete di interdipendenza che include visibile e invisibile. Sapendo però che qualcosa va lasciato andare, e va affidato al futuro non scritto. Federica Giardini ci ha detto oggi che la lingua materna si impara a più riprese. Importanza dunque della nominazione – del nominare e rinominare i concetti e le funzioni. Urge ri-nominare il padre e non confondere la funzione generativa con quella biologica e tanto meno con il patriarcato. Riconoscere il figlio significa scegliere di dare un nome a ciò che ancora non si conosce.  E’ un sì che li trascende ma cui la coppia genitoriale acconsente. Ed è una gestalt che non mi sembra estranea a ciò che è accaduto quando i genitori erano figli, in quell’assunzione di eredità che solo un figlio o una figlia può compiere. Il figlio può diventare padre – colui che sa donare un orizzonte – solo se come figlio ha fatto suo e trasformato l’orizzonte bello o brutto che ha ereditato.

Come padri siamo infatti ‘figli dei nostri figli’ cioé dell’accettazione di un orizzonte che si apre al di là di quello individuale. Accettare la paternità – o meglio la genitorialità – significa anche accettare di essere orfani al contrario – orfani dei figli che lasciamo andare al futuro, in un orizzonte che va al di là del proprio. E’ questo – non la retorica dell’appartenenza genetica,  ‘carne e sangue’ – che diventa testimonianza appassionata nella memoria del figlio o della figlia. Ma come genitori siamo anche figli del nostro esser stati figli, diventiamo genitori – capaci di testimonianza e trasmissione – se come figli abbiamo elaborato quell’accesso all’eredità che in fondo è concesso solo all’orfano. Ed è una duplice eredità, patri-monio (che potrebbe essere rinominato come il deposito sistemico e discorsivo nelle nostre biografe) e matri-monio (cioé la possibilità incorporata della relazione che apre ed amplia). Anche se le tracce sono esili o negative possono diventare un segnavia..

Dunque nel momento in cui poniamo la domanda di cosa trapassa in futuro non possiamo non chiederci se come padri non siamo rimandati a nostro essere stati figli ‘sufficientemente buoni’, disposti cioé a farci carico di un’eredità in cui vi è sempre anche una cesura, una parzialità, una differenza, una faglia nella trasmissione, un incompiuto della coscienza.

Nella prospettiva di questa tavola rotonda, questa assunzione di eredità  si gioca su un duplice versante quello delle migrazioni dei nostri padri e quelle della storia delle migrazioni forzate che già in passato hanno toccato il nostro Paese e le nostre coste. A questo proposito Walter Benjamin aveva coniato l’idea di una ‘costellazione’ di immagini «autenticamente storiche» che sembrano emergere dal passato e congiungersi «fulmineamente» a quelle del presente immagini che ancora ci interpellano e che sono generative di un senso, di una ‘memoria del futuro’ a partire da un’aspirazione non compiuta che tuttora ci parla. Studiare la schiavitù è da questo punto di vista un terreno fertile. Il migrante – come lo schiavo –  oscilla tra la condizione di ‘bandito’, clandestino, escluso dalla città e dalla cittadinanza e quella di schiavo a cui viene concessa la possibilità del riscatto o della manomissione per conversione che oggi si chiama integrazione, ovvero la concessione di alcuni diritti nella misura in cui è possibile ricavare un utilità sociale dalla posizione subalterna di una forza lavoro precaria e disposta ad accettare quasi tutto.

Una immagine che devo dire mi ha colpito in modo abbastanza fulmineo è la scoperta di un culto brasiliano di Nostra Signora di Lampedusa che veniva venerata nel 1700 dalla omonima confraternita di schiavi neri a Rio del Janeiro… Nel 1600 Da Lampedusa e dalla Sicilia iniziavano a transitare non solo gli schiavi della corsa ma anche quelli della tratta sub sahariana. La Madonna di Lampedusa insieme a San Benedetto da San Fratello e alla Madonna del Rosario divenne loro patrona e ciò spiega come il loro culto sia giunto in Sud America.

L’immagine che originariamente colpì gli schiavi di passaggio a Lampedusa si trova riprodotta in diversi santuari lampedusani. Il personaggio del quadro, Andrea Anfossi è un marinaio, o forse capitano di un bastimento da corsa. E’ rappresentato su una zattera con le catene ancora ai polsi che alza una tela/vela con l’immagine della Madonna. Era stato catturato dai barbareschi nel 1561 e ridotto in schiavitù per quarant’anni sino a che un giorno i corsari,  sbarcati a Lampedusa per rifornirsi lo mandarono a far legna nei boschidell’isola. E’ lì che, in una nicchia o in una grotta trovò una tela con l’immagine miracolosa. Ricavò allora da un tronco una rudimentaleimbarcazione e dalla tela una vela per fare ritorno nella terra natia.

La storia di Anfossi, l’immagine della sua liberazione miracolosa dopo una lunga vicenda di schiavitù non riscattata colpì evidentemente l’immaginario di chi si trovava nello stesso caso. Del resto il culto dei santi costituì un importante anello di congiunzione con le rappresentazioni sacre e le personificazioni attive (spiriti, dei, djinn) delle culture d’origine. Il culto mimetico del Rosario e dei santi da parte degli schiavi si collocava nel cuore della tradizione cattolica riuscendo a esprimere e occultare contemporaneamente una connessione immaginale con i rosari divinatori delle tradizioni africane e musulmane, di fatto legittimando uno spazio rituale transazionale protetto nella riconnessione immaginativa con un oggetto attivo, deposito di possibili narrazioni. Questo ci aiuta a capire perché le confraternite di schiavi adottassero come loro funzione principale quella di dare degna sepoltura ai morti dato che le pratiche di sepoltura nelle culture tradizionali fanno parte – come nel caso degli oggetti attivi – della complessa interdipendenza e negoziazione con il mondo invisibile.

Anche la irmandade della Madonna di Lampedusa, adottata dagli schiavi nella diaspora  – era garante della loro sepoltura. E’ questa scoperta che mi ha particolarmente colpito quando dopo l’ennesimo naufragio di barconi migranti un’ondata di indignazione ha spinto le istituzioni italiane a organizzare una cerimoniosa quanto retorica sepoltura di Stato, dalla quale molti scampati al naufragio sono stati esclusi in quanto ormai trasferiti in altri centri d’ ‘accoglienza’.

Tuttavia se lo schiavo e il migrante possono avere a che fare con l’esclusione includente, con una doppia assenza (Sayad 1999)  essi hanno anche portato e portano nel mondo una sfumatura ricca di tensione resiliente. Essi sono portatori di un’immagine ‘fulminante’ di ingiustizia (e dunque di tensione verso il suo opposto) che attraversa il tempo e dialoga con il presente in una dinamica  che continua a esprimere un potenziale di redenzione generativo, di riscatto e risveglio. Mi sembra che sia importante decostruire la narrazione sulla vulnerabilità e sul trauma che spesso domina il discorso di accoglienza. Se l’essenza della biopolitica è la gestione differenziale della vulnerabilità (le discriminazioni – o la qualità di un sistema sociale – si valutano meglio proprio quando una persona è vulnerabile, si ammala o è piccola o quando una donna resta incinta e perde il lavoro, quando si invecchia, quando si è ‘clandestini’ eccetera ),  è anche vero che è la vulnerabilità umana ad accomunarci al di là delle barriere culturali.

La questione cruciale che la questione migrante pone oggi al mondo – ed è una questione ricca di possibili applicazioni cliniche –  è il superamento della figura della vittima Anche dal vertice di osservazione filosofico e femminista ci si è chiesto «vi sono vite «meno degne di lutto» di altre? (Butler 2013) Come mostra bene il film di Giorgio Diritti Un giorno devi andare, una vita degna di lutto è una vita che è stata amata e riconosciuta. La sfida è di uscire dalla retorica del lutto e costruire quel sovrappiù di vita che onora i morti migranti senza fare della loro morte un monumento alla memoria traumatica. Ovviamente se la dimensione umanitaria si sostituisce a quella politica chi viene ‘salvato’ non ha diritto ad avere diritti.

Fortunatamente siamo anche stati dall’altra parte del muro.  Siamo stati figli migranti e figli di migranti. Proviamo allora a immaginarlo un figlio ancora capace di un presente non immemore, un figlio che rifiuta sia vittimismo che colpa ma non l’onere e la responsabilità di una eredità che non è affatto gloriosa ma costellata di lutti e di trasformazioni incompiute, come pure di aspirazioni e tensioni verso un futuro che il presente non propone. Questa figlia o questo figlio che speriamo cittadino del mondo ma anche capace di generare mondo mi sembra particolarmente incarnata nella figura dello schiavo che rinomina la traccia di ciò che ha lasciato fecondando ciò che trova a portata di mano. E se un tempo la resistenza insita nella creolizzazione era di far capire: ‘sono anche altro’ ad oggi si aggiunge spesso sopratutto nelle voci delle seconde generazioni un ‘non sono solo altro’   La musica è uno dei ‘nuovi sensi del mondo’ con cui i discendenti degli schiavi hanno saputo reagire e resistere al connubio micidiale di terrore e illuminata ragione, di razzismo e modernità. La musica è stata uno dei modi privilegiati per affermare una resistenza e  un’integrità culturale a partire da ciò che sovente è stato più traccia che memoria.

 

Vi inviterei quindi in conclusione a ascoltare per intero My favourite things – lo straordinario pezzo di John Coltrane di cui abbiamo ascoltato un accenno all’inizio del mio intervento, un pezzo che frammenta, trasforma e ci restituisce immensamente arricchita la canzoncina  di Rogers e Hammerstein cantata da Julie Andrews inThe sound of music.
Riferimenti bibliografici

BASTIDE Roger, Les religions africaines au Bresil, Paris 1961

BUTLER Judith, A chi spetta una buona vita?, Roma 2013

DUBOSC Fabrice Olivier, Così parlò Sheherazade, trasgressione e conoscenza nelle 1001 Notte, Biblioteca di Vivarium, Milano 2003

GEERTZ Clifford, Geertz Clifford, ‘From the native point of view’, in Local Knowledge – further essays in interpretative anthropology, New York 1983.

GILROY Paul, The Black Atlantic, modernity and double consciousness, London 1993

LEVI-STRAUSS Claude, La Pensée sauvage, Paris 1962

MBEMBE, Achille, Sortir de la grande nuit, essai sur l’Afrique decolonisée, Paris 2010

PANIKKAR Raimon Culto e secolarità in Opere Complete IX/1, Milano 2010,

RECALCATI Massimo, il complesso di Telemaco, genitori e figli dopo il tramonto del padre, Milano, 2013

SAYAD Abdelmalek, La double absence. Des illusions de l’émigré aux souffrances de l’immigré. Paris, 1999

SOW Ibrahim Les structures anthropologiques de la folie en Afrique Noire – Payot 1978