Tra arte e femminismo

di Katia Ricci

già pubblicato in Le città vicine

(Introduzione al catalogo della mostra FIGURIAMOCI, visioni oltre il mito, inaugurata nella sala delle metope del Museo Archeologico Nazionale di Paestum sabato 8 marzo 2014, con Morena Luciani Russo, Pina Nuzzo Cristina Lucchi Vuolo, Francesca Thiery.)

Il desiderio delle donne che fanno parte del gruppo Artemide di Paestum di organizzare una mostra dedicata ad Artemide, Hera, Afrodite e Atena, con quattro artiste, tante quante le dee, con l’esplicita consegna che fossero femministe, merita una riflessione su l’arte e la politica, o meglio su arte e femminismo. Le questioni sono naturalmente aperte: che cosa significa arte femminista? L’arte che esplora la differenza sessuale può essere definita femminista? E ancora dove si inscrive la differenza sessuale in arte? C’è una differenza femminile specifica in arte? Negli ultimi anni in realtà si sono moltiplicate ricerche e saggi su queste questioni anche in Italia, dove ricordiamo che nel 1970 dal sodalizio della critica d’arte femminista dello spessore di Carla Lonzi e di una grande artista come Carla Accardi è nata Rivolta femminile. Recenti pubblicazioni hanno sfatato l’idea che nel nostro paese ci sia stata una scarsa presenza femminile in arte e che sia mancato il rapporto tra arte e femminismo. Numerose, infatti, furono le artiste, molte delle quali militanti nel movimento femminista. L’arte contemporanea, poi, deve molto alle pratiche artistiche nate dal movimento femminista degli anni ’70, quando anche un uomo, storico dell’arte, Lawrence Alloway dichiarava nell’articolo Women’s Art in the 70s: “Il movimento femminista nell’arte può essere considerato un’avanguardia perché coloro che vi parteciparono erano uniti dal desiderio di cambiare le forme sociali esistenti nel mondo dell’arte”.

“Il movimento delle donne si è espresso fin dagli inizi – scrive Donatella Franchi in Matrice Pensiero delle donne e pratiche artistiche (Quaderni di Via Dogana, 2004) – come una pratica creativa che attraversa e mette insieme vari tipi di linguaggi, dalla scrittura al linguaggio visivo, dall’uso del corpo alla invenzione di nuovi spazi, in una sperimentazione collettiva a tutto campo”.

Ma in che cosa si riconosce la differenza sessuale in arte? E soprattutto esiste? Se esiste, come penso, non è certo nei contenuti né nelle forme né nei colori o nei materiali e tecniche usate, ma è in un atteggiamento per cui le artiste tendono a evitare di riproporre i canoni della tradizione maschile, seguendo il proprio desiderio che le ha portate, per esempio, a dar valore a tutto ciò che non era stato considerato arte per rifiutare il mito dell’artista genio e per creare un proprio spazio allo scopo di significarsi e ripensare all’immagine di sé, dell’essere donna da un punto di vista sessuato, femminile.

In questa mostra il riferimento alle dee è dunque una dichiarazione che le donne, le artiste cercano una misura propria, alta, che va oltre l’immaginario maschile con un percorso che le porta all’origine del principio femminile che regolava il mondo. In questo senso il territorio campano del Cilento offre una traccia preziosa, perché qui, come in altre parti del mondo il culto originario era dedicato alla dea madre e alle dee che da essa derivarono, prima che l’ordine patriarcale sostituisse al culto delle dee quello per gli dei. Anche il tempio detto di Poseidon a Paestum in realtà era un secondo tempio dedicato ad Era.

Nel 2007 la mostra Wack! Art and feminist Revolution sugli inizi del movimento artistico femminista, era presentato come il movimento che aveva avuto maggiore influenza dal dopoguerra. Insomma, a detta di storici e storiche dell’arte, si trattò di una vera e propria avanguardia, l’Avanguardia femminista, definizione che rimarca la radicalità di quel movimento. In questo senso è esplicita la mostra Donna:Avanguardia Femminista degli anni ’70 dalla Sammlung Verbund di Vienna, che segna una tappa importante nella ricerca storica sull’avanguardia femminista. Da allora la ricerca delle artiste riguardava da una parte lo svelamento della pretesa universalità e naturalità del maschile, dall’altra la riflessione su una nuova identità femminile libera di significarsi nelle forme e modi più vari, sul corpo e la sessualità. Da allora molte cose sono cambiate e anche nel campo dell’arte è emersa e si è affermata numerosa la presenza femminile, come in tutti i campi. Nel 2005, per esempio per la prima volta dalla creazione della Biennale di Venezia due donne sono state commissarie generali, le spagnole Maria de Corral e Rosa Martinez, che presentarono un nutrito gruppo di artiste e all’ingresso dell’Arsenale, la cui esposizione curata dalla Martinez era intitolata “Sempre un po’ più lontano” le Guerrilla Girls, collettivo di artiste femministe nato nel 1985 a New York, realizzarono cinque grandi pannelli su cui in modo ironico esponevano il loro discorso femminista sull’arte. In quella stessa mostra Joana Vasconcelos presentò un gigantesco lampadario, La novia, fatto di tampax incelofanato, che evocava il sangue mestruale, il rapporto con il corpo, la sessualità, la verginità, la riflessione su ciò che è puro e su ciò che non lo è, portando alla luce letteralmente ciò che si nasconde, che è tabù. Alle artiste, e gli esempi sono tanti, si deve riconoscere una maggiore capacità di esprimere la propria soggettività senza veli ed eccessive mediazioni. Insomma una libertà di parlare di sé, del corpo e della sessualità, come avviene in tanti altri ambiti dei saperi.

A questa tendenza si riallaccia Cristina Vuolo, aggiungendoci note ironiche che l’ urgenza del desiderio e della necessità di dirsi allora forse limitavano. Cristina racconta il suo percorso di donna, fotografa e femminista, che coincide anche con fasi diverse della politica delle donne. Nella rappresentazione di Artemide sullo sfondo c’è una città al buio, segno di un passato che ha oscurato le donne come soggetto storico e politico, relegandolo alla dimensione domestica. In primo piano a destra emerge in piena luce un ritratto di donna con un cigarillo nella mano sinistra, simbolo di emancipazione, a destra nel cartellone pubblicitario una donna è fotografata con le braccia tese nell’atto di tendere un arco, cosa che la connota come Artemide, la dea cacciatrice. Sullo stesso cartellone appare alla sua sinistra la scrittaSputiamo su Hegel, riferimento al libro di Carla Lonzi. I simboli, l’atteggiamento e il riferimento al noto saggio delineano una figura di donna combattente, come negli anni Settanta. Artemide si è sempre sottratta al volere degli uomini, punendo severamente Atteone, facendolo sbranare dai cani perché aveva profanato la sua sacralità.

La fotografia sulla dea Atena ha la stessa impostazione e struttura della precedente, con la differenza che sul cartellone è scritto il titolo del famoso saggio Non credere di avere dei diritti. Atena la dea della sapienza e dell’intelletto qui rappresenta il pensiero della differenza sessuale, che rimanda storicamente agli inizi degli anni ’80. Nella terza fotografia Hera è di spalle luminosa con le ali, è Cristina stessa in una fase del suo percorso spirituale. La dea che nella mitologia è protettrice del matrimonio e dei parti, qui, simbolo della fedeltà a sé, sottratta all’immaginario maschile degli dei dell’Olimpo, diventa simbolo dell’agio del rapporto con il proprio corpo. Gender Trouble di Judith Butler segna questo “momento rivoluzionario nel pensarsi nel corpo, nella rappresentazione di sé ed ecco la scelta dell’angelo”, come motiva Cristina. Infine le due foto dedicate ad Afrodite rappresentano l’amore per le donne e tra donne, che ironicamente e con giocosità si scambiano la mela o giacciono su un letto di mele. Anche qui un libro di riferimento Post-porn di Annie Sprikle

“L’aspetto più forte che il tema delle dee mi portava a pensare per il mio percorso femminista – scrive Cristina Vuolo- era la relazione: la relazione con le donne, la relazione con sé, la relazione con un’altra donna. Negli anni ‘70 una relazione più viscerale, negli anni ‘80 una relazione più intellettuale, negli anni ‘90 più intimista e spirituale con me, e negli anni 2000 una relazione più ironica, aperta e sessuale col mondo delle donne”.

Nel suo percorso artistico Pina Nuzzo ha progressivamente abbandonato la pittura ad olio e la figurazione per sperimentare tecniche e materiali più comuni come la carta riciclata, plexiglass e plastica. Nell’interpretazione di Artemide, di cui è raffigurato il torso, come per le altre dee, usa colori notturni, l’abito è grigio argenteo, azzurro lo sfondo su cui si staglia una luna piena. Dalla scollatura della veste appaiono le curve del seno,come era abitudine della dea di cacciare a seno nudo per essere libera nei movimenti.

Per Atena Pina Nuzzo si ispira alla rappresentazione classica di Atena Nike con le braccia che si immaginano alzate e le ali che circondano le spalle. Sul petto gli occhi della civetta, animale sacro alla dea.

Per delineare la figura di Hera, usa fotocopie del disegno dell’anfora da lei stessa decorata, che è stata il “testimone” della staffetta portata e consegnata di volta in volta da due donne in segno di relazione e solidarietà , un evento dell’UDI di cui Pina è stata responsabile a livello nazionale, contro la violenza sulle donne, che ha iniziato il suo percorso il 25.11.2009 da Niscemi dove è stata uccisa Lorena Cultaro e terminata un anno dopo a Brescia dove è stata uccisa Hiina Saleem.

“Quando ho “fatto” Hera non ho pensato a tutto questo, ma quelle fotocopie si sono trasformate nel corpo della dea evocando il corpo dell’anfora e l’amore delle donne che l’ha accompagnata per un intero anno”. Afrodite la dea femminile per eccellenza, dea dell’amore, è rappresentata con colori chiari e luminosi, delineata da linee morbide, il triangolo del pube in evidenza, e circondata da fiori e simboli del femminismo. L’increspatura dei fogli di plastica leggera che ricopre il corpo ricorda l’onda del mare da cui la dea nacque e da cui probabilmente deriva il nome, afros, in greco spuma.

Morena Luciani, artista e antropologa, studiosa delle antiche culture matrifocali, dello sciamanesimo femminile e del rapporto tra sciamanesimo e creazione artistica, nel suo inconfondibile stile grafico offre un’interpretazione molto originale delle dee. Morena va all’origine dei simboli e del significato delle figure divine. Nell’area egea il culto di Atena risale ad epoche più arcaiche di quella greca, anzi, secondo Maria Gimbutas, deriva dalla dea uccello neolitica. Per questo, infatti, è rappresentata con la testa di uccello. Nel III libro dell’Odissea Omero così ne parla: “ Detto così, se ne andò Atena occhio azzurro, / simile ad un’aquila;”. Inoltre in greco occhio azzurro significa occhio di civetta. Afrodite è la più femminilizzata, come si vede dall’acconciatura, che riprende quella delle raffigurazioni della dea dell’età ellenistica.

Hera è una dea doppia dalle due teste e dai due seni. La spirale è un simbolo della dea madre da cui deriva il culto di Hera, che è una figura sopravvissuta di antichi culti minoici. E’ doppia perché, come scrive Morena Luciani, “ sono state ritrovate statuine delle “Due Hera”, che secondo Vicki Noble la rappresentavano nella sua veste di Regina Amazzone a capo del lignaggio femminile delle donne che reclamavano giustizia durante l’assalto al patriarcato.” La dea doppia rappresenta l’idea della sovranità femminile in epoche pre – patriarcali, caratterizzate da principi e pratiche femminili, che permeavano di sé la struttura stessa della società. Simboli della dea madre, la spirale e i teschi che ornano la collana alludono all’intero ciclo vitale, dalla nascita alla morte. Una delle due dee ha le corna di vacca, uno degli epiteti di Hera. L’epiteto con cui Omero si riferisce ad Hera è boopis, in greco occhio di bue, per la regalità dello sguardo.

Infine Artemide è rappresentata con un serpente che le cinge il ventre e il sangue mestruale che gocciola e feconda la terra. Nelle epoche arcaiche Infatti al sangue mestruale venivano attribuite qualità magiche. Uno degli attributi della dea è la luna, il cui mese ha la stessa durata del ciclo mestruale e comprende una fase crescente e una calante, infatti in molte opere dedicate ad Artemide appare la mezza luna o la luna piena; è legata al tempo ciclico della dea madre, che presiede i ritmi della natura e della fecondazione e, quindi del risveglio della natura dopo il sonno invernale. Nelle società contadine ancora oggi i lavori nei campi, semina, raccolto e conservazione sono scanditi dalle fasi lunari. L’invito di Morena non è quello di rimpiangere il passato ma di ritrovare dentro di sé il divino femminile e di porsi con sovranità nel mondo, recuperando e ridando valore alla parte emotiva e intuitiva, bollata dalla cultura patriarcale come irrazionale.

“Giocando col nero in un angolo della giornata” è il titolo che Francesca Thieryha dato alla serie delle quattro dee. Illustratrice e grafica, Francesca ne dà una versione del tutto moderna, togliendo ad esse qualsiasi connotato divino e giocando con masse grafiche di nero. Non ci sono attributi e simboli che possano ricondurre ad una visione nota e tradizionale: sono volti di donne mascherate, deformate, tutte con il capo coperto, con i lineamenti a volte delineati da brevi tratti bianchi sul fondo nero.

Ha rivisitato i miti adattandoli al suo lavoro di grafica, all’uso del nero di cui spesso si serve, e calandoli in una qualsiasi giornata di una donna.

“Ci può essere anche fatica e dolore nella giornata di una donna, – dice Francesca -ma sempre vi colgo uno spirito vitale, un temperamento di combattente. Ho scelto di non vestire le dee di simbologie tradizionali (lance, serpenti, cervi ecc) ma di lasciarle libere di giocare all’interno della gabbia quadrata e di usare il tratto grafico e l’atteggiamento del corpo per definire i caratteri e raccontare una storia.

I titoli raccontano il rapporto di queste donne ( o questa donna?) col nero: Era di Nero, Afrodite nel Nero, Artemide dal Nero, Atena sotto al Nero. Tutte in un angolo della giornata.
La storia che sto raccontando è quella di una donna che nei piccoli momenti di passaggio di una giornata si veste e si sveste di continuo di tutti gli archetipi e i caratteri che porta su di sé.”

La forma triangolare connota Atena, Afrodite è rappresentata in una forma ovale, a mandorla. Hera ha l’andamento più squadrato. Guarda dall’alto regale, come una madre giudicante. Atena porta una specie di elmo, la sua mano è nell’atto di afferrare la lancia, ma, in realtà gioca con i capelli, gli occhi ingranditi alludono al suo epiteto “occhi di civetta”.

Redazione

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