di Gea Piccardi
Ho incontrato i testi di Silvia Federici quattro anni fa. Mentre in Europa ancora erano in corso le traduzioni, in America Latina i suoi scritti stavano già passando di mano in mano, di assemblea in assemblea, tra collettivi di donne e misti. È stata una compagna italiana, parte del progetto di Universidad de La Tierra a Oaxaca (Messico), a mostrarmi per la prima volta il libro tradotto in spagnolo come Caliban y la bruja. Mi disse poche parole, semplici ed efficaci. Quel libro, disse, avrebbe permesso di ripensare la nascita dell’economia mondo capitalistica e degli Stati Nazione come un fenomeno di colonizzazione interna allo stesso territorio europeo, avvenuta sui corpi delle donne, terreno strategico di sfruttamento e appropriazione. Pochi mesi dopo, a Buones Aires, un’altra compagna mi raccontò che quell’anno, nella loro assemblea presso una villa di periferia, avevano letto e studiato insieme Caliban y la bruja, trovandovi strumenti fondamentali per l’elaborazione di un’azione politica femminista e postcoloniale.
Da allora, con alcune compagne, amiche e ricercatrici abbiamo cominciato a lavorare, qui in Italia, sui testi di Federici. Uno dei termini su cui ci siamo maggiormente imbattute è quello di «riproduzione», concetto che Federici comincia ad indagare con il collettivo padovano di Lotta Femminista dentro alle lotte delle donne negli anni Settanta. La loro analisi sul lavoro domestico e riproduttivo all’interno delle società capitalistiche occidentali ha permesso alla parola «riproduzione» di indicare via via molteplici campi semantici non riducibili al solo linguaggio della biologia o al concetto marxiano di «riproduzione sociale». Ha permesso di spostare l’attenzione teorica e politica dalla relazione capitale-lavoro centrata sullo sfruttamento del salariato, alle condizioni di possibilità di quella stessa relazione che risiedono altrove, in quello spazio – fino ad allora senza tempo e senza storia – della casa, del privato e delle reazioni sessuali, per indagarne le grammatiche specifiche. Finalmente oggi, anche in Italia, siamo in grado di poter ricostruire i passaggi della ricerca di Silvia Federici, grazie a un lavoro di traduzione e diffusione dei suoi testi avvenuto negli ultimi tre anni. È infatti di recente pubblicazione l’ultimo libro di Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, curato da Mimesis. L’impegno di compagne e compagni in diverse città ci ha offerto la possibilità, qualche settimana fa, d’incontrare l’autrice in Italia, nelle università e negli spazi sociali.
Con Calibano e la strega Federici prosegue con approccio storico e genealogico l’analisi critica sul lavoro riproduttivo contenuta nei saggi de Il punto zero della rivoluzione. Quali sono le origini della separazione tra produzione e riproduzione? Tra un maschile e un femminile che si riflettono in organizzazioni gerarchiche e oppressive di facoltà e attività umane? A partire da questi interrogativi, l’autrice mostra i nessi storici esistenti tra le esigenze dell’accumulazione originaria nel «passaggio al capitalismo», la nascita degli apparati di sapere e di potere su cui si sono costituiti gli Stati moderni, e l’organizzazione, attraverso la caccia alle streghe, del «nuovo ordine patriarcale» occidentale. Qui Federici propone con scientificità la storia della modernità occidentale ma da un’angolazione prospettica che si radica nelle urgenze di libertà del presente, senza cadere nelle gabbie dei pensieri totalizzanti. È proprio questa direzione di sguardo, carica di etica e di politica, che conduce a un pensiero complesso e aperto come quello che il suo libro ci regala. Un metodo d’analisi (ispirato ai lavori di Marx, Foucault e al pensiero femminista) che inchiesta il sociale, attuale e passato, mostrando le contemporaneità.
L’ideazione del libro, scrive nell’introduzione, nasce dalla sua permanenza in Nigeria durante gli anni Novanta, periodo di attivazione – in tutta l’Africa e nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo – dei «programmi di aggiustamento strutturale» imposti dall’FMI e dalla Banca Mondiale, che hanno coinciso con l’indebitamento, nuovi processi di espropriazione delle terre comuni, tagli alle spese sociali e ondate repressive e di violenza.
Da una parte, quindi, sono gli attuali fenomeni di naturalizzazione, espropriazione e attacco alla riproduzione, a livello globale, che illuminano la sua storia della caccia alle streghe nella fase di transizione al capitalismo. E dall’altra, è lo studio dei processi di violenta riorganizzazione del lavoro delle donne nella prima età moderna che permette di comprendere l’attualità neoliberista in cui il paesaggio riproduttivo – quello spazio da sempre rimosso dall’economia politica moderna e dalla critica marxista, abitato da corpi di donne che continuamente garantiscono le condizioni affettive, materiali e di cura di qualsiasi comunità – vive una fase di tremenda crisi che colpisce le vite delle singole, dei singoli, e della società tutta. Fuori da una lettura storicistica e progressista della storia Federici ritiene, dunque, che lo scenario della cosiddetta «accumulazione originaria» non si sia dato una volta per tutte, ma, al contrario, persista nel nostro presente sebbene con attrici/attori e in contesti differenti, coloniali e neocoloniali. E che ridisegni, non senza conflitto, le condizioni sociali di estrazione di profitto economico.
Tuttavia, di fronte ai segni della crisi, Federici trova esempi concreti di apertura e d’immaginazione radicale nelle esperienze di lotta di donne che oggi, in tutto il mondo, resistono alle logiche dell’economia capitalistica e ai «nuovi modelli di patriarcato». Da queste prende piede la sua riflessione sui commons o sulla pratica del commoning, intesa nel senso di «fare comunità», ricreare, cioè, un tessuto di relazioni di reciprocità che investano la materialità delle vite e le condizioni comuni di sussistenza e di benessere. L’esistenza di comunità autonome e resistenti sparse per il globo e radicate nelle pratiche di autodeterminazione delle donne, le permette di rintracciare nuovi profili possibili della prassi politica oggi; una prassi che indica altri tempi e spazi dell’azione e del pensiero, nuovi e differenti strumenti teorico-pratici di comprensione del mondo e di consapevolezza del proprio potenziale storico. È nel nesso tra crisi della riproduzione e pratiche di commoning che Federici rintraccia nuove priorità etico-politiche, non più legate alle grammatiche del potere maschile novecentesco e al modello di militanza da questo ereditato, ma aperte a nuovi orizzonti di senso.
L’intervista cerca di sciogliere questi nodi teorici, passando per la biografia dell’autrice e cercandovi i momenti sorgivi, quelli in cui incontri virtuosi con persone, luoghi o movimenti sociali hanno modificato e approfondito la sua ricerca. Quello che Federici propone a tutte e tutti noi, nel dipanarsi delle sue risposte, nella franchezza del linguaggio e nell’apertura dialogica del suo pensiero, è di affrontare la fatica immaginativa che richiede qualsiasi desiderio di cambiamento. Non c’è nulla di immediato e di automatico, ciascun gesto per esser libero richiede una grande attenzione, direi di weiliana memoria. Silvia Federici parla di «altri modi di fare politica» per ritrovare, in essa, un momento di soddisfazione di vita e di resistenza sociale forte.
Grazie alla traduzione del tuo libro Il punto zero della rivoluzione anche in Italia abbiamo potuto conoscere la complessità politica e teorica del tuo percorso militante e del tuo pensiero: da Lotta Femminista e il movimento internazionale per il Salario al Lavoro Domestico, alle battaglie delle donne per la terra, in Nigeria, durante i programmi di aggiustamento strutturale negli anni Novanta. Ti chiederei di ripercorrere il tuo cammino esperienziale e di pensiero, mettendo a fuoco in particolare i tuoi viaggi fuori dall’Italia: cosa ti ha mosso a partire e quali relazioni hai mantenuto negli anni? Qual è stato il rapporto tra la tua ricerca e i singoli luoghi e soggetti che hai incontrato?
Io vengo da Parma. Nel ‘67 sono andata a studiare negli Stati Uniti e lì mi sono fermata. Il mio incontro con il movimento femminista è avvenuto nel ‘71. Durante quell’anno ho incontrato, a New York, due compagni di Roma che venivano da Potere Operaio. Si erano trasferiti negli Stati Uniti e progettavano un libro sulla nuova sinistra, sull’operaismo e sull’esperienza della classe. Così abbiamo iniziato a tradurre. Io non ne sapevo veramente nulla perché quando tornavo in Italia stavo a Parma che era un luogo chiuso e con una forte egemonia del PCi, in cui forse qualcosa si muoveva nel ’69, ma molto poco. E non sapevo di questi grossi cambiamenti politici, dell’operaismo; conobbi Tronti negli Stati Uniti grazie ai compagni italiani. E, insomma, fu leggendo e traducendo i documenti che nel ‘71 trovai lo scritto di Mariarosa Dalla Costa[1] che mi colpì molto. Così, quando sono arrivata in Italia nella primavera-estate del ‘72 sono andata a Padova e lì è cominciata la mia storia con il movimento per salario al lavoro domestico – specificamente dall’incontro internazionale di Padova che ha portato alla formazione del Collettivo Femminista Internazionale, composto da varie donne ciascuna delle quali si impegnava a costruire iniziative sui salari nei posti in cui abitava. Così ho fatto io quando sono tornata negli Stati Uniti e dal ’73 al ‘77 ho fatto parte di questa organizzazione. Furono anni in cui tenni un rapporto stretto con le femministe italiane, soprattutto con il ramo padovano ed emiliano. E dato che New York era un grande porto, con tanta gente che andava e veniva dall’Italia, conobbi anche compagne dei Volsci e di altri collettivi italiani. Avevo certamente un’idea di quello che succedeva fuori dal movimento femminista, però, dal ‘72 in poi, quella diventò la mia casa.
All’inizio degli anni ‘80 la svolta neoliberista colpì a livello internazionale, ma negli usa iniziò prima. New York nel ‘75 aveva praticamente dichiarato banca rotta, episodio a cui seguì una violentissima ondata di repressione. In questo momento è cominciato quel processo, poi usato contro tutto il mondo, di tagli alla spesa sociale, di riapertura dei contratti dei lavoratori pubblici. Una commissione venuta da Albany, la capitale dello stato di New York, organizzò interventi molto pesanti: burocrati statali si mettevano nelle cabine telefoniche per vedere se i lavoratori timbravano all’ora giusta o mangiavano ore allo Stato, e molto altro.
Quindi stava cominciando, nella seconda metà degli anni ’70, quel processo che poi ha portato al neoliberismo e al reaganismo. E già agli inizi degli anni ‘80 si percepiva una stretta così forte che rendeva difficile qualsiasi azione politica. Mi prese un forte desiderio di fuga, volevo andare fuori dagli Stati Uniti e conoscere altre realtà. Fu così che andai in Nigeria, dove trascorsi un lungo periodo che ha segnato una svolta fondamentale nella mia vita. Qui sono entrata in contatto con tante storie. La storia del colonialismo si è concretizzata; ho toccato con mano i suoi effetti, recuperato pezzi attraverso le narrazioni della gente, imparando cose che non si possono studiare sui libri. Poi abbiamo assistito alle nuove politiche dette di “aggiustamento strutturale”, cose che in Europa e negli Stati Uniti sarebbero accadute sei anni dopo. Politiche che hanno visto il massiccio intervento del Fondo Monetario Internazionale e l’inizio della crisi del debito. Tutto questo nuovo apparato rappresentava il nuovo Stato mondiale in azione, la Banca Mondiale ecc. In Nigeria, tra l’83 e l’85, ci fu un dibattito importante su cosa voleva dire prendere un prestito dalla Banca Mondiale. Da subito si oppose una forte resistenza perché era chiaro che il prezzo da pagare sarebbe consistito in processi di ricolonizzazione, che spostavano di nuovo tutta la produzione e l’investimento del paese a vantaggio dell’export e che veniva scambiato con tagli sulle sovvenzioni sociali e sulla politica del lavoro.
In questo contesto presi contatto con due realtà che hanno influenzato tutto il mio lavoro a venire. La prima riguarda la questione della terra, questione centrale in tutta l’Africa e che ci parla del nostro presente, non del passato remoto. Oggi dico, e non provocatoriamente, che quella della terra è una delle lotte più importanti che esiste sul pianeta. Se perdiamo il controllo e la possibilità di usare la terra come sostentamento, in futuro sarà molto difficile. È lo stesso discorso che facevamo, negli anni Settanta, rispetto alla riproduzione e al salario: se non lottiamo sul terreno della riproduzione perdiamo su qualsiasi altro terreno. Se non cambiamo i rapporti di potere su quel livello, dopo sarà difficile ottenere un rapporto favorevole in qualsiasi lavoro, nel lavoro extradomestico, nel secondo lavoro, e in qualsiasi ambito sociale. Lo stesso vale per la terra: terra vuol dire acqua, terreni, foreste, semi, vuole dire possibilità di controllare la produzione del cibo, di non mangiare cose che ci avvelenano. Se si perde questa battaglia perché l’agricoltura di sussistenza viene distrutta e le terre privatizzate, si perde un enorme piano di benessere e di potere. E oggi, in tutto il mondo, è in corso una lotta disperata, in Africa, America Latina e altrove, ed è una lotta in cu le donne sono protagoniste.
E poi “terra” ha voluto dire “comune”: in Africa ancora negli anni ‘80 esistevano rapporti comunitari, regimi che sono stati attraversati da anni di colonizzazione, quindi inquinati e distorti, ma tuttavia esistenti e intrisi di una cultura diversa che senti in tante cose. Lì il discorso del comune era tangibile. Tutto questo l’ho conosciuto nel momento in cui erano sotto l’attacco delle privatizzazioni. Anche se va ricordato che l’Africa è stato il paese che ha resistito di più al processo di privatizzazione delle terre, tanto che ancora nel 1995 erano riusciti a privatizzare solo l’1%, pochissime aree avevano accettato il pano della Banca Mondiale che voleva trasformare i regimi comunitari in regimi di solvenza e dare la terra a titolo individuale. Nel ‘95 alcune comunità Masai non avevano ben chiaro a cosa andava incontro e, nonostante avessero accettato il titolo, continuavano con la gestione comunitaria precedente. Così dal ’95, con Wolfson, hanno organizzato un attacco molto più forte ma molto più soft e camuffato, che ha avuto efficacia differente, ma questo è tutto un discorso che se vorremo potremo approfondire più tardi.
Collaborai, inoltre, con le compagne della prima organizzazione femminista in Africa, che ora non esiste più, e che si chiamava WEN (Women Of Nigeria). Poi ho stretto legami forti con gli studenti, perché insegnavo all’Università, luogo in cui abbiamo vissuto direttamente i tagli alla spesa pubblica. Mi legai molto alle lotte studentesche e infatti quando ritornai negli Stati Uniti, assieme ad altri compagni – soprattutto africani che migravano per fuggire dalla situazione lavorativa insostenibile – abbiamo messo in piedi un’organizzazione che si chiama CAFA (Committee for academic freedom in Africa). Abbiamo usato il concetto molto reazionario di “libertà accademica” in forma provocatoria per riprenderne l’uso che studenti e insegnanti ne facevano nelle lotte studentesche. Qui libertà accademica significava libertà di studiare. Abbiamo lavorato con il CAFA fino al 2003 e insieme abbiamo pubblicato un libro come selezione degli articoli scritti nel bollettino organizzato assieme agli studenti. Sebbene lontani, eravamo in continuo contatto con organizzazioni studentesche e d’insegnanti che lottavano contro la privatizzazione. Poi nel 2003 abbiamo deciso di terminare l’esperienza del CAFA perché le relazioni sia con singoli che con organizzazioni cominciavano a sfaldarsi. Mancava un rapporto diretto, non eravamo più sicuri di quello che dicevamo e quindi abbiamo deciso di interrompere.
Un’altra ricerca cominciata in Africa è stata la documentazione sui nuovi regimi repressivi. E da questa ricerca capii come la globalizzazione e l’aggiustamento strutturale intensifichino l’uso della pena di morte in funzione repressiva. Man mano che l’austerità aumentava, aumentavano i furti e, per esempio, chi si appropriava di una cassa di birre tenendo in mano un machete finiva giustiziato. Scrivemmo molto su questo pure negli Stati Uniti.
Ebbene, questa è stata l’esperienza africana che ha lasciato molto dietro di sé. Una svolta teorico politica ma anche di pratiche che poi abbiamo continuato a tenere attive negli anni, legate ai movimenti.
Tornando negli Stati Uniti ho iniziato a insegnare in un’Università a un’ora da New York, a Long Island, collocata dentro una comunità, Hempstead, dove negli anni ‘80 cominciò a crearsi una grossa comunità di migranti che scappavano dal Salvador. Da questo momento mi interessai sempre di più ai Caraibi, all’America Centrale e all’America Latina. E’ stato l’incontro con le comunità migranti – che, in quegli anni, si riempivano sempre di più a causa degli attacchi al Nicaragua e al Salvador, della guerra a bassa intensità, del reaganismo – che mi ha avvicinata a quei territori. Con molti colleghi cercammo di stabilire contatti con le organizzazioni migranti e poi nel ‘94 cominciammo un percorso interessante. Quando Stati Uniti e Messico hanno firmato il NAFTA (North American Free Trade Agreement), evento da cui nacque una forte mobilizzazione critica, abbiamo deciso anche noi di fare la nostra parte, e abbiamo cominciato a pensare, con un’altra compagna, di portare studenti in Messico. Nelle vacanze di Natale inventammo un corso che si chiamava “Oltre confine” per spiegare agli studenti cos’era il NAFTA e quali effetti devastanti avrebbe avuto sulle popolazioni messicane. Volevamo cogliere anche l’occasione per introdurre gli studenti alla storia del Messico. Noi stesse, la mia collega ed io, studiavamo il sabato la lezione e la domenica gliela raccontavamo. Ebbene, senza saperlo, siamo capitate in un periodo cruciale. Il primo viaggio è stato con 13 studenti, da New York, il 1 gennaio del 1994. All’aeroporto una madre mi si avvicinò dicendo: “professoressa ho sentito stamattina alla radio che dei terroristi hanno preso una città del Messico!”. Io le dissi, ma cosa dice! Poi arrivammo a Messico City e venimmo a conoscenza dell’insurrezione zapatista. I nostri studenti, che erano tutti più o meno reazionari, tornarono con la maglietta “chiapas rebelde”. E lì è cominciata una nuova avventura. Dopo quella volta tronammo molte altre senza però poter ancora entrare nelle aree zapatiste, perché c’era la guerra.
Ne approfitto allora per chiederti di più della tua esperienza politica con il Chiapas. So che da molti anni sei in relazione con lo zapatismo, attenta ad osservare e ad ascoltare quella realtà. Tanto che a maggio dell’anno scorso (2015) sei stata invitata dall’EZLN a partecipare al grande incontro, presso il CIDECI-UniTierra di San Cristobal de Las Casas, intitolato Il pensiero critico di fronte all’Idra capitalista, che ha visto centinaia di pensatori e pensatrici da tutto il mondo prendere parola e portare il loro contributo.
Al convegno purtroppo non ho potuto partecipare personalmente perché ero in Argentina, ho solamente mandato lo scritto. Beh, quella zapatista è un’esperienza importantissima. Non si tratta di qualcosa di perfetto, ma indica una direzione enorme a livello politico ed è unica al mondo per tanti aspetti. Sono stati capaci di creare una società che conta più di duecentomila persone scaglionate su un’area molto vasta. Tutte le comunità zapatiste vivono all’ottanta per cento sulla sussistenza, fuori da rapporti commerciali. Quel venti per cento restante sono prodotti che vendono, come il caffè, perché ovviamente ci sono varie cose che ancora non riescono ad auto-produrre. Hanno delle banche ma completamente diverse, che danno prestiti senza interessi. Insomma, è un mondo che si sta dirigendo verso una società fuori dal denaro in modo molto consapevole. Un mondo che, contrariamente all’immaginario che prevale, invece di chiudersi è continuamente e periodicamente aperto. La loro politica internazionalista è qualcosa di unico che non credo abbia un analogo oggi nel resto del mondo. Gli zapatisti sono come una fisarmonica: ci sono periodi in cui si aprono, periodi in cui si ritirano, poi riflettono, portano i remi in barca, capiscono cos’è stato e cosa non è stato, vantaggi, svantaggi. Questo è per loro un momento di ritiro, successivo all’Escuelita Zapatista[2] che è stato un esperimento epocale, che ha visto partecipare migliaia di persone da tutto il mondo. Io purtroppo non sono riuscita a partecipare; come sempre mi sono scappati i tempi. Però ho avuto modo di confrontarmi con molte persone, tra cui il mio compagno, che hanno partecipato, e tutti ne erano entusiasti. La maggior parte di loro, i più anziani, li hanno mandati al Caracol di Morelia, dove son stata nell’ultimo viaggio che ho fatto in Messico tra novembre e dicembre 2016. L’occasione era l’invito al convegno, presso l’Università di Puebla, sulla Comunalidad, a cui hanno partecipato cari amici e amiche come Raul Zibechi e Mina Navarro (che ha scritto un libro molto bello che s’intitola La lucha por los bienes comunes, che consiglio assolutamente di leggere) e poi Raul Tapia dalla Bolivia, Rachel Gutierrez che invece ha scritto un libro fondamentale El ritmo del Pachacuti.
Tornata negli Stati Uniti negli anni ‘80 ho iniziato ad impegnarmi in questo collettivo misto che si chiama Midnight Notes che riprendeva tanti temi dai femminismi, dall’operaismo, questioni incontrate in Africa e poste dai movimenti postcoloniali. Abbiamo scritto collettivamente un testo, molto ripreso, intitolato Le nuove enclosures. La proposta d’analisi era quella di pensare il presente come un nuovo momento di accumulazione originaria.
La vostra proposta politica femminista, durante gli anni Settanta, era quella di rivendicare un salario per il lavoro domestico così da far uscire quell’immensa mole di lavoro allo scoperto, mostrando che c’è del valore, economico, che le donne producono e che è condizione indispensabile ma nascosta del funzionamento della produzione capitalistica. Una rivendicazione indispensabile per la liberazione e l’autodeterminazione delle donne. Era un’epoca in cui, almeno nei paesi occidentali, la linea del valore/non valore del lavoro seguiva e produceva i confini del pubblico e del privato, della casa e del luogo del lavoro, del ruolo femminile e del ruolo maschile. Oggi è tutto molto diverso, a livello tanto locale come globale. Come analizzi la trasformazione in atto? Che posto occupa il lavoro riproduttivo (valorizzato o meno) nelle economie capitaliste, neoliberiste e finanziarie? Ha ancora una connotazione marcatamente “femminile”? E’ ancora associabile al “domestico” o ha a che fare con altri tempi e spazi di vita?
Io sono molto scettica sulle teorie negriane per cui ormai il processo di riproduzione avverrebbe trasversalmente a tutte le mansioni. Per un certo verso anche noi femministe avevamo teorizzato questo: 24 ore su 24 ci riproduciamo per il capitale e quindi lottiamo perché il capitale ci mangia tutta la vita. Oggi bisogna certamente studiare come sono cambiate le modalità della riproduzione, e tuttavia, nel farlo, non si può eludere il fatto che la gran parte di questo lavoro è ancora non pagato e portato avanti dalle donne. Come dicevo, le modalità sono cambiate: nel modello precedente il processo di riproduzione della forza lavoro avveniva dentro a un servizio prestato dalle donne al lavoratore salariato e quindi aveva una gestione e un’organizzazione individuale caratterizzata dalla famiglia nucleare, dal contratto matrimoniale, nello scambio uno a uno tra donna e uomo. Oggi invece sempre di più si osserva che la riproduzione della forza lavoro avviene con modalità collettive. La donna non riproduce solamente l’individuo ma la collettività degli uomini e delle donne. Sempre più lo smantellamento del salario maschile e la ristrutturazione del sistema produttivo hanno creato queste forme nuove di lavoro riproduttivo. Nuove e diverse: dal doppio lavoro delle donne, all’ampliarsi del lavoro riproduttivo commercializzato con il trasferimento del lavoro a donne immigrate. Molte donne, e parlo ora a livello globale – ciascuno di questi processi ha una consistenza più o meno grande in ciascuna area – non fanno quasi più lavoro riproduttivo in casa ma fuori, portando banchetti di cose che hanno prodotto, snack che vendono collettivamente nella strada, e questo in risposta all’austerità da una parte e alla crisi del salario maschile dall’altra. Qui, per strada, curano i figli, si creano nuove solidarietà, nascono dinamiche di appoggio e di scambio con altre donne. E di resistenza, se si pensa alla capacità di risposta che hanno quando arriva la polizia, rompe i banchetti e si porta via le merci. Quindi c’è stata una trasformazione che ha incrementato quella parte di lavoro di riproduzione extradomestica che si compie fuori, nei negozi oppure nella strada attraverso questo commercio spicciolo, diretto, che è fondamentalmente finalizzato alla sussistenza.
Si tratta di un cambiamento che ha avuto risvolti significativi e ha portato a terreni di lotta nuovi. Oggi esistono movimenti di donne lavoratrici domestiche soprattutto migranti e di colore in tutto il mondo, in Europa, Stati Uniti e Medio Oriente, che vengono da paesi in cui è passato il vento della guerra e dell’aggiustamento strutturale. Cambiamenti che hanno creato nuove dinamiche, nuove soggettività e nuove contraddizioni tra le donne, perché sono in genere le donne bianche, europee o statunitensi, che assumono donne migranti. Area di contraddizione tanto quanto di potenzialità, rispetto alla possibilità di lavorare in comune. Quindi oggi esistono importanti movimenti di donne che stanno facendo nuovamente un discorso sul lavoro domestico, sulla sua valorizzazione, proponendo una visione diversa della maternità per cui essere bravi madri non significa solo stare in loco, ma anche partire e lavorare per mandare i soldi a casa. La maternità si può vivere in tanti modi, ci dicono. In questo senso assistiamo a nuove forme di soggettività. Queste donne migranti hanno un’esperienza internazionale, hanno imparato a lottare con le autorità locali, le migrazioni, le polizie. Anche solo limitandoci a questo quadro si apre tutta una serie di quesiti, possibilità, ma soprattutto alleanza tra le donne che fanno lavoro domestico sottopagato-ricattato e lavoratrici/lavoratori di tutto l’arco del lavoro non pagato. Questa, secondo me, potrebbe essere un’importante via da percorrere per trovare terreni comuni di lotta.
E poi, d’altra parte, si è ampliato il lavoro del sesso, assumendo moltissime nuove forme. Assistiamo a una globalizzazione del lavoro sessuale andata di pari passo con la globalizzazione del lavoro di cura. E insieme è nata tutta l’area del lavoro sessuale online.
A partire da queste nuove forme si è voluto credere che oggi non si possa più parlare di riproduzione, di lavoro di donne, e che quindi quello che si diceva negli anni ‘70 non conta più. Io, al contrario, credo che oggi, quello che ci differenzia dagli anni ‘70, è che stiamo affrontando una crisi sul terreno della riproduzione enorme e multidimensionale: crisi delle donne che fanno lavoro non pagato a casa e mal pagato fuori, e con orari impossibili, contraddizioni tra donne che fanno lavoro riproduttivo per altre donne, e poi, a livello proletario, scomparsa e smantellamento di moltissimo lavoro di riproduzione che un tempo veniva fatto in casa. Allo spostamento di tanto lavoro femminile fuori dalla casa non ha corrisposto un aumento dei servizi, anzi il contrario: nel momento in cui le donne sono uscite di casa per fare lavori extradomestici, lo Stato ha effettivamente tagliato quel poco di sussidi alla riproduzione. Assistiamo a un quadro di crisi immensa, di grossa riduzione del lavoro riproduttivo, di attacco alle sue possibilità, e di cambiamenti nel rapporto che le donne hanno con questo lavoro che producono conseguenze nelle lotte e nella solidarietà tra le donne stesse. L’altra realtà drammatica salta agli occhi quando si guarda alla situazione dei bambini e degli anziani, dei malati e in generale delle persone non autosufficienti: bambini che tornano da scuola a 5, 6 anni con la chiave al collo, vecchi che vivono in condizioni di solitudine e mancanza di capacità di riproduzione enorme. La riduzione del lavoro di riproduzione si riflette nella salute, nella crescita personale, nei fenomeni di obesità, si riflette nella disgregazione e nella crisi dei rapporti affettivi. Oggi non c’è tempo per l’affettività. E questa è una problematica enorme da affrontare con urgenza.
A partire dalle tue esperienze e dai tuoi incontri con organizzazioni dal basso di donne e non solo in America Latina o in Africa: che tipo relazione intercorre tra ruolo del lavoro riproduttivo e formulazione di progetti politici? Da quello che racconti, e che molte e molti di noi hanno sperimentato in quei paesi, non si tratta di lotte esclusivamente rivendicative (per una giustizia redistributiva della ricchezza sociale), anzi talvolta per niente, ma tutt’al più di autorganizzazioni dal basso a cui tu e tutta una serie di pensatori e pensatrici date il nome di «commons». Ebbene, che relazione c’è tra la riproduzione, come spazio sempre più vulnerabile delle vite, e la politica dei commons? E poi, se non è più redistributiva, a che tipo di giustizia pensi – e a che esperienze concrete di lotta, nel presente e nella storia passata guardi – quando fai leva sulla politica dei commons?
La politica dei commons è dettata dal fatto che milioni di persone, soprattutto donne, non vedono nessuna possibilità che lo Stato possa rispondere alle loro aspettative. L’unica possibilità di riproduzione e di costruzione del futuro diventa il lavoro collettivo. Io la chiamo organizzazione collettiva della riproduzione. Questo fenomeno si sta allargando a macchia d’olio in Africa e in America Latina nelle favelas, o nelle villas argentine. Di questo parla molto anche Raul Zibechi, mostrando che in gran parte i soggetti centrali sono le donne. Già a partire dagli anni ‘70, prima in Cile, in risposta all’austerità, poi in Argentina tra il 2000 e il 2002, quando l’economia monetaria è saltata, e in Perù, sono state le donne a farsi avanti e ad essere state capaci di garantire la riproduzione, sia a livello politico contro le repressioni sia a livello economico contro l’austerity, inventando nuove forme di cooperazione e di collettivizzazione del lavoro, a cominciare dai comedores populares [mense popolari, ndc], trovando una nuova fiducia per superare la paralisi e il terrore di quegli anni. Nuove forme di resistenza che sono state veicolo per scambiare informazioni, conoscenze, per congiungere tra loro pezzi di quartieri che l’esercito cercava di frammentare. Qui le donne hanno Zibechi parla di questi fenomeni nel libro Territori in resistenza: in un capitolo sul Perù spiega che a Lima, negli anni ’90, c’erano 7000 comitati quasi tutti composti da donne, che rappresentavano iniziative di riproduzione collettiva dal basso. Qui le donne si univano per garantire un bicchiere di latte per i bambini, con il comedor popular, o il merendero, oppure organizzavano giardini e orti urbani collettivi. In Villa Retiro a Buenos Aires ho conosciuto donne che hanno costruito la Casa delle donne, hanno organizzato strutture sanitarie di primo uso, riscoprendo conoscenze mediche tradizionali. Usano il teatro in modo politico per porre e discutere di problemi quotidiani. Mi riferisco al Teatro dell’Oppresso in cui si mette in scena un problema politico e si agisce su questo problema in modo che il pubblico diventi attore. In questa riorganizzazione collettiva si ricreano comunità, forte coesione e capacità di resistenza. Per esempio a Buenos Aires esiste una villa[3], Villa Retiro, che è abbastanza in centro, vicino alla stazione centrale degli autobus e ai grattacieli. Il governo della città, terrorizzato che le costruzioni della villa si espandessero oltre i confini e verso i quartieri ricchi, ha fatto erigere un muro. Ebbene le donne ne hanno subito spaccato una parte, dicendo “a noi non ci chiude dentro nessuno!”.
Queste donne dimostrano che il terreno della riproduzione è terreno di trasformazione, contrariamente a quanto tutta una cultura di sinistra ci ha sempre detto, ossia che il potere non è nella comunità e che le donne lo conquistano solo andando in fabbrica e unendosi alla lotta di classe come forma di supporto. La comunità, invece, è un campo autonomo di lotte, e per la comunità la riproduzione è stata terreno di ricomposizione e di creazione di una base di resistenza. Nelle villas argentine se entri nei comedores, vedi 10-15 donne con la lista dei turni, secondo un principio totalmente rotativo. Organizzano così una marea di attività, a tanti livelli differenti, e anche all’interno di fronti popolari ampi.
E tuttavia queste iniziative non si limitano all’America Latina, ma si stanno espandendo. Per esempio negli Stati Uniti sono le donne nere immigrate dal sud, dai Carabi, dall’America Latina che hanno introdotto la pratica degli orti popolari. Stanno nascendo anche altre pratiche, come le banche del tempo: esperimenti popolari, sorti nell’interland, ma anche tra le classi medie. La gente incomincia a scoprire che è importante attivare relazioni senza passare per il mercato e che questi scambi disegnano reti di amicizie, conoscenze, rompendo la solitudine e l’isolamento. Perché il problema centrale è proprio il livello di disgregazione che il neoliberalismo ha imposto. Non è solo la mancanza di soldi il problema, ma soprattutto che le reti di contro potere (come il contro potere delle comunità operaie), nate sulla base di strutture economiche e da anni e anni di lotte, sono state disintegrate con la gentrificazione, la ristrutturazione immobiliare e quella economica. Ricostituire queste comunità, o comunità nuove, diverse è diventato un obiettivo centrale ed è possibile rompendo l’isolamento che ha da sempre caratterizzato il processo riproduttivo.
Legato intrinsecamente a questo piano, c’è quello della creazione, a partire dalla socializzazione della riproduzione, di basi di resistenza. Basi da cui poi improntare lotte di riappropriazione della ricchezza sociale. Perché non si può cambiare in modo qualitativamente importante e significativo le nostre vite senza avere la ricchezza, che lo Stato detiene e monopolizza, a nostra disposizione. In America Latina, per esempio, queste basi non permettono allo Stato di organizzare il quartiere e parallelamente lottano per poter attaccare la luce elettrica senza pagarla o pagare a prezzi esigui. Come accadeva nei movimenti dell’autoriduzione che esistevano, in Italia negli anni Settanta, perché il tessuto comunitario, composto da comitati di quartiere, era molto forte. Quando l’organizzazione di quartiere è saltata sono saltate le comunità dell’autoriduzione. Nelle villas argentine lottano per avere provviste alimentari o materiali per costruire le case mostrando capacità e volontà di riappropriazione, contrarie al discorso liberale per il quale non si fanno rivendicazioni perché bisogna essere autosufficienti. Quello che si costruisce è invece l’autonomia e l’autodeterminazione nei confronti dell’organizzazione della riproduzione a livello quotidiano.
Di fronte alla chiusura individualistica che il paradigma dominante ci consegna come condizione di sopravvivenza, risulta sempre più difficile pensare a quello che tu chiami «lo sviluppo di un interesse comune per la comunità», ossia un’idea politica che vada al di là dell’interesse particolaristico e identitario, ma che sappia tenere insieme le differenze, superare le gerarchie e le divisioni sociali. Da dove cominciare, allora, per «fare comune»? Se non esistono identità a priori che possano stabilire dei “noi” di partenza (non solo l’identità di genere, “noi donne”, né di classe o di razza, ma tutto questo intersecato), quali spazi immaginativi e di pratiche nuovi si aprono per pensare ed agire in comune? Da femminista che ha conosciuto e incontrato differenti femminismi nel mondo, che cosa pensi possano insegnarci in questo senso?
Ci vado sempre molto cauta nel fare queste grandi critiche alle identità. Credo siano necessari dei distinguo. Molte volte si scarica nel nome dell’identità un tipo di forme di socialità e di comunanza che derivano dall’essere partecipi di modi di sfruttamento simili. È importante distinguere l’identità come progetto di chiusura in piccole isole non comunicanti (i diritti delle donne, i diritti degli indigeni, ecc) e che non vanno alla radice delle cause della sofferenza dall’identità che invece ha a che fare con il riconoscere un comune sfruttamento che può segnare la base del cambiamento. Questo è un primo punto.
Poi, potrei risponderti con un’espressione usata dal collettivo editoriale argentino Tinta Limon. Loro parlano di “epistemologia della sofferenza”. Anche se nel neoliberismo lo sfruttamento è vissuto in modi diversi, ci sono delle grandi aree in cui ci identifichiamo, dentro cui sentiamo l’importanza di unirci per superare le crisi: dalla precarizzazione, alla riduzione degli spazi e dei servizi sociali, senza che vi siano alternative. Oggi non credo che manchino le ragioni per unirsi, bensì la fiducia che il modo in cui ci uniamo possa essere efficace e non complichi ulteriormente la nostra vita. Di ragioni per unirci ce ne sono tante, troppe. E d’altra parte, mi rendo conto, esiste una difficoltà oggettiva a pensare forme efficaci di risposta che deriva dalle cattive esperienze di partiche adottate in passato. Esperienze che hanno fatto allontanare tanta gente dalla politica. Detto ciò, l’alternativa della non attività è fatale. Il problema urgente, ripeto, sta nel ripensare ai modi di fare politica.
E il discorso della riproduzione è fondamentale non solamente per contrastare “i piani del capitale” – come si diceva una volta – ma anche per creare forme diverse di resistenza, per pensare a cosa voglia dire oggi l’impegno militante, tante volte disincentivato proprio dal fatto che era in contraddizione con le possibilità di una riproduzione più degna e migliore. La militanza si è spesso trasformata in una forma di lavoro alienante, in sacrificio di sé. E su questo c’è veramente bisogno di un ripensamento non solo teorico ma anche pratico. Le riunioni che durano dieci ore, con gente che ha tempi di vita per cui può permettersi di parlare sempre e altre no, perché a casa hanno la madre che sta male o la baby sitter o i bambini. Questa non curanza verso le necessità della riproduzione è stata il denominatore comune di molte esperienze politiche. A cui si accompagnava l’idea della militanza come dovere e non invece come gioia, che deve ripagare subito, che deve restituire un livello di appagamento, migliorare la vita, dare più forza, proporre riunioni a cui si va con piacere. Queste non sono cose facili e ovvie da costruire, dato il contesto, ma sono obiettivi importanti. Non si capisce perché proletari disgraziati vadano alla partita di calcio spesso più volentieri che a una riunione. Questo è un terreno dove il discorso della riproduzione può diventare creativo per pensare ai nuovi modi di fare politica.
Di fatto il “da dove si parte” mi sembra non sia definibile a livello generale. Si deve partire dalle specifiche collocazioni. Siamo parte di territori che sono attraversati da linee di crisi molto grandi. Basta guardarsi intorno per vedere quali sono le direzioni delle lotte e quali le linee d’intervento possibile. E poi chiedersi come connetterle tra loro. Ciascuna di noi è già dentro un contesto che è un contesto di crisi. E quindi si parte da qui e dal fatto che prese individualmente siamo già finite. Le lotte perse sono quelle che non sono mai state cominciate. Dalle lotte che cominci impari sempre, attraversi e capisci i territori.
Io ho un’immagine di come mi piacerebbe che s’intervenisse nei quartieri. Penso ad assemblee di donne e uomini, a volte solo di donne, a seconda delle esigenze. Assemblee che cominciano con un “riprendiamoci la vita”. Che oggi significa costruire dal basso, pensare che non è lo Stato che ci deve organizzare la vita perché è uno Stato ormai in guerra con noi, da cui caso mai dobbiamo difenderci. Significa ripensare a come vogliamo vivere, come organizzare la casa, la salute, l’educazione. Io mi vedo queste assemblee comunitarie dove ci si riunisce non solamente nel momento della crisi più grave, ma dove ci si incontra spesso per decidere di quali strutture sanitarie abbiamo bisogno, per ragionare su quali sono i momenti di crisi in questa comunità, sul perché le donne non si uniscono, cosa ci manca in questo quartiere.
Mia mamma è stata malata e per tre anni è stata praticamente seduta sulla poltrona senza poter camminare. E io ho passato periodi lunghissimi con mia sorella per curarla. Avevamo anche una badante che veniva per qualche ora ad aiutarci ed eravamo collegate a una cooperativa di cura che ci mandava donne, pagate in parte dal municipio, che ci aiutavano a lavarla e ad alzarla perché nessuna di noi due ne aveva la capacità e il coraggio. Mia madre aveva ossa che si potevano frantumare come niente. Nonostante tutto questo io una volta ho passato settanta giorni senza uscire di casa. L’unica uscita era per andare a comprare medicine e mia sorella si occupava della spesa. Racconto tutto questo per dire che è stata un’esperienza fondamentale in cui ho capito che, come me, c’erano migliaia di donne in Italia chiuse in casa tutto il giorno, perché non esistono servizi di sostegno. Ed è stata un’esperienza che generava un continuo di idee e di desideri su quello di cui avrei avuto bisogno. Mi immaginavo strutture a livello comunitario a cui potermi rivolgere. Abbiamo dovuto fare non solo lavoro domestico e di cura, ma anche lavoro medico. Abbiamo dovuto imparare a curarle il decubito e le continue infezioni che le venivano stando a letto. Ho passato dei livelli di disperazione incredibile, perché non ero preparata e non avevo le forze per prendermi cura di una persona che amavo. E mi sono chiesta, perché? Dov’è il movimento femminista? Perché non ci organizziamo su questo?
Ho passato lunghi periodi in ospedale, tutte le notti sedendo sulle sedie perché non esistono strutture ospedaliere adatte. Gli ospedali italiani si reggono sul lavoro delle donne non pagate che dormono su una sedia. Io stavo in una corsia di donne anziane, donne di un’età media di settantacinque anni, tutte cadute con il femore rotto, o la spalla, e con le flebo. Su quaranta donne c’era, di notte, una sola infermiera che ovviamente non ce la faceva a seguirle tutte.
Allora è qui che bisogna lavorare. Qui ci servono altre strutture. La mia esperienza personale è analoga a quella che migliaia e migliaia di donne si vivono e da cui nasce una grande conoscenza dei bisogni comuni. Dovremmo fare grandi assemblee dove si parla della salute. Come la intendiamo? Quella che ci dà lo stato è funzionale solo a mandarci a lavoro il giorno dopo. Io dico che vogliono che moriamo prima, così non ci devono dare le pensioni.
Credo che ogni militante giovane dovrebbe passare un periodo in un ospedale, possibilmente in un ospedale geriatrico. Perché è lì che finiamo spesso. Così si ridimensionerebbe il concetto di cosa vuol dire far politica. Di quali sono le cose su cui è importante lavorare.
A proposito di quest’ultimo suggerimento – che accolgo con attenzione e curiosità e che mi sembra abbia a che fare con la necessità di esperienze d’apprendimento diffuse e trasversali – ti chiederei che ruolo giocano, per te, la formazione e la produzione di sapere nella politica dei commons…
La formazione è importantissima in un’epoca in cui il capitalismo ci ha veramente devastato. L’apparente ricchezza, di merci, di gadget, di vacanze, occulta come una nube il livello d’impoverimento dell’immaginario su tanti livelli. Ormai si pensa tutto in modo frammentario: l’economico, il culturale, il politico. E uno degli obiettivi della formazione dev’essere quello di ricomporre i frammenti. Si potrebbe partire, per esempio, dal terreno diciamo più immediato, necessario e prosaico, del «nutrimento», che immediatamente ci collegherebbe alla terra, alle stagioni, e a tanto altro, e per il quale sarebbe necessario un percorso di formazione politica. Perché per rispondere a questo attacco mostruoso a tutti i livelli della produzione del cibo, bisogna parlare dell’inquinamento delle terre, delle sementi ogm, dell’uso di pesticidi, della distribuzione del cibo, trasportato per chilometri e quindi fumigato, per cui alla fine mangiamo prodotti che invece di nutrirci ci uccidono. Per fare una lotta qualsiasi sul cibo è necessaria una storia culturale. Si possono scrivere libri, poesie, fantasie, si possono fare film a partire dal cibo, si può creare una storia densa di rapporti sociali, di concezioni della natura. Noi abbiamo impoverito enormemente il discorso “lotta, politica, militanza”. È diventata una cosa truculenta e povera. Io invece sono convinta che la gente abbia voglia, fame e sete di conoscenza, che è però diversa da quella burocratica e noiosissima delle scuole e spesso anche dei circoli militanti. Bisogna aprirci a una creatività per cui la lotta per il cibo è anche culturale, che ci pone in contatto con altre culture, perché attraverso il cibo si esprimono relazioni sociali, ambientali, ecc. Un sapere che permetta di vedere i raccordi tra la lotta per il cibo e quella per le terre, perché non puoi fare l’una senza pensare anche all’altra. Cos’è la terra, che cosa racchiude, cosa ha voluto dire e cosa vuol dire riprendere il contatto con la terra? Significa riprendere contatto con tutto un mondo di forze che ci mostrano come la nostra vita, se osservata a partire dall’individuo, risulti un’immagine impoverita. In realtà siamo parte di qualcosa di molto più grande di noi. E sapere che ci sono altre energie che giocano nel pianeta e nell’universo, che vanno al di là del capitalismo, ci più conferire enorme forza.
Io così mi immagino la formazione politica, fatta di tante dimensioni che devono unirci, devono fare in modo che si abbia piacere e desiderio di politica, contro un’idea sacrificale dell’impegno. Il che non vuol dire assenza di sofferenza e di rischi, bensì esercitarsi affinché la politica non diventi il proseguimento di quello che una volta era il lavoro di riproduzione, nella figura madre sacrificale. Basta con soggetti sacrificali! Se il lavoro militante non aiuta a liberarci e se non c’è desiderio, allora non va bene, vuol dire che si stanno facendo degli sbagli. Per me questo è principio di vita, un test. Quando comincia quella percezione di pesantezza riesamino quello che sto facendo con l’assunto che forse qualcosa non va.
In questo senso, da filosofa, femminista e militante, quali sono le possibilità della filosofia oggi? E poi invece, da ricercatrice che ha lavorato nell’accademia, come ti sei vissuta questo spazio e le sue contraddizioni?
C’è molta ideologia su che cosa sia la filosofia. Per me è stata importante perché permette di vedere le cose con distanza, perché ti fa conoscere i nessi che non si colgono nella sola esperienza empirica. Il pensiero filosofico, però, è sorto sempre da problemi molto pratici. Per esempio possiamo individuare tutta una corrente di filosofi nata in difesa dello Stato e delle logiche del capitale. George Caffenzis sta affrontando da tempo questa ricerca in una trilogia in via di conclusione, dimostrando che la produzione teorica dell’empirismo inglese (Locke, Berkeley, ecc) nasceva in un contesto storico di sviluppo del capitalismo e che questi filosofi erano ben radicati nelle logiche del potere in momenti specifici in cui si stavano sviluppando determinate forme di rapporti monetari. La loro filosofia non era per niente astratta, come molte volte si pensa. Al contrario rispondeva a una politica specifica. È importante sfatare questa immagine della filosofia che vive nella stratosfera, importante per ripensare l’uso della filosofia oggi.
Dall’altra parte, il discorso dell’accademia è molto ampio e bisogna farlo partire dall’evoluzione storica dell’accademia, con lo sviluppo dell’istruzione pubblica nel capitalismo. In questi anni abbiamo visto un passaggio importante di trasformazione rispetto alla scuola del dopo guerra, con il ritiro dell’investimento statale e la conseguente nascita della scuola e dell’università impresa. Sono passaggi storici e politici avvenuti in risposta alle lotte: la finanziarizzazione dell’educazione – per cui invece del governo che finanzia l’educazione è lo studente che deve autofinanziarsi – è stata una risposta politica alle lotte degli studenti e degli insegnanti nel mondo della formazione. Allora il punto è come ci vivi dentro. Io, che ho insegnato per quasi quarant’anni, ci vivo riconoscendo che è un lavoro salariato che mi dà alcune possibilità però da non mitizzare. Ci sono dei meccanismi strutturali che pongono dei limiti molto grossi. Come in tutti i posti di lavoro cerchi di cambiare, di trasformare e di usare la ricchezza che offre per scopi che travalicano le quattro mura. Con compagne e compagni abbiamo cercato di rompere l’isolamento dell’accademia, di portare gente da fuori, proveniente dalle lotte, di fare riunioni, conferenze, senza però mai perdere di vista il fatto che, ripeto, ci sono dei limiti strutturali. C’è tutta una fetta di movimento, di lavoratori intellettuali, che pensano che l’accademia ti permetta grandi cose. E in realtà coltivare certe illusioni crea solo nuovi pericoli, ostacola la realizzazione di altre possibilità, e permette all’accademia di continuare ad avere un suo fascino perché ci sono corsi su Marx, sui Women Studies, sul femminismo o sui Postcolonial Studies.
Oggi negli Stati Uniti la prima cosa da considerare per noi insegnanti, in un accademia dove gli studenti devono pagare cifre esorbitanti per partecipare, è unirci agli studenti e lottare contro il debito. Perché è intollerabile l’idea che gli studenti seguendo la mia classe su Marx siano schiavizzati e si trovino a dover pagare magari 4 o 5 mila dollari che probabilmente non riusciranno a restituire una volta usciti dall’accademia, perché il lavoro che l’università stessa dovrebbe procurargli non esiste. Non puoi insegnare Marx e non parlare del debito. Questi sono concretamente i dilemmi e le contraddizioni.
[1] Maria Rosa dalla Costa, Potere femminile e sovversione sociale, Marsilio Editori, Padova, 1972
[2] Letteralmente “piccola scuola zapatista”. Nell’agosto 2013 gli zapatisti hanno organizzato il 1° livello della scuola, invitando migliaia di persone dal Messico e dal mondo, militanti e aderenti alla Sexta, a partecipare a una settimana di “scuola” nelle comunità zapatiste del Chiapas. L’esperienza comincia dopo che, il 21 dicembre 2012, gli zapatisti hanno rotto il silenzio di molti anni, con una marcia silenziosa presso le vie di San Cristobal de Las Casa.
[3] Espressione argentina che indica zone urbane autocostruite dalle e dagli abitanti, tendenzialmente periferiche ma anche centrali, come nel caso di Villa Retiro. Si tratta di aree di segregazione razziale urbana, abitate da migranti in particolare da Paraguay, Perù e Bolivia che costituiscono la manodopera sfruttata della città. Insieme, però, sono zone di opacità, di resistenza e di economie informali-solidarie.