Questa relazione nasce con l’intento di esaminare il ruolo della donna nel contesto politico e di vita associata attraverso un rapido excursus storico che va dalla Grecia antica ai giorni nostri, passando per il mondo romano e quello bizantino, l’Europa moderna e il Novecento. Ci si interroga allora sull’ipotetica semplicità del vivere essendo uomini.
Si evidenzia come in realtà ciò non sia vero e si cerca di analizzare la differenza di genere alla luce dei diritti (o piuttosto della loro mancanza) che consentono (o meno) di vivere esprimendo al meglio il proprio sé.
Si propone infine una mediazione che vada oltre i generi, in virtù della considerazione che al di là della differenza sessuale, vada valorizzata l’unicità di ognuno per il benessere di tutti.
“Sarai un uomo o una donna? Vorrei che tu fossi una donna. Vorrei che tu provassi un giorno ciò che provo io: non sono affatto d’accordo con la mia mamma la quale pensa che nascere donna sia una disgrazia. La mia mamma, quando è molto infelice, sospira: «Ah, se fossi nata uomo!». Lo so: il nostro è un mondo fabbricato dagli uomini per gli uomini, la loro dittatura è così antica che si estende perfino al linguaggio. Si dice uomo per dire uomo e donna, si dice bambino per dire bambino e bambina, si dice figlio per dire figlio e figlia, si dice omicidio per indicare l’assassinio di un uomo e di una donna. Nelle leggende che i maschi hanno inventato per spiegare la vita, la prima creatura non è una donna: è un uomo chiamato Adamo. Eva arriva dopo, per divertirlo e combinare guai. Nei dipinti che adornano le loro chiese, Dio è un vecchio con la barba bianca: mai una vecchia coi capelli bianchi. E tutti i loro eroi sono maschi: da quel Prometeo che scoprì il fuoco a quell’Icaro che tentò di volare, su fino a quel Gesù che dichiarano figlio del Padre e dello Spirito Santo: quasi che la donna da cui fu partorito fosse un’incubatrice o una balia.
Eppure, o proprio per questo, essere donna è così affascinante. È un’avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non annoia mai.”1
Fin dai tempi antichi la condizione femminile e il ruolo che la donna deve avere nella famiglia, nella vita associata e nella politica si pongono come questioni complesse a cui si è tentato, e si tenta ancora oggi, di trovare una soluzione.
Nell’antica Grecia, Pericle sostiene che “la gloria più grande per le donne è che non vi sia da parlare di loro”.
Platone propone un’integrazione della donna nella polis nella misura in cui questa si rivela utile per il raggiungimento del bene comune.
Aristotele ritiene il maschio per natura migliore della femmina e, di conseguenza, è altrettanto naturale che l’uno comandi, l’altra obbedisca. Le donne, per Aristotele, sono “umani politici, dotati di voce e persino di capacità di deliberare, ma solo parzialmente e questa limitazione è naturale, dunque permanente.”2 La donna doveva espletare la propria
- O. Fallaci, Lettera a un bambino mai nato
- F. Giardini, L’alleanza inquieta
funzione all’interno dell’οἶκος, doveva amministrare l’ambiente domestico, non curandosi di quello politico, che era invece appannaggio degli uomini liberi.
È significativo il fatto che nella tragedia greca un personaggio forte e seducente come
Medea, che coinvolge e sconvolge l’animo dello spettatore e che viene definita “δεινή”
(straordinaria nel bene, ma anche e soprattutto nel male), sia una donna barbara, come se Euripide volesse mantenere la distanza tra ella e le donne greche, per preservarle da un atto di forza e di presa di posizione tale da disubbidire e prevaricare la volontà dell’uomo.
Nella Roma repubblicana, la donna ha poco rilevo nella società, anche se svolge un ruolo attivo nell’ambito domestico. Viveva sotto tutela, passando da quella del padre a quella del marito. La matrona possedeva, dunque, grande libertà nell’ambiente casalingo, fuori dal quale era notevolmente limitata (“casta fuit, domum servavit, lanam fecit” recita un necrologio per elogiare le qualità di una donna). La serva era, invece, subordinata al volere della matrona. Lo strato più basso della società femminile era rappresentato dalle prostitute che, paradossalmente, erano più libere per certi aspetti rispetto alle altre donne. Nella Roma imperiale la figura femminile inizia ad avere un maggiore peso nelle decisioni politiche, anche se non erano sua diretta emanazione, ma frutto dell’influenza che alcune donne avevano sugli uomini di potere. Ricordiamo, ad esempio, Agrippina, donna forte, spietata nel conquistare il potere, che riesce a far adottare il figlio Nerone dall’imperatore Claudio. Sarà proprio lei ad affiancare il figlio quando diventerà princeps, fino a quando non sarà uccisa proprio per volontà dello stesso Nerone. “«Ventrem feri» exclamavit, multisque vulneribus confecta est”3: l’autorevolezza di Agrippina viene esaltata anche nell’attimo prima di morire, quando ordina ai sicari di “colpire il ventre”, come se volesse comandare tutto fino all’ultimo istante.
Nel mondo bizantino è sorprendente scoprire quante donne hanno lasciato un segno con le loro azioni e i loro scritti. Poco studiate rispetto alle donne greche e romane, è interessante analizzarle per conoscerne il pensiero, la vita e, in alcuni casi, anche la morte. Grande esempio di questa tradizione è Ipazia: era matematica, astronoma, filosofa,
3 Cit. Tacito, Annales
maestra di pensiero e di comportamento. Socrate Scolastico ci dice che “la donna, gettandosi addosso il mantello e uscendo in mezzo alla città, spiegava pubblicamente a chiunque volesse ascoltarla Platone o Aristotele o le opere di qualsiasi altro filosofo”.
Aveva anche un peso politico inconsueto per una donna. Spesso era la sola donna che partecipava a riunioni maschili, durante le quali non si mostrava per nulla intimorita dalla situazione, anzi era lucida nella dialettica, quasi elegantemente insolente. Ipazia muore di una morte terribile per volontà del vescovo Cirillo che, temendola, trasforma la sua paura in sanzione religiosa contro streghe e maghe: viene scorticata viva, le vengono cavati gli occhi e i suoi resti vengono bruciati. Ipazia non ha trovato giustizia allora e forse poca anche nei secoli dopo, considerando che il suo carnefice è diventato santo e dottore della
Chiesa, elogiato perfino nel 2007 da Papa Ratzinger per l’energia del suo operato. Ora, come allora, il suo martirio sembra essere invisibile.
Nell’età moderna, si ha un periodo di grandi cambiamenti: siamo nell’epoca del contratto e delle rivoluzioni per il riconoscimento dei diritti personali, sociali e politici.
Nel contratto di Hobbes sono incluse anche le donne, ma solo come tacitamente acconsenzienti ad esso, non come soggetti contraenti del patto stesso. Hobbes, dunque, così come Locke, vede nella famiglia “l’anello di congiunzione tra il privato e il politico, e lasciano le donne nel primo”.4
“Le donne non prendono parte al contratto originario, ma non vengono neppure lasciate nello stato di natura […] vengono incorporate in una sfera che, rispetto alla società civile, si trova contemporaneamente dentro e fuori.”5
L’età moderna è però anche l’epoca di grandi figure femminili che hanno posto importanti interrogativi (“Se tutti gli uomini nascono liberi, come accade che le donne nascano schiave?”6) e fatto proposte concrete per le donne, schierandosi a favore dell’educazione femminile (“È mai possibile che vi contentiate di stare al mondo come dei tulipani in un giardino, a far bella mostra senza servire a nulla, permettendo che tutti i vostri meriti
- Cit, F. Giardini, L’alleanza inquieta
- C. Pateman, Il contratto sessuale
- M. Astell, Reflections upon marriage
svaniscano nella tomba, se non prima? […] L’ignoranza è causa della maggior parte dei vizi femminili: l’alterigia e la vanità infatti, che di solito ci vengono rimproverate, ad un esame accurato, si vedrà che stanno all’origine di tutti gli altri vizi.”7). Un’educazione che va al di là dell’istruzione e il cui scopo sarà “disperdere la nube di ignoranza che ci avvolge a causa dei costumi, di rifornire le nostre menti di una scorta di conoscenze utili e solide in modo che l’anima delle donne non sia più la sola cosa disadorna e trascurata”8.
All’incirca nello stesso periodo, in Francia, si inaugura un nuovo spazio appannaggio femminile che esula dalla vita politica e rifiuta le ingerenze del potere nella vita privata: il salotto. “Uno spazio che non è né domestico, né istituzionale: la sua casa, il suo salotto pur privato […] diventerà lo spazio ospitale di tutto il mondo, governato da donne educate, […] le Preziose”9. Queste donne rifiutano, dunque, di diventare dame di corte, proprio quella corte criticata da Montesquieu nella XXVI lettera della sua opera: “Sì, Rossana, se voi foste qui, vi sentireste oltraggiata nella spaventosa ignominia in cui è caduto il vostro sesso. […] Che cosa devo pensare, invece, delle donne d’Europa? L’arte di dipingersi il viso, gli ornamenti con cui si adornano, la cura che hanno della loro persona, il continuo desiderio di piacere che le domina, sono altrettante macchie sulla loro virtù e oltraggi al loro marito”10. Questa lettera rappresenta un elogio ai valori delle donne persiane contro la pochezza intellettuale e morale e la dissolutezza delle dame francesi.
Ma è con la Rivoluzione francese che si ripensa ai diritti che stanno alla base della vita pubblica e privata: “è l’evento che conferma l’aspirazione alla libertà di tutti e di ciascuno”11. Non più un contratto, ma una Dichiarazione. Il problema che anche qui si presenta è, però, quello del ruolo femminile: “le donne […] non devono avere un’influenza attiva sulla spesa pubblica. Tutti possono godere dei vantaggi della società, ma solo coloro che fanno parte del sistema delle pubbliche istituzioni rappresentano i veri azionari della grande impresa sociale, solo loro sono i veri cittadini attivi, i veri membri
- M. Astell, A serious proposal to the ladies
- Ivi
- F. Giardini, L’alleanza inquieta
- Montesquieu, Lettere persiane
- F. Giardini, L’alleanza inquieta
dell’associazione”12. Condorcet risponde chiedendosi se proprio il primo articolo della Dichiarazione (“Gli uomini nascono e rimangono liberi ed uguali nei diritti”) non sia in realtà violato nel momento in cui metà del genere umano viene estromesso dalla possibilità di partecipare attivamente alla vita associata.
In risposta a questa Dichiarazione, Olympe de Gouges redige la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina” nel 1793. Nel Preambolo scrive: “Uomo, sei tu capace di essere giusto? Chi ti pone la domanda è una donna: questo diritto, almeno, non glielo toglierai”. E ancora: “cerca, scava e distingui, se puoi, i due sessi nell’amministrazione della natura. Ovunque, li troverai confusi, ovunque essi cooperano in armonioso insieme a questo capolavoro immortale! Soltanto l’uomo si è creato alla meno peggio un principio di questa eccezione”. Olympe de Gouges sarà ghigliottinata per volontà di Robespierre che la considerava estremista e pericolosa.
Il lavoro di Olympe de Gouges sarà ripreso da Mary Wollstonecraft, la quale sostiene, nella sua più importante opera (“A Vindication of the Rights of Woman”), che le donne potrebbero essere a tutti gli effetti le “compagne” dei loro mariti e non semplicemente le loro spose. Potrebbero essere complici, non succubi dell’agire maschile. Sostiene che le donne sono, in quanto esseri umani, titolari degli stessi diritti fondamentali riconosciuti agli uomini. Polemizza con l’idea sostenuta da Rousseau nell’ “Émile”, secondo cui le donne avrebbero dovuto essere educate in modo da piacere all’uomo.
Tuttavia, nell’Ottocento, Hegel attribuisce ad Antigone “la funzione liminare di custode della dignità dei morti […] e dunque “eterna ironia della comunità” pubblica e politica”13.
Marx considera le donne come una proprietà da mettere in comune nella fase iniziale del comunismo, affinché l’uomo si abitui a non avere alcun bene o ricchezza privata.
Freud vede invece le donne come castrate, private del pene.
Durante il Novecento, bisogna anche chiedersi quale ruolo abbiano avuto le donne nelle guerre, quelle guerre in cui si parla quasi esclusivamente degli uomini che partono e vanno
- Sieyès, Preliminari della Costituzione
- F. Giardini, L’alleanza inquieta
a combattere al fronte. Ma “la guerra, per necessità, infrange le barriere che dividono rigidamente i lavori maschili da quelli femminili […]. Ovunque, le mansioni affidate alle donne le rendono visibili nello spazio pubblico […] La guerra rappresenta un periodo di intenso attivismo che altera la chiusura sociale, come pure la rigidità dei modi di abbigliamento e di socialità borghesi […]. La fine del busto, l’accorciarsi delle gonne, la semplificazione dell’abbigliamento liberano i corpi e rendono più sciolti i movimenti.”14
Questo lavoro anche se largamente riconosciuto, viene ben presto dimenticato. Così in epoca fascista, già nel 1922, le organizzazioni femminili non potevano prendere iniziativa di carattere politico. Agli uomini toccherà la politica, alle donne il sociale. Così si sanciva l’incapacità delle donne di elevarsi al di sopra della loro natura, destinata alla gestione della famiglia e alla sottomissione. Mussolini riteneva le donne “analitiche, non sintetiche”, per cui “incapaci di attività intellettuali, ma predisposte fisicamente alla maternità e ad essere custodi del focolare”.
Arriviamo così a tempi assai recenti, in cui la problematica politica è strettamente legata al linguaggio, e il parlare non corrisponde necessariamente ad esprimersi.
Così “il femminismo ha inizio quando la donna cerca la risonanza di sé nell’autenticità di un’altra donna perché capisce che il suo unico modo di ritrovare se stessa è nella sua specie. […] Accorgersi che ogni aggancio al mondo maschile è il vero ostacolo alla propria liberazione fa scattare la coscienza di sé tra donne”15.
In questo solco tra politica e linguaggio, tra parola ed espressione, si inserisce l’attività di Carla Lonzi, che propone la necessità di una “parola piena” che sia “significativa per sé e per chi la ascolta”16, di contro ad un ruolo predeterminato in cui “parlare significa dire ciò che è previsto”17. “La forza della parola pronunciata da una donna può così influire sulle
- F. Thébaud, La Grande Guerra: età della guerra o trionfo della differenza sessuale?
- C. Lonzi, Significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi
- Ivi
- Ivi
parti della vita che le sono riservate […] in contropartita all’irrilevanza della sua parola sui fatti pubblici, del lavoro, della politica, della cultura.”18
Donne che non vengono ascoltate, ma la cui grande prerogativa è ascoltare gli altri. Ma la donna che si limita ad ascoltare imparerà a parlare restando sottoposta al mondo maschile, mentre la donna che attraverso la parola esprime le proprie emozioni, sensazioni, volontà, non vorrà essere accettata, ma vorrà essere libera. “Prendere parola significa mettersi innanzitutto in una posizione attiva e responsabile”19.
Ci sono stati esempi di donne che hanno contribuito con la propria scrittura, con la propria esperienza a rendere questa presa di posizione concreta.
“Eppure siamo ancora giovani. […] Contro la tua paura ragazza, non puoi bere. Sorseggi questo bicchiere come tutte le donne che non hanno una vita, che non hanno un posto in questa roba, in questa società e in nessun’altra roba. Nemmeno nella propria. E se la gente non ti difende, cos’altro può succedere? È vuoto nei tuoi occhi. È un vuoto stantio, il tuo sentimento. È un peccato per te, ragazza, è un peccato.”20 Herta Müller trova il modo di dare voce alle immagini dell’infanzia che rivivono nella sua mente solo attraverso la scrittura. È straniera nella sua patria e straniera nell’esilio: è una donna che non sa più “se la sua condizione sia quella di viaggiatrice con le scarpe sottili o di abitante con la valigia”21. Questa scrittrice, Premio Nobel per la Letteratura nel 2009, è esempio e portavoce dell’incessante condizione di incertezza e precarietà di cui troppo spesso sono vittime le donne.
Non sarebbe meglio, dunque, essere nate uomini?
E allora…
“Se nascerai uomo io sarò contenta lo stesso. E forse di più perché ti saranno risparmiate tante umiliazioni, tante servitù, tanti abusi. Se nascerai uomo, ad esempio, non dovrai temere d’essere violentato nel buio di una strada. Non dovrai servirti di un bel viso per
- Ivi
- Ivi
- H. Müller, Bassure
- G. Marramao, Contro il potere
essere accettato al primo sguardo, di un bel corpo per nascondere la tua intelligenza. Non subirai giudizi malvagi quando dormirai con chi ti piace, non ti sentirai dire che il peccato nacque il giorno in cui cogliesti una mela. Faticherai molto meno. Potrai batterti più comodamente per sostenere che, se Dio esistesse, potrebbe essere anche una vecchia coi capelli bianchi o una bella ragazza. Potrai disubbidire senza venir deriso, amare senza svegliarti una notte con la sensazione di precipitare in un pozzo, difenderti senza finire insultato.”22
Tuttavia…
“Naturalmente ti toccheranno altre schiavitù, altre ingiustizie: neanche per un uomo la vita
è facile, sai. Poiché avrai muscoli più saldi, ti chiederanno di portare fardelli più pesi, ti imporranno arbitrarie responsabilità. Poiché avrai la barba, rideranno se tu piangi e perfino se hai bisogno di tenerezza. Poiché avrai una coda davanti ti ordineranno di uccidere o essere ucciso alla guerra ed esigeranno la tua complicità per tramandare la tirannia che istaurarono nelle caverne. Eppure, o proprio per questo, essere uomo sarà un avventura altrettanto meravigliosa: un’ impresa che non ti deluderà mai.”23
Dagli antichi eroi dei miti e dell’epica greca ad oggi si è venuta sempre più consolidando l’idea o, meglio ancora, l’ideale di uomo come coraggioso, virile, sprezzante del pericolo, che combatte ogni battaglia per la patria, per la gloria, per una donna, senza paura. Un uomo che rischia la propria vita per fare ciò che gli altri si aspettano che faccia. Si dovrebbe, invece, ripensare questo paradigma che caratterizza la figura maschile e capire che anche gli uomini soffrono, amano, piangono, hanno paura e non sono invincibili come li si vuole descrivere.
Così come bisogna ripensare gli attributi che da sempre identificano le donne: non solo mogli, madri, figlie, “angeli del focolare domestico”, ma grandi lavoratrici, coraggiose, forti non solo e non tanto fisicamente, ma anche e soprattutto mentalmente che sanno farsi carico dei problemi e proporre soluzioni.
- O. Fallaci, Lettera a un bambino mai nato
- Ivi
Si dovrebbe ripensare la differenza di genere attraverso una mediazione, un confronto che esalti le qualità di ognuno, piuttosto che una guerra tra sessi che le reprime e le inquadra in schemi precostituiti. O, almeno, bisognerebbe provare a farlo.
Ripartire dall’evidenza di non essere ciò che la società, le tradizioni, i costumi, vogliono che noi siamo, ma valorizzare noi stessi attraverso la cura, la conoscenza e la consapevolezza di quel sé che troppo spesso è trascurato per non eludere e deludere le imposizioni e le aspettative del mondo circostante.
Forse che questo non sia piuttosto che un’elusione o una delusione, un’illusione?
Essere diversi da sé: questa è la più grande falsità. Sminuirsi, sottovalutarsi, compiere azioni che non vogliamo e dire cose che non pensiamo: tutto questo per compiacere e assecondare gli altri, omologarsi per essere accettati, per non essere considerati “diversi”.
Ma è proprio la diversità che va salvaguardata, l’unicità di ognuno, uomini o donne che siano.
Tuttavia, prima di sentirsi parte di un tutto, ci si dovrebbe sentire completamente e pienamente sé: sia chiaro, questo non significa cedere a qualunque volontà, a qualunque eccesso, ma fare un grande lavoro interiore, un percorso che ci porti a crescere e migliorarci, a conoscere le nostre debolezze e i nostri punti di forza, lavorando sulle prime e valorizzando i secondi.
“Amo a te” è la formula che Irigaray utilizza per svincolare donna e uomo da un rapporto di immediatezza, sottomissione e sfruttamento dell’uno sull’altra. Significa sancire l’autonomia delle donne, la presa di coscienza di un sé indipendente, che si libera e libera di conseguenza anche il genere maschile. La questione che si dovrebbe comprendere è che non sono le donne a voler diventare come gli uomini, ma sono gli uomini a sentirsi minacciati nel loro ruolo di signori e padroni di tutto ciò che li circonda e come soluzione optano troppo spesso per l’uso della violenza fisica e psichica su donne che sono troppo impaurite o troppo innamorate per potersi difendere e ribellare.
Non si dovrebbe più parlare di “secondo sesso” per indicare il genere femminile, sottoposto e inferiore rispetto al “primo sesso”, ma piuttosto di due generi con pari dignità e pari opportunità. Essere donne non dovrebbe voler dire essere discriminate sul posto di lavoro, dovendo rinunciare ad alcuni sacrosanti diritti come la possibilità di diventare madri senza aver paura di essere licenziate o, peggio ancora, non essere proprio assunte per un lavoro per il quale si sono fatti anni di studi, sacrifici e rinunce. Non si dovrebbe guadagnare meno degli uomini per incarichi di uguale importanza per il solo fatto di essere donne. Non dovrebbe voler dire essere vittime di pregiudizi sul come si sia fatta carriera. Non si dovrebbe essere giudicate per l’aspetto fisico o per il modo di vestirsi.
Così come non si dovrebbero giudicare uomini e donne per orientamento sessuale o per scelte strettamente personali come la possibilità (o, meglio, la volontà) di costruire una famiglia o diventare genitori, di chi amare e come, per il semplice fatto che queste sono scelte che si fanno “secondo natura”, se per “natura” si intende la morale religiosa che impone regole e non concepisce differenze, anche se poi, per quel che le concerne, si comporta secondo eccezione e non secondo la regola che essa stessa ha dato. Sono piuttosto scelte che si fanno secondo coscienza. La propria, si intende. Non quella che viene data dall’alto e dall’esterno, ma quella che viene dal basso e dal profondo dell’anima.
Si deve allora ripartire da sé e dal rapporto di complicità autonoma o complice autonomia tra i sessi che favorisca il confronto e non lo scontro, il sopruso o la prevaricazione dell’uno sull’altro.
Ripartire da quell’ “universalismo della differenza”24 capace di salvaguardare l’unicità di ognuno e garantire il benessere di tutti: rispettare le differenze culturali, sociali, politiche e favorire l’integrazione del singolo e di tutte le sue peculiarità e prerogative all’interno del sistema di vita associata. E ricordarsi che attaccare, sminuire assoggettare e umiliare l’altro non aumenta il nostro valore, le nostre facoltà e capacità.
Ricordiamoci che essere uomini o donne “significa essere una persona. […] È una parola stupenda, la parola persona, perché non pone limiti a un uomo o a una donna, non traccia
24 Cit. G.Marramao, Dopo il Leviatano
frontiere tra chi ha la coda e chi non ce l’ha. […] Il cuore e il cervello non hanno sesso.
Nemmeno il comportamento. Se sarai una persona di cuore e di cervello, ricordalo, io non starò certo tra quelli che ti ingiungeranno di comportarti in un modo o nell’altro in quanto maschio o femmina. Ti chiederò solo di sfruttare bene il miracolo d’essere nato, di non cedere mai alla viltà. È una bestia che sta sempre in agguato, la viltà. Ci morde tutti, ogni giorno, e son pochi coloro che non si lasciano sbranare da lei. In nome della prudenza, in nome della convenienza, a volte della saggezza. Vili fino a quando un rischio li minaccia, gli umani diventan spavaldi dopo che il rischio è passato. Non dovrai evitare il rischio, mai: anche se la paura ti frena. Venire al mondo è già un rischio.”25
Raccogliamo dunque la sfida, corriamo il rischio, non accontentiamoci di sopravvivere e lasciarci vivere. Pensiamo, agiamo, viviamo nella consapevolezza che “non c’è nulla di nobile nell’essere superiore a un altro uomo. La vera nobiltà sta nell’essere superiore alla persona che eravamo fino a ieri.”26
25 O. Fallaci, Lettera a un bambino mai nato
26 S. Johnson