di Valentina Riolo
« È giunto ormai il tempo di andare, o giudici, io per morire, voi per continuare a vivere. Chi di noi vada verso una sorte migliore, è oscuro a tutti, tranne che al Dio. »
Con queste parole si conclude l’ Apologia di Socrate, dialogo in cui Platone tratta del processo e della condanna a morte del suo maestro. Era il 399 a.C. quando Atene, la più democratica delle città greche, mandò a morte il suo uomo più giusto con le accuse di empietà nei confronti degli dèi venerati in città e di corruzione dei giovani attraverso dottrine che causavano disordine sociale.
Socrate è una figura centrale dell’opera arendtiana e, in questo testo, l’autrice prende le mosse dal momento in cui si crea una profonda spaccatura tra filosofia e politica. La polis, luogo in cui Socrate viveva e operava non in privato e dietro compenso, ma pubblicamente e gratuitamente, lo rinnega, lo processa e lo condanna a morte. La città “non sa cosa farsene” di quest’uomo a cui viene attribuito l’aggettivo “atopos”, colui che non ha luogo, che non può essere rinchiuso in uno schema predefinito, che non vive isolato ma che non ricopre nemmeno una carica istituzionale. Frequenta l’agorà e si ferma a parlare con chiunque incontri, non per dare insegnamenti dogmatici, ma per insegnare a liberarsene: non si deve accettare il già dato come verità assoluta e certa, l’obbiettività sta nel fatto che lo stesso mondo si apre a ciascuno in maniera diversa. La verità si può comprendere solo se conosco “ciò che appare a me” e, d’altra parte, posso conoscere la verità della mia opinione solo se la relaziono con la verità degli altri, solo attraverso quell’ “essere-nel-mondo” che per Arendt corrisponde all’ “essere-nel-mondo con gli altri”.
Nel testo è presente anche un’analisi del rapporto antitetico che si crea tra Socrate e Platone: il primo visto come iniziatore della pratica filosofica e politica, il secondo come colui che ha aperto alla metafisica come via di fuga dalla scena politica, e, dunque, reo di aver tradito l’insegnamento del maestro. Platone non tenterà si sanare la spaccatura creatasi con la condanna a morte di Socrate, ma anzi, aprirà una prospettiva del tutto nuova. Se per Socrate il filosofo, come un tafano, doveva pungere i cittadini ponendo domande affinché ciascuno fosse in grado di raggiungere la verità attraverso la propria opinione, per Platone il compito del filosofo era quello di governare la città e la verità derivava da criteri assoluti.
“So di non sapere” significa, quindi, non poter avere una verità che sia valida per tutti e per ciascuno, la sapienza consiste nell’accettare questo limite: ognuno svilupperà un logos personale e soggettivo attraverso un continuo dialogo interiore, infatti, come si legge nel testo di Arendt, “anche se dovessi vivere completamente da solo, vivrei, per tutto l’arco della mia vita, nella condizione della pluralità; dovrei pur sempre stare con me stesso, e non c’è luogo in cui questo “io-con-me-stesso” si mostri così chiaramente come si mostra nel puro pensiero, che è sempre un dialogo tra i due che io sono”. Si mette in evidenza l’importanza cruciale del rapporto del sé con se stesso come condizione necessaria affinché si possa vivere con gli altri. L’ “essere-insieme” si sviluppa, quindi, su un doppio asse: “l’essere-insieme con gli altri uomini e con i propri pari, da cui scaturisce l’azione, e l’essere-insieme con il proprio Sé, cui corrisponde l’attività del pensare”. Tuttavia, proprio da quest’ultima attività deriva un pericolo di scissione dell’io: ognuno, essendo due-in-uno, è destinato a convivere con la propria coscienza, dunque è meglio “essere in contraddizione col mondo intero piuttosto che con se stessi”.
Proprio per questo, come sottolineano i saggi di Adriana Cavarero e Simona Forti presenti alla fine del volume, è interessante mettere a confronto Socrate con un altro personaggio fortemente presente nelle opere di Arendt: Adolf Eichmann, funzionario tedesco processato a Gerusalemme nel 1961. Due figure opposte, due estremi: da una parte, chi vuole vivere e convivere con la propria coscienza fino al punto di accettare la morte pur di non tradirla e di non tradirsi (Socrate), dall’altra, chi vuole sopravvivere a tutti i costi, non curandosi della voce interiore e di dover passare il resto dei suoi giorni con un assassino (Eichmann). Contro la “banalità del male”, Socrate diventa paradigma di onestà e giustizia. Ma “perché un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime. Che si cambi in esempio.” Allora è necessario che Socrate muoia affinché le sue idee vivano: condannando un uomo, non si uccide, insieme a lui, l’idea che ha creato e portato in atto.