Monica Volpini con Gabriele Blasi e Alessandro Langella – Dal corpo sacro al corpo riconsacrato

<< Il corpo dell’attore e la sua immagine tendono a confondersi nello spettacolo digitale. L’attore tecnologico, come Narciso nel mito, s’innamora della propria immagine riflessa e si dissolve in essa. Ed è un profluvio di offerte di spettacoli che mostrano corpi in parte deformati dalle tecnologie. Così in rete gli attori fluttuano in ambienti improbabili, i corpi attraverso il morphing sembrano liquidi, i volti si trasformano uno nell’altro, come se il corpo dell’attore potesse disintegrarsi nel cyberspazio senza nessuna sofferenza. Attraverso l’immagine digitale si perde la dimensione di fisicità del corpo, il suo sudore, i suoi umori, il suo sangue, raggiungendo forse il desiderio antico e mistico di accedere virtualmente a una dimensione dove non si deve più sottostare ai limiti della carne, ma si può essere puro spirito>> [Borelli in Borelli-Savarese 2004: pp. 166]

 

Introduzione

 Il corpo è al centro della scena. Non ci riferiamo soltanto alla scena teatrale ma alla più generale scena del mondo (semiotico) che abitiamo: siamo circondati dall’onnipresenza del corpo che costituisce la base materiale e sociale della nostra esistenza. Il corpo è diventato il grande attore che si muove sul palco del mondo, che occupa il centro assoluto di tutte le scene possibili: mediatiche, accademiche, istituzionali e, più in generale, la scena della stessa vita sociale. E’ sempre stato visto come supporto necessario di tutte le attività individuali: è la base per l’avvio del processo di socializzazione e di acquisizione delle identità di genere; è costantemente presente nelle relazioni sociali, nel lavoro, nella salute, ma anche nelle pratiche più personali o intime come l’igiene. Anche la presenza simultanea di pratiche e discorsi scientifici sul corpo (prodotti della medicina, della genetica) di dibattiti sociali (questioni di bioetica, cura del corpo, movimento omosessuale, transessuale e queer), fanno si che esso appaia sempre più pervasivo ma, al contempo, un concetto che resta sfuggente, quindi difficilmente indagabile.

Nella società tradizionale, l’idea del corpo coincide con quella del gruppo, del collettivo, dove non esiste un corpo separato dalla persona e c’è una continuità che situa il collettivo nel cosmo; non ci sono confini che separano il corpo dall’ambiente. L’uomo non si preoccupa di controllarsi allo specchio, perché non ha un corpo a sé stante, ma “è” un corpo, in altre parole un tutt’uno con il cosmo, con se stesso e con gli altri. L’essere corpo identifica una corporeità naturale, non costruita, accettata all’interno delle diverse fasi del corso naturale della vita: vivere il proprio corpo come comportamento innato (Serra, in Cattarinussi, 2010 pp.181). In queste società comunitarie l’individuo non è distinguibile, il corpo non è l’oggetto di una scissione e le rappresentazioni del corpo sono, di fatto, rappresentazioni dell’individuo, della persona. L’immagine del corpo è un’immagine di sé, nutrita dalle materie prime che formano la natura, il cosmo, in una sorta d’indistinzione. Da questa concezione di base si può estrapolare la convinzione secondo la quale, giacché il corpo è legato all’universo vegetale, non esistono confini tra vivi e morti; la morte non è concepita nella forma dell’annullamento, ma segna l’accesso a un’altra forma di esistenza. D’altra parte, da vivo, ogni soggetto esiste soltanto nelle sue relazioni con gli altri: la sua pelle e lo spessore della sua carne non definiscono i confini della sua individualità. Il suo contributo personale non è indice d’individualità, ma una differenza alle complementarietà necessarie alla vita collettiva, un tono singolare nell’armonia plurale del gruppo (Le Breton 2007). La morte non è vissuta come evento drammatico, tant’è che con la Danza della Morte, ad esempio, è celebrato un momento in cui aristocratici, borghesi e plebei sono uguali di fronte a tale avvenimento. Le manipolazioni del corpo in queste società rappresentano solo i segni del potere sociale e culturale, di distinzioni gerarchiche, l’espressione di rituali magici e religiosi.

 

Cenni storici

Fu solo con il Rinascimento, con la società moderna, che comparve la distinzione tra pensiero e corpo, determinando il passaggio all’individualismo, dunque l’emergere di un soggetto pensante che ha un corpo. In questo periodo storico l’avvento dell’individualismo si può intuire perché vi è un allentamento dei valori e dei legami che colpiscono certi ceti sociali privilegiati sul piano economico e politico; l’individuo tende a divenire il portavoce autonomo delle sue scelte e dei suoi valori e non è più retto dalla preoccupazione della comunità e dal rispetto delle tradizioni (ibidem, quarantuno). Parallelamente a tale promozione storica dell’individuo, si è assistito anche all’evoluzione del concetto del corpo, proprio perché la cultura e le credenze stavano mutando in seno alle nuove scoperte, soprattutto a quella del volto che è la parte singolarizzata del corpo, una specie di codice della persona con il quale essa si presenta agli altri in modo distintivo. L’uomo si ritrova separato in due parti: il corpo e lo spirito (il pensiero). Il corpo comincia a essere visto come un accessorio della persona, la cui unità è ormai rotta. Il pensiero e la mente sono all’interno di un contenitore fatto di pelle, di carne che, una volta studiato, diventa, agli occhi delle infinite capacità mentali, un involucro alquanto fragile e stretto ma di cui non si può fare a meno. Da questo momento l’uomo, l’individuo “ha” un corpo a sé stante e in questo essere sé stesso, prima di essere un membro di una comunità, il suo corpo diventa confine preciso che segna la differenza tra un uomo e l’altro: fattore d’individuazione. Il cosmo si è come disincantato ed esiste di là dell’uomo, il quale si vede dotato di una nuova, veste, un corpo che è associato, dunque, all’avere e non più all’essere. La definizione moderna del corpo implica quindi che l’uomo sia separato dal cosmo, separato dagli altri e separato da se stesso e tale frattura è tipica di un regime di socialità, dove l’individuo prevale sul gruppo.

In questa situazione, che vede l’evolversi di una società e di una cultura emergente via via più eterogenea, inizia quella ricerca anatomica, supportata da un abbondante aumento di ricerche in campo medico e scientifico tipico di tale periodo, che ben fa intendere come il concetto di sé e del proprio corpo sia mutato: le prime dissezioni lo testimoniano. Durante tutto il periodo del Medioevo, tali pratiche sono vietate ed è comprensibile la motivazione: l’inserimento di uno strumento nel corpo equivale a una violazione dell’essere umano, frutto della creazione divina, è come attentare alla pelle e alla carne del mondo. Il cadavere non può essere smembrato, sezionato, perché corrisponde a distruggere l’integrità umana, è rischiare il futuro dell’uomo e di tutto ciò che esso incarna. Con gli anatomisti, invece, il corpo è dissociato dall’uomo, è studiato per se stesso, come realtà autonoma; il corpo non parla più per l’uomo di cui porta il volto: l’uno e l’altro sono distinti e gli studiosi partono a una sorta di conquista del segreto della carne, indifferenti alle tradizioni, relativamente liberi nei confronti della religione.

Nell’antica Grecia, la separazione dei ruoli sessuali era molto più marcata che nella nostra società. Si riteneva che gli uomini fossero fisicamente più adatti a confrontarsi con i problemi esterni alla casa, la polis, e le donne con quelli interni all’oikos. Il ruolo femminile nel gestire la casa era riconosciuto come importante e una donna poteva trarre grande soddisfazione e rispetto dallo svolgere bene i suoi compiti; tuttavia era considerata assolutamente inferiore e sottomessa al marito, perché incapace, sia mentalmente sia fisicamente, di svolgere i compiti tipicamente maschili. Anche le teorie scientifiche cercarono di giustificare questa netta separazione dei sessi, e la subordinazione della donna all’uomo. Le teorie greche sull’anatomia e sulla fisiologia del corpo femminile, infatti, furono condizionate dagli assunti culturali relativi alla natura femminile: spesso il ciclo mestruale, l’utero, il seno e la debolezza del corpo della donna furono usati per definire la natura fisica femminile come differente e inferiore rispetto a quella maschile. Aristotele, ad esempio, a proposito del dibattito sul ruolo femminile nella procreazione, afferma che la donna è sì indispensabile alla riproduzione, ma che lei conferisca al nascituro la “materia”, con cui s’identifica, mentre l’uomo, che è “forma e spirito”, nella riproduzione è l’elemento attivo che “trasforma”, attraverso lo sperma, la materia femminile. La passività della donna nella riproduzione consente ad Aristotele di giustificare anche la sua subalternità sociale e giuridica. Inoltre la donna-materia, come gli schiavi e i ragazzi, non riesce a gestire la sua parte razionale, è un essere irrazionale e per questo pericoloso, che ha bisogno di essere guidato e comandato.

Nel corpus ippocratico di ginecologia il corpo femminile e le relative malattie sono analizzati ed esposti rispetto all’arco non solo biologico ma anche sociale dell’esser donna: dalla verginità, al matrimonio, e alla vedovanza. La sessualità femminile è presente esclusivamente come attività e finalità riproduttiva. In “Malattie delle donne”, l’opera più importante del corpus, viene isolata una sola funzione del corpo femminile, quella riproduttiva, e viene analizzata una sola figura di donna: la donna-madre. Due sono pertanto, le specie di donne: le piene e le vuote, le feconde e le sterili, le madri e le vergini, le spose e le vedove. Questa visione del corpo femminile è espressa nella tradizione letteraria greca attraverso una serie di metafore che lo associano, di volta in volta, alla terra, al solco, al forno.

Il corpo della donna è assimilato alla terra mediante un legame metaforico tra il campo e gli organi sessuali femminili; tuttavia questa metafora non è statica, ma varia attraverso i secoli secondo le esigenze culturali e storiche della polis e degli uomini, i “teorici” di questa elaborazione. Se, infatti, in origine la donna è concepita come terra che viene “seminata” dall’uomo, ma mantiene una sua autonomia perché è capace di produrre e di conservare dentro di sé le ricchezze, i fiori, i corpi umani, in seguito, dal V secolo a.C., essa diviene campo segnato, tagliato, arato da chi lo coltiva. La donna-terra è proprietà del marito, ma è anche lo spazio in cui lui fatica, rompendo, aprendo, coltivando, il luogo dove si producono i suoi eredi. La metafora del campo, quindi, diventa progressivamente la metafora del solco: la terra non è più un essere autonomo, ma è vista come passiva, in attesa di essere coltivata dall’uomo.

 

Approfondimenti: corpo e media

 Il corpo permette all’uomo di mettersi in relazione con la realtà, di operare in essa attraverso le azioni che intende manifestare.   E’ il  mezzo  attorno al quale si svolge la vita di una persona:   tutte le funzioni che permettono di pensare, decidere ed agire si realizzano attraverso di esso.  Attraverso il corpo, infatti, ogni persona  affronta le situazioni quotidiane.

Il corpo comunica intenzioni, sentimenti, stati d’animo, riceve ed elabora informazioni, agisce: permette alla persona di risolvere le innumerevoli situazioni che deve affrontare quotidianamente. Il movimento, inteso come la capacità della persona di compiere delle azioni, rappresenta il modo con cui la persona manifesta intenzioni, desideri, capacità, abilità: in sostanza il modo con cui partecipa alla realtà.  Ogni persona matura una propria attitudine al movimento, vale a dire la capacità di agire quotidianamente nella realtà in funzione delle proprie necessità e dei propri desideri.

Dalla seconda metà dell’Ottocento la cultura europea ha concepito il corpo umano come un oggetto da studiare quale principio d’identità sociale. Il corpo è sezionato, misurato minutamente, individuato attraverso tecniche “antropometriche” che mirano a definire l’identità fisica come corrispettiva di un’identità morale e sociale. Il corpo tende a diventare il principale indicatore dell’identità soggettiva, prima ancora di qualunque altra variabile (ceto, appartenenza politica ecc.) Le forme dei corpi, le caratteristiche somatiche, i gesti, la postura, la nudità di alcune parti o di tutto il corpo, sono tutti elementi densi di significato che, negli ambienti pubblici e privati in cui ci muoviamo, raccontano chi siamo (genere, razza, età).

Inoltre i corpi esprimono i valori prevalenti in una determinata epoca, giacché non si presentano mai “al naturale”, ma sono costruiti e ri-costruiti secondo l’ideologia dominante, per esempio secondo i canoni estetici diffusi dai media. Le pratiche culturali e sociali s’inscrivono necessariamente nei corpi, che sono da considerarsi sia oggetti sia soggetti di tali pratiche, nel senso che le riproducono nel momento stesso in cui se ne fanno interpreti (Foucault 1976; Connell 2002). In ogni periodo storico s’introducono pratiche e abitudini legate al corpo che sono sanzionate positivamente, alle quali cerchiamo di conformarci, per timore di sentirci socialmente esclusi. Nella società dell’immagine, in cui l’esposizione visiva dei corpi a livello pubblico è facilitata e promossa dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, l’accurata costruzione e presentazione dell’aspetto esteriore diventa la credenziale principale usata dall’attore sociale per rapportarsi agli altri. La spettacolarizzazione del corpo effettuata dai media avviene secondo modi che ne rispecchiano le caratteristiche peculiari: quella di trasmettere la ”rappresentazione sociale” della realtà e, specie i new media, quella di mettere gli individui in comunicazione tra loro. Da un lato, i media tendono a dare grande rilievo all’aspetto fisico ed esteriore dei soggetti che popolano i diversi generi di contenuto (pubblicità, fiction) sanzionando positivamente o negativamente determinati tipi di corpo e look. Dall’altro lato, offrono a chiunque lo desideri l’occasione di divulgare la propria immagine, anche in una versione idealizzata. In seguito alle rivendicazioni femministe degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, la rappresentazione di genere diffusa dai media è cambiata ed è tuttora in continuo mutamento. Basti pensare alle varie pubblicità o fiction che ci sono offerte ogni giorno, in cui sono state via via introdotte nuove figure femminili e maschili al passo con i tempi, che hanno variato e innovato una costruzione sociale della femminilità e della maschilità di stampo tradizionalista.

I segni dell’uguaglianza e della differenza, così come quelli della discriminazione e della stigmatizzazione legati a genere e sessualità, passano per il complesso intreccio di simboli e significati che si sviluppa tanto nei linguaggi prodotti e riprodotti nelle interazioni faccia a faccia, quanto nella comunicazione che si sviluppa attraverso i media digitali e i mass media. Anzi, nelle società contemporanee i confini tra queste due dimensioni – così come tra i linguaggi e i generi mediatici – tendono sempre più a sfumare, facendo emergere rapporti complessi tra vita ‘on-line’ e vita ‘off-line’, tra quotidianità (ordine dell’interazione) e media unidirezionali, che ci conducono molto più lontano da quell’avvento dell’iper-realtà e della “tirannia del simulacro”, di cui parlava Jean Baudrillard nel 1981. Uno dei primi studi che si occupava di questo intreccio ponendo al centro i rapporti di genere, fu il lavoro di Erving Goffman del 1979 intitolato Gender Advertisements che si concentrava, appunto, sui linguaggi pubblicitari. L’analisi di Goffman portava alla luce il fatto che l’ordine dell’interazione (cioè il modo in cui si organizza la vita quotidiana) e le rappresentazioni mediatiche erano molto convergenti: la donna era rappresentata dalla pubblicità come “elemento succube”, sempre alla mercé delle decisioni di un uomo. Infatti, la figura femminile era ricodificata sia dal pubblicitario (spesso uomo ed eterossessuale), che dà forma allo spot, sia dall’attore, che la affianca nella rappresentazione. Questo ruolo subordinato, ancillare, seduttivo e ornamentale alimentava così un immaginario che era del tutto congruente con il modello di famiglia americana centrata sull’uomo come maggiore percettore di reddito. Forti della capacità di assorbire e trasformare in business la critica (come evidenziò Robert Goldman nel 1992), tanto i linguaggi pubblicitari quanto quelli più generalmente espressione dei mass media commerciali, tesero a sviluppare negli anni successivi una sorta di “femminismo mercificato”. Si trattava di un nuovo insieme di simboli, linguaggi e rappresentazioni volti, a mostrare che solo attraverso il mercato e il consumo, le nuove donne emancipate avrebbero potuto trovare i mezzi necessari per ricostruire la propria identità e la propria nuova facciata.

E a proposito d’identità e di facciata c’è un autore, quasi un martire…che ha messo al centro della scena “della vita”, l’uomo e il suo corpo. Lo introduciamo così:

Il mio corpo si è rifatto, nonostante tutto, contro e attraverso mille assalti del male e dell’odio che ogni volta lo deterioravano lasciandomi morto, ed è così che a forza di morire ho conquistato una reale immortalità. E sono cose vere, realmente accadute, e non come si vedono nell’aura leggendaria dei miti che mascherano la realtà, quindi questa storia vera, cioè la mia, è insopportabile, è quella di un uomo che ha voluto essere puro e buono.

(Antonin Artaud)

L’opera di Antonin Artaud è totalmente segnata dall’originale e drammatico tentativo di riportare al centro della ricerca (filosofica) e della pratica (artistica, etica, politica) un ospite scomodo: l’uomo e il suo corpo. Artaud elabora il linguaggio della carne che è preverbale e ha lo scopo di risvegliare nella propria lingua, una presenza inquietante, quella del corpo. E’ un corpo puro e intatto rigenerato e rifatto col respiro di ogni giorno; un corpo-albero e non solo un corpo-macchina, un corpo d’ossa, senza carne, sola materia elettrica, pura intensità, volontà senza rappresentazione.

Artaud s’identifica con una moltitudine eccentrica senza patria, di fuori legge, di umiliati, mutilati, sofferenti. Mutilato e occultato del volto, l’uomo di questa massa analfabeta, nonostante tutto rimane integro e nulla gli manca. “Non ha occhi e vede e piange; non ha naso e fiuta e respira, non ha orecchi e ascolta, non ha bocca e parla e sorride, non ha fronte e pensa e si sprofonda in se stesso”. Quella di cui parla Artaud è una comunità sovversiva di suicidati dalla società che con lui e come lui, possono guidare la rivolta contro l’ordine servile del mondo e per far ciò, si dovrà prima di tutto prendere coscienza del proprio corpo, perché non tutti quelli che lo possiedono sono in grado di essere quel corpo.

Sono 4000 anni che l’uomo ha un’anatomia che ha smesso di corrispondere alla sua natura. L’anatomia in cui siamo insaccati è creata da asini con una sella rozza, medici e scienziati che non hanno mai potuto capire un corpo semplice (…) si sono impadroniti di quello umano e l’hanno rifatto secondo i principi di una chiara e sana logica (per ogni punto e in ogni organo), analitica a loro modo.

Il teatro in questa prospettiva diventa uno strumento anatomico di dissezione e di ricomposizione, ed è un tutt’uno con il patibolo, la forca, le trincee, il forno crematorio, l’istinto per alienati, la crudeltà dei corpi massacrati. Lottare come un corpo e non come un organismo, che vuole cicatrizzare le ferite provocate da un’umanità digestiva, che divora, fatta d’individui che compiono strani traffici sul corpo. Artaud sente che la sua storia sia fatta di tentativi altrui di spossessamento corporeo. Egli si domanda sin da bambino chi e cosa fosse e perché vivere, cosa fosse vedersi respirare: ciò che resta della sua lotta contro “il vero nulla sfuggente, il nulla senz’organi”, è un grido lancinante e i segni di una comunicazione al limite del silenzio. La sua è definita una scrittura biliare e spasimante, talvolta convulsiva, tal altra di una sonorità delirante: “Non sono un grande politico, ma devo riuscire a suonare una certa musica in un certo modo, con la mia voce, le mie mani, i miei piedi, sulla terra e non tra le nuvole e si deve sentire da lontano”. Ecco che lo stile diventa corpo: il testo-corpo di Artaud è costretto a mangiarsi, digerirsi, divorarsi ed espellersi, per gettare via i suoi demoni e tale processo avviene al passo di una danza alla rovescia di tipo dionisiaco che decostruisce il movimento e lo stesso pensiero. E’ la coscienza della propria fisicità, al contrario del quadri-millenario modello che ha fortemente voluto la scissione tra anatomia e natura; è volontà tesa al gesto più semplice, come potente negazione di qualsiasi indagine psicologica nella convinzione che la verità del corpo sia qualcosa di più originario e autentico delle sovrastrutture intellettualistico-affettive. E’ una danza eccentrica come quella delle marionette di Kleist d’incredibile sincronicità e coordinazione, in cui non sono le marionette e i loro movimenti a seguire faticosamente l’arte umana, ma il contrario. Il susseguirsi di movimenti ondulatori e rettilinei dei fantocci di legno e dei fili tirati con forze differenti come indice delle intrinseche possibilità della materia priva d’intenzionalità, oltrepassa esteticamente quel gravoso lavorio d’adattamento di muscoli, tendini e mente, il padroneggiare cosciente del proprio corpo dei danzatori. Quel che affascina non è la maestria del marionettista, bensì l’effetto illusorio del movimento articolare dei burattini che pare essere “nato dal nulla”; ogni movimento, ha un centro di gravità, basta governarlo all’interno della figura. E’ una danza lieve e crudele come quella dei manichini di Schulz che ne esalta la materialità, proclamando l’aspirazione umana alla creazione, con l’utilizzo di materiali inferiori, di scarto, e che non ne nasconda la volgarità dietro la ricchezza e la fantasmagoria mutevole del gioco della vita. Dice Schulz:

Questo è il nostro amore per la materia come tale, per la sua porosità, per la sua unica mistica consistenza. Il Demiurgo grande maestro, artista, la rende invisibile, facendola sparire dietro il gioco della vita; noi invece amiamo la sua dissonanza, la sua resistenza, la sua maldestra rozzezza. Ci piace vedere dietro ogni gesto, ogni movimento il suo sforzo greve, la sua inerzia, la sua mite goffaggine da orso.

Se i manichini/marionette portati in scena consentono l’epifania del rimosso con tanta evidenza e con tanta forza è anche perché l’immagine suggerisce con efficace persuasività l’analogia fra le marionette che, inanimate trovano energia e vita, capacità di comunicazione sotto l’azione delle dita del marionettista e i ricordi, dimenticati e rimossi, però capaci, a un piccolo tocco, di rianimarsi e ritrovare il loro ritmo e movimento. La parodia delle marionette è giocata accentuando l’innaturalità dei corpi artificiali che si sforzano di imitare quelli umani e non ci riescono mai anche laddove la loro perfezione tecnica li rende capaci di produrre con molta somiglianza tutti i movimenti dei corpi umani.

La condizione psichica che lo spettacolo di marionette suscita negli spettatori è ben interpretata dal concetto freudiano di perturbante, che è qualcosa di spaventoso, collegato a qualcosa che è stato familiare, ha subito una rimozione e ritorna come rimosso, portandosi dietro una sensazione d’angoscia. Questa sensazione è nuova ma finisce per diventare tutt’uno con l’immagine di ritorno, per se neutra o perfino attraente, che il passato ci consegna. L’elemento perturbante non è niente di estraneo o insolito, ma è qualcosa di familiare alla vita psichica fin dai tempi più antichi, qualcosa che si è estraniato soltanto a causa del processo di rimozione. Freud elenca molti oggetti e molte condizioni che assumono il carattere perturbante: per esempio il motivo del sosia, cioè la comparsa di personaggi che presentandosi con lo stesso aspetto devono essere considerati identici, anche se sono distinti; o ancora la ripetizione involontaria, che rende inquietante ciò che di per sé sarebbe innocuo, insinuando l’idea della fatalità e dell’ineluttabilità là dove avremmo semplicemente parlato di caso. Tra i numerosi esempi addotti da Freud, è interessante rilevare il rapporto con gli spiriti e gli spettri e come alcuni artisti quali Schulz mettano le marionette in rapporto con il regno del demoniaco. Un altro esempio freudiano è quello degli automi che fanno nascere il dubbio, terribilmente inquietante che un essere in apparenza animato sia vivo davvero, e viceversa che un oggetto privo di vita possa animarsi. L’automa è certo diverso dalla marionetta, ma è anche simile a essa, e sebbene le due immagini non vadano confuse, entrambe producono un’impressione inquietante. Nel corso del Novecento dopo il saggio di Freud, l’automa ha goduto nella letteratura, nel teatro e nel cinema, di ampia fortuna che dipende dalle sue caratteristiche d’interpretare alcune ossessioni tipiche dell’uomo moderno. Queste sono l’alienazione, lo spossessamento, la schizofrenia: i territori che, in termini freudiani, appartengono propriamente alla psicosi, cioè alla piena patologia psichica. Il disagio inquietante, il più innocuo perturbante che, all’inizio del Novecento Freud connetteva all’automa, ha dunque virato, nel corso del secolo verso la piena angoscia psicotica ed è divenuto paura.

La danza, infine, è sostanzialmente una pratica di distruzione e sottrazione che precede l’atto mitico di rifarsi un corpo, attraverso l’esercizio del soffio e del respiro; la danza è un movimento incontrollato, illecito e trasgressivo, capace però di sovvertire la gravità corporea.

Artaud dichiara di essere un insorto del corpo e la sua insurrezione si manifesta nell’unità dei contrari, nel caos generativo, nella volontà di giustizia e nella possibilità concreta di potenza: è il corpo ritrovato e rinnovato, il nuovo teatro degli elementi in cui l’uomo è messo a nudo, gli è tolta la piaga del giudizio divino e con esso i suoi organi. Solo quando si sarà fatto un corpo senz’organi, senza discipline, libero da tutti gli automatismi, sarà possibile tornare a parlare di libertà. Artaud dice che c’è una rivoluzione sempre in atto, a condizione che l’uomo sia rivoluzionario anche sul piano fisico, fisiologico, anatomico, funzionale, circolatorio, respiratorio, dinamico ed elettrico.

Rifarsi un corpo per farla finita è un’esperienza visionaria, un progetto bio-politico che, mentre fa danzare l’anatomia, ne deforma l’aspetto materiale, per restituire all’uomo il diritto alla propria posizione nel mondo.

Artaud immagina un mondo in cui ogni uomo possa essere partecipe, con la propria fisicità e intelletto, insomma con la sua potenza vitale: per raggiungere tale scopo sarà necessario che le forze inespresse che lo bloccano, siano accolte dalla ragione. Ci sono grida intellettuali che provengono dai midolli, e questo è ciò che Artaud definisce Carne, cioè, non separare il pensiero dalla vita: ogni volta che la lingua vibra (per effetto della parola) egli ripercorre il suo pensiero nella propria carne. Carne significa apprensione, pelo rizzato, con tutte le conseguenze nei sensi, per il sentimento, che è poi presentimento cioè conoscenza diretta, comunicazione ristabilita, che s’illumina dall’interno: è una vibrazione che partecipa della sostanza elevata dello spirito. Carne significa anche sensibilità appropriazione intima, segreta, profonda e assoluta del dolore dunque la sua consapevolezza solitaria e unica. Tutta la ricerca teatrale di Artaud tende alla rinascita dell’uomo-albero e la parola teatro è il nome che egli attribuisce a quest’operazione verso la salute: il suo “teatro della crudeltà” riguarda la creazione dal vuoto, dal nulla; è la voce di un vuoto che crea il suo doppio e una forza che salendo e scendendo su se stessa genera un soffio interiore e origina l’universo che nasce come progressione del pensiero.

Il tempo in cui l’uomo era un albero senza organi né funzioni, ma di volontà che avanza, tornerà. E’ stato, tornerà. Perché la grande menzogna è stata quella di ridurre l’uomo a un organismo ingestione, assimilazione, incubazione, espulsione, creando un ordine di funzioni latenti che sfuggono al controllo della volontà deliberatrice, che decide di sé a ogni istante: perché era questo l’albero umano che avanza, una volontà che decide di sé a ogni istante, senza funzioni occulte, sottostanti, regolate dell’inconscio. Infatti, di ciò che siamo e vogliamo poco rimane, una misera polvere sopravvive […].

 Il teatro per Artaud, non è mai esistito per descrivere l’uomo e quello che fa, ma un essere vivente che possa permettere di avanzare sulla strada della vita senza marcire: e il teatro è questa figurina sgraziata che erige tronchi con il filo spinato e ci mantiene in uno stato di guerra contro chi esercita costrizione. I mostri teatrali sono rivendicazioni di scheletri e d’organi che la malattia non attacca più. Poi Artaud parla del volto umano come di una forza vuota, un campo di morte: è la vecchia rivendicazione rivoluzionaria di una forma che non è mai corrisposta al suo corpo, che era partito per essere altra cosa dal corpo. E dice che è assurdo rimproverare di essere accademico a un pittore che si ostini ancora a riprodurre i tratti del volto umano così come sono: poiché così come sono non hanno ancora trovato la forma e sta a loro dargliela. Dopo millenni il volto umano non ha iniziato ancora a dire ciò che è e ciò che sa: è sempre raffigurato come un muro spesso, mentre Artaud cerca di evidenziarne sempre gli aspetti reali della sofferenza, accentuandone i tratti sinceri e spontanei. Poi Artaud dice di non sopportare l’anatomia del corpo umano e soprattutto le sue scissioni: troppe guerre, secondo lui, hanno fatto saltare via le braccia e le gambe dai corpi che le tenevano. L’uomo si batte all’esterno perché all’interno è la sua anatomia che gli fa guerra e non ci si domanda più perché, nel mezzo della peste, della carestia, della guerra, della sifilide, dell’epilessia, del mercato nero, dell’elettroshock, l’uomo non ha mai smesso di sragionare. E i folli sono tutti al potere, sempre gli stessi, tanto che l’anatomia è monca da secoli per effetto della loro improvvisazione. L’anatomia umana è falsa sostiene Artaud, e responsabile è chi ha sviato la scienza imponendola all’uomo oppresso. L’essere ha stati molteplici sempre più pericolosi e sconosciuti e la domanda che si deve porre è cosa ne è stato del suo corpo: la parola “chiave” per Artaud è motilità, cioè poter rendere se stessi un corpo in funzione di una volontà, rapacità, brutalità, forza, costanza, dignità, arbitrio, intensità, privazione, desiderio, distacco.

Prosegue Artaud:

Il corpo è tale, è solo e non ha bisogno di organi, non è un organismo, gli organismi sono nemici del corpo, le cose si fanno e si producono semplicemente, senza il concorso di nessun organo che è un parassita, destinato a far vivere un essere che non dovrebbe trovarsi là. Gli organi non sono fatti che per dare da mangiare agli esseri, quando questi sono stati condannati nel loro principio e che non hanno alcuna ragione di esistere. La realtà non è ancora costruita perché i veri organi del corpo umano non sono ancora stati combinati e sistemati. Il teatro della crudeltà è stato creato per portare a termine quest’opera e per iniziare una nuova danza del corpo dell’uomo, un ribaltamento di questo mondo di microbi che non è se un niente coagulato. Il teatro della crudeltà vuol far danzare le palpebre a coppia a coppia con gomiti, femori, rotule, alluci e che si veda.

Il sistema della crudeltà spiega i rapporti del corpo e le forze che lo investono, mentre la dottrina della colpa determina i rapporti dell’anima con il giudizio divino. E’ il sistema della crudeltà che ovunque si oppone alla dottrina del giudizio. Al corpo morcelé e suppliziato dal giudizio, Artaud oppone quello del sistema fisico, vitale e vivente, che non vuole essere ridotto a semplice organismo, a corpo organizzato e reso veicolo del giudicare divino. Se il giudizio si esercita attraverso gli organi, bisogna liberarsene, anche a costo della distruzione. La vitalità irriducibile è finalmente restituita al corpo nella sua presentazione senz’organi: un corpo affettivo, intensivo, anarchico, anonimo e senza soggetto con cui Artaud rimpiazza quello sottrattoci dal giudizio. Il corpo senz’organi è un campo mutante, attraversato da una forte vitalità, da affetti organici, diversamente potenti. La vitalità non organica è il rapporto tra il corpo delle forze o potenze impercettibili che se ne impadroniscono, o di cui esso s’impadronisce. Artaud parla di un suo personaggio Eliogabalo che si lascia pervadere da ritmi, canti, odori e idee molteplici che nell’insieme si trasformano in una grande energia. Farsi un corpo senz’organi, trovarlo, è il modo per sfuggire al giudizio; era già un progetto di Nietzsche definire il corpo attraversato da intensità, in divenire, poi Artaud lo perfeziona non come astrazione o concetto, ma come insieme di pratiche legate all’intensità. La metafora più eloquente per definire questa “materia-matrice” d’intensità è l’uovo, che precede l’estensione dell’organismo e l’organizzazione degli organi. L’uovo pieno non conosce forme ma solo forze, intensità. Niente può interrompere il movimento perpetuo di questa energia, niente può ostacolare l’emissione permanente di “correnti del desiderio” come scaturiscono dal CSO. Dato che la produzione della tirannia degli organi avviene sempre con l’appoggio di un’estetica narcisistica che vuole cancellare “la nuda vita”, Artaud lega la produzione del CSO a un processo di necessaria differenziazione: per esistere è sufficiente lasciarsi andare a essere, ma per vivere, bisogna essere qualcuno, avere anche un OSSO, non aver paura di mostrarlo, e rischiare di perdere la carne. L’uomo deve liberarsi dell’organismo, e non è questione di strategia ma di sopravvivenza, si tratta di un’esperienza in cui si rischiano la pelle e la carne. Gilles Deleuze rileva come dal personaggio artaudiano, emerga un altro tassello che compone il sistema della crudeltà: la lotta occupa il posto del giudizio, è un combattimento tra le proprie parti, tra le potenze che esprimono quei rapporti di forza. Artaud, come Nietzsche, sostiene il principio che tutto ciò che è buono non può che provenire dalla lotta, dal conflitto. Bisogna distinguere tra il combattimento contro l’Altro e quello tra sé. Il primo cerca di respingere una forza o di distruggerla, mentre il secondo è il processo con cui una forza si arricchisce impadronendosi delle altre e congiungendosi a loro in un divenire. Nella guerra, al contrario, la volontà di potenza si esprime sotto forma di dominio: è il grado più miserabile della volontà di potenza.

La lotta non ha bisogno di passare attraverso questo “imperialismo della morte”; perché è quella potente vitalità non organica che completa la forza e con essa stessa e arricchisce ciò di cui s’impadronisce. Il combattimento è un modo di farla finita con il giudizio, giacché è una delle cinque caratteristiche che contrappone l’esistenza, con le sue ragioni plurali, alla mortificazione del giudizio:

La crudeltà contro il supplizio dell’espressione;

Il sonno o l’ebbrezza contro il sogno;

La vitalità contro l’organizzazione;

La volontà di potenza contro quella di dominio;

Il combattimento salutare tra forze contro la guerra.

Il teatro della crudeltà a lungo teorizzato da Artaud, ma mai poi effettivamente sulle scene, doveva essere il luogo della violenza sacrificale, anatomica “perpetua sui corpi per distruggerli”, dove alla distruzione segue la rigenerazione attraverso nuovi modi di rappresentazione. La parola “crudeltà” deve essere intesa in senso lato e non nell’accezione fisica abituale: del resto che cos’è la crudeltà in senso filosofico? Dal punto di vista dello spirito, crudeltà significa rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione assoluta. Non significa versamento di sangue o carne martoriata, nemmeno crocifissione del nemico. Questa identificazione della crudeltà con le torture è un aspetto secondario del problema: essa è innanzitutto lucida, è una sorta di rigido controllo, di sottomissione alla necessità. Artaud usa il termine crudeltà per indicare appetito di vita, rigore cosmico che squarcia le tenebre, dolore inevitabile ma necessario all’esistenza: il bene, infatti, è voluto, è la conseguenza di un atto, mentre il male è permanente. Il poeta-attore vuole uscire dall’indistinto, dalla confusione, cercando la verità con rigore, ad ogni costo, per ripossedere finalmente corpo e linguaggio. Artaud fa del teatro uno spazio terapeutico, dove tentare una guarigione possibile attraverso la ricerca di un’espressione totale; la teatralità deve restaurare e attraversare da parte a parte esistenza e carne, il corpo e la vita che sono crudeltà, giacché soggetti a una tremenda, inevitabile necessità. La crudeltà è mascherata dall’ipocrisia, dalla buona coscienza, dalla verità, dalla legge. La coscienza risvegliata e lucida, dona a qualsiasi atto una nota crudele, perché è chiaro che la vita è sempre la morte di qualcuno. Non si può essere semplici organi di registrazione; l’essere è ripetizione, la vittoria sul vivere, sull’alterità del corpo. L’essere è la vita che, ostinandosi a essere, a ripetersi, anche nelle parole, a riconfermarsi, si sottrae alla vita; conatus essendi che si economicizza, che non si espone, che non vuole rischi. I quaderni di Artaud scritti a Rodez, negli anni d’internamento sono pieni di esclamazioni, interiezioni, abbai, grida, sull’antinomia tra vivere ed essere, agire e pensare, materia e anima, corpo e mente. Colpito duramente dall’ostilità pubblica in tutte le sue voci (questioni finanziarie, sfratti, guai con la censura e polizia, stroncature critiche da tutti i fronti) a pochi giorni dalla morte, Artaud si rivolge per lettera al Reverendo Laval:

C’è qualcosa che la coscienza generale non comprenderà mai ed è che un corpo macerato e battuto frantumato e ricomposto dalla sofferenza e dai dolori della messa in croce come il corpo sempre vivo del Golgota sarà superiore allo spirito abbandonato a tutti i fantasmi della vita interiore che è il lievito e il grano di tutte le fantasmagoriche nauseanti bestialità.

 Il concetto di corpo senz’organi è anche centrale nella filosofia di Gilles Deleuze e nelle opere scritte in collaborazione con Felix Guattari: la riflessione sul corpo, sugli organi le loro funzioni che lo compongono come organismo, diventa la chiave di lettura per una critica all’organizzazione sociale in generale, con le sue istituzioni burocratiche, gerarchiche, religiose e militari. Farsi un corpo senz’organi significa destrutturare l’organismo, svuotarlo dei suoi principi disciplinari e autoritari, significa ricombinare gli organi seguendo criteri alternativi, significa immaginare altre organizzazioni, altre macchine individuali e collettive possibili.

Il corpo senz’organi, dice Deleuze, non si può raggiungere, non si finisce mai di accedervi, è un limite, eppure, trovarlo è una questione vitale, di giovinezza e di vecchiaia, di tristezza e di allegria. La sua struttura è tale che può essere occupato, popolato solo da intensità che passano e circolano: è materia uguale energia, è come dice Artaud “uovo pieno” prima dell’estensione degli organi, prima della formazione degli strati. Laddove le intensità passano non esiste più né io né l’altro, perché l’interno e l’esterno fanno ugualmente parte dell’immanenza in cui essi sono fusi. Nei trattati taoisti cinesi si parla di un circuito d’intensità tra l’energia femminile e quella maschile, dove la donna gioca il ruolo di forza istintiva o innata (yin) che l’uomo sottrae o riceve, in modo tale che la forza trasmessa dell’uomo (yang) divenga a sua volta, aumento delle potenze. Il Tao è un campo d’immanenza, dove al desiderio non manca nulla e quindi non si rapporta più a nessun criterio esterno o trascendente. E’ vero che il circuito energetico può essere utilizzato ai fini riproduttivi ma è vero solo per i vari strati, organismi, lo Stato e famiglia…mentre non è vero per quell’aspetto del Tao con un piano di consistenza non stratificato, fatto di formazioni e connessioni sociali molto differenti. L’organismo, dunque, è semplicemente uno strato sul corpo senz’organi, è un fenomeno di accumulazione, coagulazione, sedimentazione, che gli impone forme, funzioni, organizzazioni dominanti e gerarchiche, ed anche una significazione e un soggetto. Il corpo senz’organi ha due poli opposti: le superfici di stratificazione sulle quali si ripiega e si sottomette al giudizio e il piano di consistenza nel quale si libera e si apre alla sperimentazione. Castaneda, in un suo lavoro, parla di una lunga sperimentazione, in cui un Indio lo costringe a cercare un luogo degli alleati e lo invita a costruire linee di sperimentazione piuttosto che d’interpretazione.

Il corpo senz’organi è tutto questo: necessariamente un Luogo, un Piano, un Collettivo (che lega elementi, cose, vegetali, animali, utensili, uomini, potenze, frammenti di tutto ciò, perché non c’è il mio corpo senz’organi ma il mio io su di esso, ciò che resta di questo io, inalterabile e nell’atto di cambiare forma, di superare delle soglie). Carlos Castaneda parla della differenza tra Tonal e Nagual: il primo è tutto ciò che vediamo, tocchiamo, sentiamo, percepiamo, pensiamo, immaginiamo, in altre parole, è il mondo, la realtà che comunemente ci appare. Esistono due tipi di Tonal: l’individuale che appartiene al singolo, e quello sociale nel suo complesso, che appartiene alla cultura in cui il singolo è inserito. Il Nagual non è descrivibile, è non-parole, non-nomi, non-sensazioni, non-sapere: oltre la realtà creata dagli uomini, c’è sempre un irriducibile, un inesprimibile, inconcepibile, inconoscibile, tremendo Universo. Pertanto il Tonal è l’organismo, tutto ciò che è organizzato e organizzatore; è significanza, tutto ciò che è significato, che è suscettibile d’interpretazione, di spiegazione, che è memorizzabile, sotto la forma di qualche cosa che ne richiama un’altra: è l’Io, il soggetto, la persona individuale, sociale, storica, e tutti i sentimenti corrispondenti. Anche Il Nagual è il tutto, dice Deleuze, ma nelle condizioni in cui il corpo senz’organi ha sostituito l’organismo: la sperimentazione ha soppiantato ogni interpretazione di cui non ha più bisogno. I flussi d’intensità, le loro fibre e congiunzioni d’affetti, le micro-percezioni hanno sostituito il mondo del soggetto: i divenire, divenir-animali, divenir-molecolari, occupano il posto della storia. Il Tonal è l’insieme degli strati e ciò che può esser loro rapportato, le interpretazioni e spiegazioni del significabile, i movimenti di soggettivazione. Il Nagual, invece, smonta gli strati; non è più un organismo che funziona, ma un corpo senz’organi che si costruisce: non sono più atti da spiegare, sogni o fantasmi da interpretare, ricordi d’infanzia da ricordare, parole da far significare, ma colori, suoni, divenire e intensità. Non è più un Io che sente, agisce, si ricorda, è una foschia brillante, gialla e scura che ha affetti, prova movimenti e velocità. Il Tonal non deve essere smontato di colpo giacchè è necessario alla sopravvivenza: è vero che c’è un corpo senz’organi che si oppone all’organizzazione (organismo), ma c’è anche un CsO dell’organismo che è lo strato superficiale. E’ tessuto malato, le cui cellule sono cancerose e s’impadroniscono di tutto; è necessario pertanto che l’organismo le riporti alle regole, le ristratifichi per sopravvivere e per fuggire fuori dall’organismo. Ad esempio anche lo strato di significanza ha un tessuto canceroso, che blocca la circolazione, così come la soggettivazione rende la liberazione impossibile perché non consente la distinzione dei soggetti. Artaud è ben consapevole del problema: maledice il corpo canceroso dell’America, quello della guerra e del denaro e denuncia gli strati che definisce della “cacca”.

Il CsO per lui è l’uovo, come già accennato: non in senso regressivo ma contemporaneo per eccellenza, come ambiente di sperimentazione e di associazione. L’uovo è questa realtà intensiva, in cui gli organi si distinguono solo per i diversi gradi e variazioni di misure, per le migrazioni e le zone di vicinanza. Il CsO (uovo) è adiacente all’organismo e continua sempre a formarsi; è la contemporaneità dell’adulto e del bambino, la loro intensità e tutte le possibili variazioni. Il CsO è desiderio, è ciò che gli dona consistenza e immanenza, anche se può cadere per una decostruzione brutale o per una proliferazione cancerosa; talvolta desidera il proprio annientamento oppure ciò che può annientare: c’è desiderio ogni volta che c’è una costruzione di un CsO. Non è una questione ideologica ma di pura materia fisica, biologica, psichica, sociale o cosmica. Il problema è sapere se abbiamo gli strumenti per separare il CsO dai suoi doppi, cioè dai corpi cristallizzati vuoti, cancerosi, totalitari.

L’organismo, si è detto, è semplicemente uno strato sul corpo senz’organi, un fenomeno di accumulazione, coagulazione, sedimentazione, che impone forme, funzioni, organizzazioni dominanti, ma anche una significazione e un soggetto. E il linguaggio fissa i suoi significanti ai tratti di un volto che elimina tutte le espressioni non adatte: la soggettività e la significazione sarebbero nulla se i volti non adeguassero l’aspetto mentale della realtà a quella dominante. Il viso come superficie ha i suoi tratti, le rughe, le forme ed è come una carta che si applica su un volume o si avvolge attorno ad esso.

Il viso è il prodotto dell’umanità e più spesso del potere: qualunque sia il contenuto, il viso è in relazione di corrispondenza con altri, ad esempio uomo/donna, ricco/povero, adulto/bambino, capo/suddito. Ci sono altre dicotomie tra visi ad esempio, quello della maestra e dell’allievo, del padre e del figlio, dell’operaio e del padrone, del poliziotto e del cittadino, dell’imputato e del giudice: i volti si formano e trasformano attorno a queste combinazioni; si prende la forma di un viso più di quanto non si possieda. Nelle società primitive, al contrario, poche cose passavano attraverso il viso: la semiotica era essenzialmente collettiva, polivoca e corporea, dotata di forme e di sostanze d’espressione molto diversa. La pluralità dei valori passava per i corpi, i loro volumi, le loro cavità interne. Le pitture, i tatuaggi, i segni sulla pelle sposavano la multidimensionalità dei corpi e persino le maschere assicuravano l’appartenenza della testa al corpo, anziché separarlo da un viso. Le organizzazioni di potere dello sciamano, del guerriero, del cacciatore, fragili e precarie, sono tanto più spirituali giacchè passano per la corporeità, l’animalità, la vegetalità; i codici di queste culture e società, pertanto, riguardano i corpi, l’appartenenza delle teste a questi ultimi, la predisposizione del sistema corpo-testa a “divenire”, a ricevere delle anime amiche. I primitivi possono avere le teste più umane e più spirituali e tuttavia non hanno un viso perché non ne hanno bisogno. E tuttavia smontare il viso non è facile perché è un’organizzazione potente al servizio della significanza e del soggettivismo; questo non significa tornare alle semiotiche primitive, non si può regredire, ma far si che si producano teste cercanti che rompano gli strati e che generino nuove radici positive e creatrici, abolendo i limiti delle dicotomie.

La nostra vita non è formata solo dai grandi insiemi come gli Stati, le istituzioni, le classi sociali, ma anche dagli insiemi di persone i cui rapporti sono articolati per non disperdere né turbare ma anzi garantire e controllare l’identità personale: una linea di vita molto rigida ma diffusa. Ci sono però alcuni rapporti poco individuabili, che sfuggono alle classi sociali, ai sessi, alle persone: sono come linee flessibili, inafferrabili, tale è la loro velocità che supera ogni percezione ordinaria. La linea rigida e quella flessibile interagiscono, trasmettendosi a vicenda le proprie caratteristiche: le relazioni incrociano percorsi alternativi, fatti di microelementi anonimi, di piccole incrinature che disorientano, deterritorializzano e portano nuove vibrazioni. E nonostante le relazioni di solito proseguano su linee rigide, l’incontro con la flessibilità introduce una nuova linea di fuga, astratta, che apre a una nuova chiarezza. Quando non abbiamo più niente da nascondere, non possiamo essere catturati, siamo impercettibili, abbiamo dissolto il nostro io per incontrare il vero doppio all’altra estremità della linea: siamo passeggeri clandestini di un viaggio immobile.

Divenire come tutti, è soltanto per chi sa di non essere più nessuno.

Sulla linea di rigidità s’incontrano molte parole, domande e risposte, infinite spiegazioni, messe a punto; sulla linea flessibile silenzi e allusioni, sottintesi rapidi frutto dell’interpretazione; la linea astratta, infine, è folgorante, un treno in corsa, è lineare e accetta ogni cosa con tranquillità. Le tre linee della vita, comunque, non cessano mai di mescolarsi. Ogni linea non è cattiva o buona ma reca con sé alcuni pericoli, come sottolineò Nietzsche in “Zarathustra”: il primo è la Paura che è il timore di perdere e che ci induce ad accettare un sistema dominante che ci impone valori morali, patria, religione, e certezze private necessarie all’indulgenza verso noi stessi e alla nostra vanità, ma soprattutto al bisogno di sentirsi circondati di stabilità. E’ un irrigidimento che rassicura e che pertanto ci confina sulla prima linea, totalmente rigida. Il secondo pericolo è la Chiarezza che svela spazi e vuoti all’interno della struttura rigida e che genera incertezze, sovrapposizioni, sconfinamenti rispetto al rigore: prospetta una maggiore flessibilità delle linee ma anche il pericolo che questa non sia altro che una riproduzione in miniatura, una compensazione della linea rigida. Il terzo pericolo è il Potere che è a cavallo tra le due linee: c’è in questo caso il tentativo costante di bloccare le linee di fuga e di produrre un vaso chiuso, come accade nei regimi totalitaristi. Il quarto pericolo è la passione dell’Abolizione e riguarda principalmente le linee di fuga, le quali però, spesso si trasformano in una guerra da cui si rischia di uscire sconfitti, destrutturati, dopo aver cercato di distruggere tutto il possibile. Il rischio consiste proprio nel fatto che la linea di fuga nell’oltrepassare i confini, invece di unirsi ad altre linee per aumentare i valori sostanziali, diventa distruzione, abolizione, insomma una sorta di macchina da guerra che quando non ha come scopo la trasformazione diventa catastrofica.

La storia naturale ha sempre pensato ai rapporti tra gli animali, diversamente dall’evoluzionismo inteso come genealogia, parentela, discendenza o filiazione: Darwin distingue tra i rapporti di parentela e il valore delle differenze o rassomiglianze. La storia naturale ammette progressioni e regressioni, continuità e grandi fratture, ma non un’evoluzione in senso stretto; interpreta inoltre i rapporti secondo la serie e la struttura: nel primo caso lavora sulle differenze e somiglianze, nel secondo sul grado di perfezione voluto, usando risorse intellettuali capaci di stabilire rapporti di equivalenza.

La storia dovrebbe guardarsi dalle somiglianze e dalle discendenze/filiazioni, limitandosi a segnare le soglie e i viaggi che ne cambiano la natura o l’oggetto. Divenire non significa imitare, né identificarsi, non è neanche regredire-progredire, e nemmeno corrispondere o produrre: è un verbo che ha tutta la sua consistenza, non si riduce e non ci conduce all’apparenza né all’equivalenza. Tra un uomo e una donna passano molti esseri, che provengono da altri mondi, che radicano e non riguardano la produzione ma solo il divenire. L’Universo non funziona per filiazione ma solo per contagio: questo meccanismo che ci smuove nel profondo non va assolutamente confuso con organizzazioni come l’istituzione familiare e l’apparato dello Stato.

Le società primitive, a tal proposito, sono un esempio di organizzazione in cui non c’è un potere centrale dello Stato né delle istituzioni politiche: ci sono semplici divisioni locali ma anche collegamenti tra più strati diversi, dove regna la flessibilità nelle relazioni che sono sempre variabili. C’è una fusione tra gruppi diversi, tra differenti strati: Lévi-Strauss dimostra come la società dello Stato faccia valere la relazione biunivoca e le scelte binarie basate su classi e sessi, per far si che si converga sempre verso un unico potere centrale. C’è un’unica figura in cui si ricade, ed è il prototipo maschile gerarchico del padre, del maestro, del colonnello, del padrone, che attraversa tutti gli strati spazzando via le possibili scelte. Ed è l’opposto del concetto di anomalo, di border, che è sempre in una posizione dinamica, di frontiera e di potenziale fuga. Il rapporto che si stabilisce con l’anomalo è di alleanza e questa è necessaria al divenire, e alle molteplicità che riuniscono animali, vegetali, microrganismi, una galassia intera. Non c’è ordine logico tra questi elementi eterogenei ma solo compatibilità o consistenza e soprattutto ci sono dei criteri che funzionano da guida nei pericoli; certo è che ogni individuo è una molteplicità infinita mentre la Natura ha un piano di consistenza reale e individuale, le cui parti sono concatenamenti di rapporti differenti. Questo piano non ha alcuna forma o funzione e le cose si distinguono solo attraverso il movimento, il riposo, la lentezza e la velocità: anche i fallimenti sono parte del piano. Un corpo pertanto, non si definisce per la forma che lo determina né come una sostanza o un soggetto determinati, né per gli organi che possiede o le funzioni esercitate. Sul piano di consistenza un corpo si definisce soltanto mediante una longitudine e una latitudine; cioè per i rapporti di movimento e riposo, di velocità e di lentezza (longitudine) e per l’insieme degli affetti intensivi di cui è capace, secondo un certo potere o grado di potenza (latitudine). Nient’altro che affetti, movimenti locali e velocità differenziali. Spinoza ha tracciato queste due dimensioni del Corpo e ha definito il piano di Natura come longitudine e latitudine pure. Siamo longitudine e latitudine, un insieme di velocità e lentezze tra particelle prive di forma, e di affetti non soggettivati. Le relazioni, le determinazioni spazio-temporali sono dimensioni di molteplicità: Kleist moltiplica i piani di vita, giacché un unico e stesso piano ha sempre i suoi fallimenti i suoi vuoti, salti, terremoti e pesti. Il piano non è un principio di organizzazione ma un mezzo di trasporto: nessuna forma si sviluppa, né alcun soggetto si forma, ma degli affetti si spostano, dei divenire si catapultano; Kleist ha spiegato come le forme e le persone siano soltanto apparenze, frutto dello spostamento gravitazionale su una linea astratta. Siamo presi in queste linee di divenire tra le quali possiamo stabilire un ordine o progressione apparente: divenire-donna, bambino, animale, vegetale o minerale, divenire-molecolari di ogni specie e divenire-particelle. Le fibre portano dagli uni agli altri e trasformano gli uni negli altri, attraversando le soglie e le porte: bisogna iniziare dalla fine, giacché tutti i divenire sono già molecolari. Divenire non è imitare qualcosa o qualcuno, non è identificarsi con esso, al contrario, è estrarre dalle forme disponibili, dagli organi che si possiedono o dalle funzioni svolte, alcune particelle tra le quali s’instaurano rapporti di movimento, di riposo, di lentezza e velocità, vicini a ciò che si sta diventando e attraverso i quali si diviene.

I riti di travestitismo, travestimento, nelle società primitive, dove l’uomo diviene donna, non si spiegano con un’organizzazione sociale, che vorrebbe la corrispondenza di determinati rapporti né con un’organizzazione psichica per cui l’uomo desidererebbe, essere donna e viceversa. La struttura sociale e l’identificazione psichica non considerano molti fattori particolari quali la successione, lo scatenamento di divenire che il travestimento provoca e la stessa cosa vale per la sessualità che non si spiega attraverso l’organizzazione binaria dei sessi tantomeno con la bisessualità. La sessualità passa per il divenire-donna dell’uomo e il divenire-animale dell’umano: emissione di particelle, precipitare in un divenire-impercettibile, e l’impercettibile è la fine immanente del divenire, la sua formula cosmica. Divenire-tutti, implica il Cosmo con le sue particelle molecolari: è divenire la gente, è fare un mondo. Il Cosmo è una macchina astratta e ogni mondo è il concatenamento concreto che lo genera; noi siamo una o molte delle linee astratte che proseguiranno e si uniranno ad altre per generare un mondo in cui tutti divengono e in cui si diviene tutti.

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