Traduzione dallo spagnolo di Michela Letizia
Dagli ultimi decenni del secolo scorso il termine impolitico ha ottenuto successo tra gli autori europei interessati alla filosofia politica. Ho scritto “termine”, e non “concetto”, perché spesso non riesco a considerarlo più di un elemento funzionale dei rispettivi ambiti del discorso. O, al limite, come un concetto negativo, dunque indeterminato; suscettibile, però, di interpretazioni relative a ciascuna delle proposte teoriche nelle quali si iscrive. Questo non gli sottrae, com’è ovvio, potenziale critico; piuttosto, la sua negatività mette in luce le inconsistenze dell’oggetto di riflessione.
On the Radical Critique of Political Reason: è un aperto richiamo alla critica il sottotitolo di un libro di Massimo Cacciari intitolato TheUnpolitical, che riunisce testi di un lungo periodo sulla sua concezione dell’impolitico2. Nel secondo capitolo, “Nietzsche and the Unpolitical” (un lavoro del 1978, all’epoca sicuramente molto innovativo sull’argomento), Cacciari si basa sulla distinzione traimpolitico e apolitico per evidenziare la distanza tra la propria ricezione di Nietzsche e quella di Thomas Mann, del quale sceglie per l’occasione le Betrachtungen eines Unpolitischen. Classificando le Betrachtungen come “apolitiche” –rispetto a quel che chiama “l’impolitico” nietzschiano– l’interpretazione di Cacciari non tradisce le intenzioni dell’autore, malgrado l’opera criticata sia lontana dall’astensionismo espresso da quella parola. LeConsiderazioni manniane si proponevano di intervenire, almeno, nella disputa ideologica ravvivata dalla guerra del ‘14. Ciononostante, opponendo Cultura e Politica, l’autore propendeva esplicitamente per la prima; e ciò –spiegava– nella misura in cui Politica equivale a Democrazia, e questa –aggiungeva senza mezzi termini– conduce al nichilismo, manifesto nella tendenza dei democratici (francesi o francesizzati) a liquidare lo Stato solo per rigida coerenza –in una logica vuota di spirito– a certi principi surrettiziamente intesi come “morali”.
Oggi, anche se tali idee provocano molte perplessità nel lettore sprovveduto, l’attitudine di Mann potrebbe forse dirsi “impolitica”. In quel momento, invece, l’aggettivo era più adatto alla democrazia intesa come liquidazione dello Stato, nel modo in cui lui la giudicava. Allora l’uso del termine era ancora dispregiativo. Ne troviamo un antecedente nel celebre pamphlet di Sieyès, laddove egli si chiede: “I rappresentanti straordinari considereranno, stabilendo la costituzione legislativa, l’odiosa e impolitica distinzione degli Ordini?”3. Il qualificativo si presenta come incondizionatamente riprovevole. Nell’uso che gli attribuisce in un passo precedente, Sieyès non si limita a servirsi del proprio concetto di politico per accusare l’avversario della logica esclusione a cui egli stesso lo sottopone nell’estrometterlo dalla res politica (dall’“estensione” del concetto). Così definisce anche l’assenza di concordanza interna osservabile nello spazio reale, quello costituito dalle misure politiche di fatto: “Egli [il primo ministro] ha ristabilito la divisione impolitica degli ordini personali; e anche se quest’unico cambiamento comportava la necessità di preparare un nuovo piano, costui si era accontentato di quello vecchio in tutto ciò che non gli sembrava contrario alle sue intenzioni; e in seguito si sorprendeva delle mille difficoltà che sorgevano ogni giorno dall’assenza di concordanza”.4
Ma rivolgiamoci adesso ad Arendt, l’autrice contemporanea alla quale ricorre la maggior parte di coloro che dissertano sull’impolitico. Leggiamo in La condizione umana: “L’amore, per sua natura, è estraneo al mondo [unwordly], ed è per questo piuttosto che per la sua rarità che è non solo apolitico ma anti-politico, forse la più potente di tutte le forze umane anti-politiche”.5 La parola “anti-politico” attira la nostra attenzione, poiché sembra scritta proprio per sostituire quella che aspettavamo: “impolitico”. La sostituzione può chiarirci indirettamente i presupposti teorici di Arendt. L’amore è “anti-politico” perché l’individuo lo professa, nei confronti della singolarità dell’altro, al di là della pertinenza al mondo comune: l’inter-esse in cui ciascuno non è niente se non “tra” gli altri. Esso corrisponde all’anelito alla trascendenza, dal quale ne consegue la negazione attiva del mondo della politica, che è il mondo “degli uomini” e non quello (inesistente) “dei singoli”. Invece, apolitica appare la negazione della politica che obbedisce a un mero sottrarsi individuale allo spazio pubblico per dis-interesse verso l’inter-esse.6
Tuttavia, alcune interpretazioni di Arendt le attribuiscono un’altra forma di negazione attiva, questa volta immanente. Né apolitica, né antipolitica, bensìimpolitica. Così Étienne Balibar: “Arendt non chiama ‘disobbedienza civile’ una semplice obiezione di coscienza individuale […]: ella parla […] di movimenti collettivi che, in una situazione chiaramente determinata e con obiettivi limitati, abolirebbero la forma ‘verticale’ dell’autorità, a vantaggio di un’associazione ‘orizzontale’, in modo da ricreare le condizioni di un libero consenso all’autorità della legge. Dunque si tratta, in fin dei conti, non di indebolire la legalità, ma di rinforzarla”.7 Senza dubbio Balibar interpreta Arendt pro domo sua, e converge in questo modo con Miguel Abensour. Entrambi prospettano l’idea di una sospensione momentanea –che prevede anche una certa periodicità– del potere costituito. Queste sospensioni permetterebbero di legittimare di nuovo il potere costituente, che –contro il “decisionismo” di Schmitt– non appartiene allo Stato, ma ai movimenti di “insorgenza”, quando ricreano la situazione di anarchia o di “indeterminazione” originaria (l’arché aoristos, secondo Balibar uno dei legami principali di Arendt con Aristotele).8
D’altra parte, il titolo di uno dei libri di Abensour, La démocratie contre l’État(1997), sembra confermare i sospetti di Mann riguardo all’antistatalismo dei democratici francesi. Ma se la democrazia si mantiene viva solo nell’insurrezione –così come l’impolitico cresce solo accanto alla politica– vediamo che avrà bisogno dello Stato, senza la cui vocazione monolitica non si produrrebbe la ribellione, oppure sarebbe sprovvista delle virtù rifondatrici richieste. Niente di tutto questo sfugge ad Abensour, che suggerisce cautela contro il travestimento da “Stato democratico”. Ciò malgrado se ne serve nella sua proposta, credo, perché si attiene alla situazione de facto; in un’epoca postmarxista, la rivoluzione non si lascia “immaginare” altrimenti che come insurrezione. Penso anche che la capacità di valutare in modo ogni volta appropriato la piega delle cose sia quello che non hanno ereditato da Arendt coloro che le tributano tanti onori. Dalla caduta del Muro a oggi troppo spesso, infatti, essi si sono mostrati sorpresi per gli eventi –reali, non metafisici– con esultante ottimismo, come se il fatto che neanche loro avessero capito quello che si si preparava fosse un augurio dell’imminente arrivo dell’Übermensch. Ve ne sono anche alcuni, occorre riconoscerlo, che si lasciano solo sfiorare, perché si sono accomodati sull’altro versante della profezia nietzschiana: il “nichilismo”. Si veda una recente opinione di Cacciari sulla disfatta della finanza occidentale: “Smettiamola di ragionare come se il Politico, nel mondo attuale, potesse essere considerato ‘autonomo’ rispetto al sistema economico-finanziario, al mondo della comunicazione, a quello della ricerca più avanzata. Le classiche distinzioni tra poteri, e quella tra Politico ed Economico, appartengono tutte all’altro secolo […] Tutto è connesso, tutto ‘in rete’”.9
Nell’“altro secolo”, Schmitt deplorava la perdita di sovranità dello Stato, attribuendola, in parte, agli effetti dell’economia deterritorializzata e, come tale, beneficiaria di una libertà senza legge. Immagino che Cacciari lo citi implicitamente classificando come obsoleta la distinzione tra “poteri”. Egli, a sua volta, ricorre qui con disinvoltura all’espressione composta “economico-finanziario”, che non so se si risolva in una simbiosi in terminis o, nel peggiore dei casi, battezzi –e quindi, nominandola, santifichi– l’effettiva conversione dell’economia (produttiva e mercantile) in pura speculazione (finanziaria). È difficile resistere al fascino dell’Utopia senza rischiare di convertirsi in uno scrivano sottopagato.
Una delle ragioni, dettata dalla prudenza, con cui Kant difendeva la “idea cosmopolita”, era che i conflitti esterni pregiudicavano il buon governo all’interno dello Stato. Oggi si sono invertiti i ruoli. Gli Stati membri dell’Unione Europea, per non pregiudicare la “comunità”, devono vessare senza scrupoli le rispettive masse di cittadini. Così hanno scelto di contraddire la forma che assumono le libertà democratiche:
Di qui, infine [la funzione statale di garantire economia e popolazione], l’iscrizione della libertà non solo come diritto degli individui legittimamente opposto al potere, alle usurpazioni, agli abusi del sovrano o del governo, ma [della] libertà come elemento divenuto ormai indispensabile alla stessa governamentalità […] Non rispettare la libertà significa non solo esercitare un abuso del diritto nei riguardi della legge, ma soprattutto non saper governare come si deve.10
La “gouvernamentalité” – in Foucault un anticipo della governance– tratta la libertà dei cittadini come una proprietà (Rawls la definiva “bene primario”) che lo Stato si preoccupa di amministrare ricavandone, in aggiunta, dei benefici. Da quando questa funzione dello Stato ha rimpiazzato il suo esercizio della sovranità, ogni diminuzione sul terreno delle libertà ha messo in evidenza, più ancora che la sua ingiustizia, la sua incompetenza, che corrisponde esattamente all’“impoliticamente” scorretto della sua gestione nell’antico significato del termine. Occorrerà quindi opporgli un’azione impoliticamente corretta per “ri-cominciare” (Balibar)? Perché fare dell’impolitico un ri-costituente della politica? Esposito l’ha denominato “categoria”, forse in un eccesso di zelo divulgativo. Quel che è certo è che lui e Agamben, debitori a loro volta di Arendt e di Foucault nel riferimento alla biopolitica, sono in difficoltà. La “produttività discorsiva”, sulla quale Foucault richiamava l’attenzione come una forma di dominio inseparabile dalla libertà utile alla governance, ha minato la fiducia nella “democrazia deliberativa”, quella arendtiana di matrice classica… e quella di Habermas. Per esempio, l’idea di “inoperosità” costituisce la risposta di Agamben all’inquietudine di Arendt dinnanzi alla marxista “socializzazione del lavoro”; essa però si risolve nella esigenza di una comunità di “singoli”, che l’autrice non poteva approvare.11 Esclusa, pertanto, l’“azione politica” così com’era concepita da Arendt, Agamben ha intrapreso un cammino di ritorno dal fondo del linguaggio (Il linguaggio e la morte, 1980) verso un’altra forma di vita, politica e capace di allontanare il biopotere: né zoé né bíos, come ha annunciato nelle ultime pagine di Il regno e la gloria (2007). Confesso che il nuovo aggiornamento ha dissipato le mie pur volenterose illusioni al riguardo.
Riassumendo, i due grandi motivi comuni agli autori attuali sono la risoluta affermazione della mancanza di fondamento della legge –che pone fine alla legittimazione schmittiana dello stato di eccezione– e l’inadempienza del concetto di rappresentazione, sia nella teoria filosofica che nella pratica politica. Di quest’ultimo concetto ha parlato anche Schmitt. A suo giudizio, ormai nessuno più della Chiesa Cattolica possedeva l’auctoritas senza la quale non c’era autentica Rappresentazione: “Il dominio del ‘capitale’, esercitato dietro le quinte, non è ancora una forma, anche se può certamente svuotare una forma politica esistente e ridurla a vuota facciata. Se il capitale riesce in questo intento, potrà dire di avere completamente ‘spoliticizzato’ lo Stato; se il pensiero economico riesce a realizzare i propri fini utopistici, di condurre la società umana ad una condizione assolutamente impolitica, la Chiesa resterà l’unica depositaria di pensiero politico e di forma politica”.12 Di seguito, aggiungeva che la Chiesa avrebbe preferito essere l’interlocutrice della rappresentazione politica. Non occorre dire che l’attuale afflusso in Europa di pratiche religiose molto diverse toglie ogni residuo di credibilità alle prospettive di Schmitt. Non posso ignorare, tuttavia, la personale lettura che ne dà Cacciari.
Con il sostegno di Heidegger e di Wittgenstein, Cacciari promuove il dialogo tra filosofia e teologia. Senza dubbio la filosofia deve collocarsi nell’immanenza e adempiere le leggi della logica, ma allo stesso modo ha l’obbligo –impostole dalla ragione– di tentare di spostare i limiti del pensabile. Inoltre, il barlume della trascendenza (che spesso ci procura anche il linguaggio dell’arte), se si accompagna allo spirito religioso –il che non significa alla fede–, ci aiuta a comprendere che la Giustizia non abita mai le leggi umane. Lo spirito religioso, va detto, non equivale alla teologia: “Diritto è ratificazione di una pace che compone un conflitto consegnando il monopolio della violenza a un potere legittimo. Scomposto perciò nei suoi elementi costitutivi, diritto suona come complesso di violenza e potere: come Gewalt. Le radici di questo complesso stanno, per Benjamin, nella “manifestazione mitica della violenza immediata’. La razionalizzazione teologica di questa manifestazione è condizione della su completa secolarizzazione nel sistema e nella tecnica giuridico-giudiziaria […]”13
Allora, come può il dialogo con la teologia ampliare l’orizzonte della libertà, nella cui prospettiva lavora la filosofia, se esiste un patto tra la teologia e il potere politico che ha la violenza come orizzonte? La mia domanda non chiama in causa in assoluto la morale; sono convinta, con Adorno, che la libertà del pensiero filosofico non ammetta “consegne”, neppure quelle provenienti dal moralmente corretto. Per tale motivo io stessa scelgo, come possibile risposta, la tesi schmittiana sul katéchon (2 Tess 2:7) a cui Cacciari dedica un’ampia riflessione: “Il katéchon trattiene l’Anomos dal manifestarsi integralmente, dal compiere la sua apocalisse –ma proprio col tenerlo stretto in sé, col detenerlo”.14 Si può fermare il Male solo trattenendolo dentro di sé. Il katéchon non è la Chiesa, ma entrambi sono invischiati in una relazione “drammatica” (“L’Età del Figlio […] è quella del drâma che distingue e unisce ekklesía e katéchon”).15 Non mancano le prove che la Chiesa, arida d’amore, Pietro contro Giovanni, si manterrà impurain saecula saeculorum:
Le donne –come Giovanni– vedono la parousía del Signore, la testimoniano e la annunziano. Perciò né le donne né Giovanni possono, in questa Età, costituire ilduro fondamento della Chiesa. In ciò consiste la sola (ma essenzialissima) ragione teologica, per la quale la donna non può accedere al sacerdozio di Pietro. Ragione “indicibile” sia per una Chiesa intenta a nascondere la propria costitutiva miseria, che per il senso comune plebeo, che crede di riconoscervi una sorta di “diminutio” della dignità della donna!16
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Cacciari è talmente amico della logica, e talmente nemico di Hegel (per lui, amico e nemico sono inseparabili, entro una debole linea schmittiana),17 che ha dovuto invertire l’affermazione per cui la logica è Dio prima della creazione del mondo. Nella sua filosofia, la logica è anteriore a Dio. A rigore, pertanto, piuttosto a-logica (álogon) che logica, posto che Dio è logos. Prima di tutto, nell’“Inizio”, c’è un’infinità di com-possibili, tra i quali non possono mancare –(a)logicamente– altrettanti impossibili. Un im-possibile è una possibilità che si mantiene in quanto negata. Perciò non si dà se non nel mondo degli uomini; i com-possibili non sussistono da sé soli, mancando di un mondo proprio: nell’inizio c’è solo indeterminazione. Così, quindi, l’impossibilità non si deve né all’insufficienza della realtà empirica, né alla logica disincarnata della non-contraddizione: piuttosto si trova –come la libertà– nella distanza che separa l’uomo dal luogo da cui proviene. L’esistenza umana è paradossale.
Si tratta, allora, di una filosofia della contingenza, senza la quale la libertà umana si converte nel suo opposto: nel “non poter non essere” della fatalità. Hegel era pago di una tale “dialettica” in cui tutto si conservava –libertà e necessità– perché la storia umana, ripiegata in sé stessa, non aveva aperture verso l’aldilà. La replica di Cacciari si apre alla trascendenza, che non può essere altro che indeterminazione. In caso contrario, l’esperienza storica ci ha dimostrato ampiamente quello che accade quando gli uomini si sentono padroni assoluti del proprio destino, e di tutto quel che li circonda. Oppure quando ignorano gli inevitabili slittamenti tra il potere costituente e quello costituito, la fragilità della base su cui poggiano. Identificando l’indeterminazione iniziale come trascendenza, la filosofia di Cacciari è lontana da quella di Balibar. È vero che, allo stesso modo, egli colloca nell’indefinito dell’inizio la fonte della libertà, da cui il “singolo” beve solo rammemorandola. Tuttavia questo non ha nulla a che vedere con l’“anarchia”, perché qui non si sta parlando della libertà politica.
Secondo Cacciari, l’impolitico è l’impossibilità della politica. Così come l’im-possibile sorregge la possibilità negata, l’im-politico è una negazione interna alla politica. Essa produce una “eterogenesi dei fini” che non può risolvere. Proveniva da qui, senza dubbio, l“assenza di concordanza” in Sieyès. I marxisti parlavano di contraddizioni interne. Come Hegel, speravano di “superarle”. Speravano l’impossibile. Perché l’impolitico nasce e non nasce dalla politica. Sebbene quest’ultima lo definisca in quanto tale, l’impolitico proviene da un altro luogo. Il modello mitico è Antigone che, non senza ragione, ha suscitato una profonda ammirazione in Hegel, concedendogli persino una tregua con il suo nemico, Kierkegaard, giacché ella dimostra a entrambi che la donna ha bisogno dell’uomo per elevarsi all’Idea.18
“Il suo Nomos è completamente ápolis”, scrive Cacciari. 19 Solo imbattendosi nel divieto di Creonte –ed egli nella risoluzione di lei– la sepoltura del fratello diventa un atto impolitico. Tuttavia, la legge a cui Antigone obbedisce è più antica dell’esistenza della pólis. Creonte lo sa nel profondo della sua anima, poiché anche lui riconosce quel potere. Insomma, Cacciari ritorna sulla dialettica hegeliana, ma le nega l’ulteriore riconciliazione. “L’io che è un noi e il noi che è un io” non arriverà mai. L’alterità mina dall’interno l’identità, nell’io stesso di ciascuno. Non esiste altra comunità che l’im-possibile.
L’Altro è irriducibile al proprio uno, e ciò vale per questo stesso “uno”, che reca in sé sempre l’alterità. D’accordo. Non lo negherò dopo anni di convivenza con Sartre; sarebbe malafede. Ugualmente sono disposta ad accettare che questo “altro” assuma segni d’identità nella lotta politica –non senza proteggersi, prima, da Schmitt e da “altri”– o nel discorso morale. Sartre l’ha fatto: secondo lui gli altri erano soprattutto i paesi colonizzati. Quando leggo la parola in queste circostanze, scendo di un gradino sulla scala del rigore concettuale, e mi adatto volentieri. Come diceva un altro dei miei riferimenti, Adorno, bisogna infrangere la logica se pregiudica l’umanità. Ma la tragedia di Antigone come paradigma dell’impolitico introduce l’alterità sotto la forma dell’Eterno Femminino, soprattutto in Cacciari, che così la eleva almeno alla reciprocità categoriale (l’uno è l’altro, l’altro è uno). Ebbene, in questo caso ho la pelle categoriale più sensibile, perché m’immagino candidata all’etichetta. Tranne se Arendt aveva ragione, e le femministe che la celebrano non l’hanno ben compresa: “Ho sempre pensato che esistano delle attività determinate che non si addicono alle donne, che non vanno bene per loro, se posso esprimermi così. Che una donna dia degli ordini non mi sembra una cosa opportuna. Le donne devono evitare di trovarsi in tale posizione, se vogliono mantenere le loro qualità femminili.”20
Arendt negava che, nell’antica Grecia, la reclusione della donna nella casa, emarginata dalla vita politica, obbedisse alla “divisione del lavoro”. Tale concetto di divisione presuppone l’eguaglianza di quelli che lavorano e, evidentemente, questo non era il caso dell’uomo e della donna a quel tempo. 21 Eppure, classifica Marx come “realista”:
Niente indica forse più chiaramente il livello del pensiero di Marx, e la fedeltà delle sue descrizioni della realtà fenomenica, del fatto che egli basasse tutta la sua teoria sull’interpretazione del lavoro e della procreazione come due aspetti dello stesso fecondo processo vitale […] Armonizzò la sua teoria, la teoria dell’età moderna, con le più vecchie e persistenti intuizioni sulla natura del lavoro, che, sia nella tradizione ebraica sia in quella classica, era intimamente legata alla vita come la procreazione.22
Gli studiosi hanno insistito molto sul valore che Arendt riconosce alla “nascita” in quanto irruzione della novità nel mondo. Non mi ci soffermerò oltre. Il suo gesto di apátheia intellettuale, nel passo citato, induce a una indagine differente. In primo luogo, si noti come ella non spieghi la disuguaglianza tra uomo e donna con nessuna ragione esterna al lavoro, come la previa discriminazione tra i sessi. Soltanto la dedizione femminile alla casa, e l’esclusiva maschile dell’azione politica segnano la differenza. Se non fosse così, la condizione di possibilità della politica risiederebbe nella biopolitica. E allora ci troveremmo di fronte a un circolo vizioso, ma Arendt (che “evita di trovarsi in tale posizione”) ne descrive uno virtuoso: Atena armata alla nascita della testa del suo papà.
Se Arendt è considerata la pioniera delle analisi sulle relazioni che il potere politico stabilisce con la vita biologica, Cacciari non cita mai la biopolitica. Non vi si attiene, pertanto, nella propria distinzione tra oîkos e pólis rispettivamente come ambito femminile e maschile. Anzi, con uno sguardo affine a quello di María Zambrano in La tomba di Antigone, sottolinea che la figlia di Edipo custodisce i morti, vive tutta per loro. In Antigone rimbomba il silenzio di quelli che ritornarono all’indeterminatezza dell’Inizio. Questa funzione, più che quella di portatrice della legge religiosa, la rivolge alla trascendenza. Infine, tutto appare così lusinghiero e bello, che soltanto gli scintillii del maschile/femminile della vecchia tavola pitagorica potrebbero rovinarlo. Il fatto è che Cacciari ha un debole per due cose: il misticismo e la matematica. Così si spiega probabilmente la sua devozione per Simone Weil, moderna Antigone senza Creonte– ma con un fratello matematico, appunto.23
Antigone personifica l’impolitico. Cacciari chiama ápolis lo spazio che le è proprio prima di cadere, inavvertitamente, sotto il dominio della politica. Nessuno la aspetta a casa; il meccanismo riproduttivo non l’ha ancora afferrata. Quindi è la sua verginità che le permette di compiere la missione salvifica, redentrice della sua stirpe. Si badi però: non muore per qualcuno, ma diqualcuno; non per l’altro, ma dell’altro.24 Così, nei millenni, ha inondato di giubilo i cuori virili. Essi intuiscono che questo altro “di” cui muore Antigone può essere soltanto un dio, perché nessun’uomo gode di un ascendente tanto grande. Forse lo stesso pensava anche Zambrano, quando la sua Antigone invocava lo spettro di Edipo: “Ah, allora sei un dio? Sembri più un uomo. Sei un uomo? Sei tu, tu, l’uomo?”25
L’uomo divinizzato è il soggetto della Storia che, restio ad abbandonare il suo posto, pur di perpetuarcisi si dichiara responsabile di tutto il male passato, presente e futuro. Prima dell’inattività, la colpa infinita. Per questo motivo gli fanno tanto bene gli scontri della fragile Weil con la violenza. Egli sa, leggendola, che non s’inganna su se stesso, e che non deve muoversi da dov’è. Con la stessa logica, sarà pura solo la donna non macchiata da un simile titano del peccato, che concepisce la purezza femminile come il prodotto della propria astinenza, se non addirittura del patto di sangue tra fratelli che si rifiutano di combattere per una donna. Trionfa la hýbris della colpevolezza. Da quando il complesso di Edipo non è più di moda, sembrano più attaccati che mai al complesso di Antigone.
Intorno al ’68, Deleuze e Guattari scrissero L’Anti-OEdipe, col proposito di combattere, tra le altre cose, il “fallocentrismo” della cultura occidentale. Poi però giunse Derrida a predicare ladisseminazione. Ad autorizzarlo, Aristotele in persona: “Risulta chiaramente che da una unica materia si ricava –poniamo– un solo tavolo, mentre l’artefice che applica la forma, pur essendo uno solo, produce molti tavoli. Si ha, qui, lo stesso rapporto che si ha fra maschio e femmina: questa è fecondata da un solo accoppiamento, mentre il maschio può fecondare molte femmine”. 26 E le feconda tutte da un solo accoppiamento? L’apollineo Aristotele qui forse stava pensando a Dioniso. O agli incubi? Infine, i momenti fondazionali siano pure momenti di euforia. Se ne occuperanno in seguito i tragici del futuro perché non resti ombra per congiurare; per esempio, nel punto essenziale dell’Antigone, le visioni del coro: “Molte potenze sono tremende, ma nessuna lo è più dell’uomo”. Heidegger interpreta “le potenze tremende” (tà deinà) come “inospitale” (umheimlich). Cacciari lo segue a poca distanza.27
L’oîkos, la casa, è lo spazio proprio della donna. Mi chiedo se della donna storica, o di quella mitica. Nell’ingegnosa formulazione di Simmel, l’uomo “agisce” e la donna “è”. Così, molto logicamente, egli attraverserà mille metamorfosi – cioè, farà storia– mentre lei resterà sempre come prima. Invece Cacciari, sull’argomento, si serve piuttosto del concetto di decisione, in ciò sostenuto dalle teorie politiche di Aristotele e di Schmitt. Ne L’Arcipelago, afferma che Ulisse dovrà decidere se continuare ad esplorare e acquisire conoscenza attraverso quel simbolo dell’indeterminato dell’Inizio –quindi, della libertà– che è il Mare, o se ritornare a casa, alla Terra dove, nel frattempo, quelle che non partoriranno mai tributano il culto ai loro morti. Quanto a Penelope, casalinga, guardiana del focolare del suo signore, si mostra efficace solo ogni volta che disfa quello che prima ha tessuto. Non può decidere nulla da sé. Senza alternative non c’è scelta. Solo che il concetto aristotelico di proaíresis non si limita a questo; si spinge fino in fondo, alla natura delle cose: nella sua condizione la donna, benché sappia deliberare, è incapace di prendere decisioni.
La capacità e la necessità di decidere fanno dell’uomo la creatura tremenda. “A quale titolo possediamo questa terra?” –chiede Cacciari–. 28 Perché l’uomo non la tras-forma in abitabile senza renderla, allo stesso tempo, inospitale? Si tratta, è evidente, della domanda sulla tecnica. Sin qui tutto sembra più che normale. Inoltre, i presunti legami tra la Donna e la Terra vengono da molto lontano (sebbene Goethe vi abbia attribuito un rango più elevato con l’epica delle “forze telluriche”). Adorno metteva ancora ironicamente al riparo i suoi studenti dall’arroganza con cui alcuni professorucoli sottoponevano “mater e materia” a giochi etimologici.29 È cosa nota; però, da dove salta fuori, se è lecito saperlo, la seguente riflessione?: “Di molte cose ormai l’uomo ha bisogno e nulla più ‘naturalmente’ ritrova; per soddisfare i propri ‘appetiti’, egli deve scoprire, manifestare, portare alla luce, annettersi sottraendo (così alla Terra, come allagastér della donna): tutto il suo érgon (la sua ‘cosa’, ciò di cui è reus) consiste nella fatica di disvelare-nascondere-disvelare”.30
Francamente credevo che dare alla luce sì che fosse esclusivo della donna. Ma c’è una cosa ancora molto più preoccupante nel testo, ed è l’affermazione secondo cui l’uomo deve “lavorarsela” con mezzi tecnici applicati al suo grembo. A dire il vero, ho fatto molta fatica a capire finché, più avanti, non mi sono imbattuta nella figura di Pandora. Dovevo aspettarmelo; un platonico che si rispetti si spiega meglio con il ricorso al mito: “Pandora è il dono, ed è Pandora l’orcio dei mali”.31 Gastér e orcio: utero/orcio dei mali. Suppongo che debba esserci una relazione con “l’impolitico”. Se la virginale Antigone confronta il politico con la violenza della legge, la sensuale Pandora dischiude la violenza della tecnica. E a questo punto non c’è grande differenza tra le due, da quando i procedimenti tecnici si sono impadroniti della politica. Dunque, in questo modo, ho in ultimo chiarito che cosa significhi “l’eterogenesi dei fini”, espressione con cui Cacciari caratterizza l’impolitico. È il tanto va l’orcio per l’acqua che si rompe.32 Senza dubbio, l’eufemismo del vecchio proverbio non è nulla se confrontato con l’espressione “gravidanza non desiderata”. Insomma, dalle azioni dell’uomo scaturiscono a volte conseguenze delle quali egli non vuole né può assumersi la responsabilità. Ve ne sono che non vogliono, come Rousseau o Hegel. E vi è chi non può perché, dopotutto, la decisio che spezza “la catena del destino” non dipende da lui, ma dalla donna.33
Ma la conclusione non era che le donne non decidevano? Almeno nel senso in cui Cacciari usa il termine, con allusione all’etimo latino (decidere: decidere e tagliare). In effetti, ci risulta che chi di solito decide tagliando, in questo tipo di circostanze, sia l’uomo. Ma lo fa come Epimeteo, quando il “male” è già uscito dal suo covo o sta per uscire. La donna no. Il termine idoneo per la sua forma di decidere ci viene dal tedesco: der Austrag. Heidegger ha messo in relazione questa parola con la “differenza ontologica”. Consapevolmente? Poco conta.Austrag significa decisione come risoluzione di un processo che ha seguito il proprio corso fino a realizzare –detto in greco– il suo télos. Indica il dare alla luce come conclusione di una gravidanza se, e solo se, è giunta a buon fine una volta compiuto il periodo naturale. Ovviamente non sto insinuando che sia l’utero a prendere le decisioni femminili. Mi limito a replicare all’avversario: quando una donna decide liberamente in merito alle cose che più le importano, tende ad aspettare che i pensieri e i desideri maturino al ritmo che corrisponde loro –senza fretta, né pressioni da parte della “forza di volontà”. Di sicuro anche alcuni uomini fanno così. D’altronde, uomini e donne, dobbiamo affrontare allo stesso modo di tanto in tanto la decisione-atto, l’atto decisivo. E a chi non fa paura? Ne conosciamo il rischio: è l’arbitrarietà. Adorno rivolse quest’accusa, soprattutto ma non solo, al decisionismo di Schmitt. Comunque, non credo che le risoluzioni drastiche “oggettive”, per quanto degne di merito, elevino nessuno alla categoria di “eroe”, e ancor meno l’essere umano in quanto tale. Sono solo una donna.
Aristotele sosteneva che la scelta era esclusa dalla portata femminile. Allo stesso tempo la sottoponeva, insieme al desiderio che la governava, alla disponibilità dei mezzi oggetto di deliberazione. Sotto un tale aspetto, l’aumento dei mezzi tecnici di cui dispongono oggi le donne (per evitare situazioni come quella descritta) concede loro il potere di decisione. Tuttavia, se gli anticoncezionali sono mezzi tecnici, la decisione di prenderli si colloca su un altro piano. Pertanto, la convinzione di Aristotele sull’incapacità di scegliere della donna sarebbe contraddetta solo se lo schema di deliberazione e di elezione, che appartiene allaprâxis, si estendesse alla téchne. Altrimenti no. Ma sulla scia dell’interpretazione heideggeriana, Cacciari proprio non le distingue (téchne e prâxis) a sufficienza. Così si confuta da solo su questa faccenda della deficienza “proairetica” delle donne.34
Ma, davvero osa negare alle donne l’imprescindibile potere di decisione? Si pensi che non è di quelli che si cullino sulla superficie delle cose. In effetti no, neanche per sogno:
Kant ripete il gesto dell’Aristotele di Raffaello. La sua mano, che tempera e dispone, delimita e comprende, fissa il nostro orizzonte. Essa si disegnasull’orizzonte e ne ribadisce l’insuperabilità. La “vita concatenata” del conoscere così deve procedere: orizzontalmente. La Terra della Verità non possiede vie per “lassù”. È necessario virilmente decidersi per ciò che a noi è dato, che sta a noi: quel conoscere sulla terra e lungo le sue vie. Senso originario della proaíresis, perfettamente ripreso nell’Entwurf di Kant.35
“È necessario virilmente decidersi”. L’avverbio fa ribrezzo. E non per la sua rarità.36 Siamo abituate a incontrarlo come un mero accento che potenzia il valore positivo già compreso, peraltro, nel significato della parola che accompagna; con “femminile” accade il contrario se a scriverlo è un uomo, e a volte anche se non lo è. Nel testo citato, però, appare di particolare gravità, perché esso tratta delle condizioni di possibilità della conoscenza; non ci si lasci trarre in inganno dal tono e dai riferimenti artistico-letterari. Di fatto, serve da corollario a una precedente argomentazione sulla vera e propria epistemologia. Cacciari ci dice quindi che, anche sentendo l’anelito alla trascendenza, Kant “decide” malgré lui di rimanere sulla terra, tra gli enti empirici. Si tenga conto che simile decisione non è esterna né posteriore alla conoscenza; viceversa, proprio la conoscenza la presuppone se non vuole fallire.
Una nota tra parentesi: anche Adorno si riferisce in questi termini a Kant, sebbene con un chiaro accento ironico. Egli gli attribuisce “la virile rassegnazione contenta di sé, con cui la filosofia si cala nel mundus sensibilis come esteriorità”.37 È buffo che tale aggettivo s’incontri di nuovo in riferimento a un signore dalla vita sessuale più che discreta, e che non si riprodusse mai, o almeno che tralasciò la dovuta “pubblicità” legale al riguardo. Sia come sia, nel passaggio citato, Adorno lo considera un tipo adattabile.38 E lo stesso Cacciari sostiene –l’abbiamo visto– la necessità di spostare le frontiere del pensabile. Peccato che, nella sua scena teorica, le coppie Filosofia/Teologia, Teologia/Politica, Politica/Filosofia, ballino un minuetto sconcertante. Per esempio, sembra che in quanto donne non possiamo accedere al sacerdozio, o perché ci spingiamo troppo lontano –verso la trascendenza− ma quando non è il momento, o perché, se ci si desse l’occasione di rifiutare il soglio di Pietro −come le portavoce dell’apostolo dell’amore−, non sapremmo deciderci. Che piroette! Di più: che salti mortali!
Il fatto è che la conoscenza in senso forte esige virilità, secondo Cacciari. Dunque, alla base della ragione umana −nata come ragione politica− esiste effettivamente la biopolitica, e le donne dovranno adeguarsi al ruolo di impolitiche (chissà in quale dei due significati del termine), perché saranno sempre le Altre, illogiche, indecise, “le intrattabili” della città della filosofia?39
Allora che si ammainino le vele perché la loro nave imperiale fa acqua, Platone a Siracusa lavora come guida turistica, e io prenderò all’istante una decisione virile.
2 M. Cacciari, The Unpolitical, Fordham University Press, New York 2009.
3 E-J. Sieyès, Qu’est-ce que le Tiers état? (17893), Éditions du Boucher, Paris 2002, p. 73 (corsivo mio).
4 Ivi, p. 31 (corsivo mio).
5 H. Arendt, Vita activa. La condizione umana (1958), Bompiani, Milano 1989, p. 179. Affiora qui la sua stima di Sant’Agostino.
6 Mi rammarico di questo casuale gioco di parole d’eco decostruzionista.
7 E. Balibar, Impolitique des droits de l’homme. Arendt, le droit aux droits et la désobéissance civique, http://erytheis/balibar_fr.htm, p. 10.
8 Ivi, pp. 9-11.
9 M. Cacciari, I barbari sono già dentro casa, “L’Espresso settimanale”, 22.9.2011.
10 M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione (Collège de France 1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005, p. 257.
11 In J-L. Nancy, La communauté desoeuvrée (1986), l’inter-esse si è trasformato in partage: si tratta di dividere e di condividere nello stesso tempo. Non esiste, dunque, la comunità, se non in questo limite paradossale.
12 C. Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica (1923), Giuffrè, Milano 1986, p. 54 (corsivo mio).
13 M. Cacciari, “Diritto e Giustizia”. Saggio sulle dimensioni teologica e mistica del moderno Politico, “Il Centauro. Rivista di filosofia e teoria politica” I, 2, Napoli 1981, pp. 67-68. In The Unpolitical, p. 183.
14 M. Cacciari, Dell’Inizio, Adelphi, Milano 20012, p. 624.
15 Ivi, p. 640.
16 Ivi, p. 658, nota.
17 Ne consegue che Pietro “contro” Giovanni significa anche mai Pietro “senza” Giovanni. Non c’è identità senza alterità.
18 S. Kierkegaard, Aut-aut (1843), Mondadori, Milano 2002.
19 M. Cacciari, L’Arcipelago, Adelphi, Milano 20053, p. 44.
20 H. Arendt, La lingua materna (1964), Mimesis, Milano 1993, p. 27.
21 Id., Vita activa, p. 249, nota 38.
22 Ivi, p. 75.
23 “Ma il fratello è alla sorella la quieta, eguale essenza in generale; il riconoscimento di essa è in lui puro e scevro da rapporto naturale […] Perciò la perdita del fratello è insostituibile per la sorella, e il suo dovere verso di lui è quello supremo”. G.G.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito (1807), vol. II, La Nuova Italia, Firenze 1936.
24 Un altro personaggio femminile con tali caratteristiche è Ofelia. Cfr. M. Cacciari, Hamletica, Adelphi, Milano 2009.
25 A continuazione: “Ed è al padre che tocca dirci chi siamo”. M. Zambrano, La tomba di Antigone (1967), in La tomba di Antigone. Diotima di Mantinea, La Tartaruga, Milano 20012, pp. 80-82.
26 Aristotele, La Metafisica, vol. I, a cura di G. Reale, Luigi Loffredo, Napoli 1968, p. 121.
27 Ho adotatto la traduzione di Cacciari: Sofocle, Antigone, Einaudi, Torino 2007, p. 13.
28 M. Cacciari, Dell’Inizio, p. 49.
29 Th. W. Adorno, Metaphysics. Concept and Problems, Polity Press, Cambridge 2000, p. 78. “Ma c’è forse qualche Madre del tutto pura che sia madre? Tu sai che non c’è. È il sogno del figlio, questa purezza della madre. E il figlio, a forza di amare il suo oscuro mistero, la lava. E lei, che della terra è e alla terra assomiglia, con terra si va purificando”. M. Zambrano, cit., p. 91.
30 M. Cacciari, Dell’Inizio, p. 386.
31 Ivi, p. 434.
32 P. Guazzotti, M.F. Oddera, Il grande dizionario dei proverbi italiani, Zanichelli, Bologna 2006, p. 499. (N.d.T.)
33 “Noi agiamo liberamente, ma le nostre azioni si connettono in una catena infrangibile che le vincola e determina assolutamente”. M. Cacciari, Della cosa ultima, Adelphi, Milano 2004, p. 285.
34 Egli propone e depone Aristotele allo stesso tempo. Purtroppo, qui non c’è spazio per svilupparlo.
[35] M. Cacciari, Dell’Inizio, p. 55. [36] Le espressioni di questo tipo sono diffuse tra gli entusiasti di Nietzsche e dell’“eroismo tragico”: “Abbiamo con lei [la vita] la relazione che c’è tra uomo e donna: la possediamo per disprezzo”. C. Rosset, La philosophie tragique, PUF, Paris 19912, p. 76. [37] Th. W. Adorno, Dialettica negativa (1966), Einaudi, Torino 1970, p. 64. [38] Non è sempre così. Adorno si sente attratto dal kantiano “carattere intelligibile” (Ivi, pp. 257 sgg), così come Cacciari dall’“oggetto trascendentale”. [39] Intrattabile è classificata Antigone ne L’Arcipelago. Secondo le parole del coro tragico. Certo amichevolmente.