Introduzione
Uscito il 7 Luglio 2015, questo articolo di Dilar Dirik descrive le necessità radicali e i principi dell’autodifesa, intendendo quest’ultima non solo in senso fisico, ma anche in senso, etico, estetico, morale, ideologico, filosofico e quindi politico, delineando i meccanismi di base per la protezione della società e del suo progetto di autodeterminazione inteso nei termini dell’autogoverno, attraverso strutture decisionali decentrate, che rendono cioè superfluo lo Stato-Nazione. Il movimento delle donne curde prova che quando nel corso della storia come oggi si è di fronte ad un genocidio fisico e culturale, di fatto lo Stato-Nazione non è mai la soluzione, in quanto è in realtà sempre la fonte dei problemi. Nell’articolo che proponiamo sono contenute, in una critica al sistema patriarcale militarista, anche le espressioni pratiche e teoretiche per una trasformazione politica e sociale in direzione del superamento del modello dello Stato-Nazione e della sua legittimazione attraverso l’egemonia ideologica.
La resistenza delle donne curde opera senza gerarchia né dominazione ed è parte della più ampia trasformazione e liberazione della società.
Le potenti istituzioni del mondo operano attraverso la struttura-Stato, che ha il monopolio finale sul processo decisionale, sull’economia, e sull’uso della forza. Al tempo stesso ci viene detto che l’odierna violenza diffusa è la ragione per cui lo Stato ha bisogno di proteggerci contro noi stessi/e. Le comunità che decidono di difendersi contro l’ingiustizia sono criminalizzate. Basta dare uno sguardo alla generica definizione di terrorismo: l’uso della forza da parte di attori non statali per scopi politici. Non importa il terrorismo di Stato. Di conseguenza, le donne, la società e la natura vengono lasciate indifese, non solo fisicamente, ma socialmente, economicamente e politicamente.
Nel frattempo, gli onnipresenti apparati di sicurezza dello Stato – che apertamente portano avanti economie di commercio di armi e traggono benefici dal contrapporre le comunità l’una contro l’altra per le loro sporche guerre – danno l’illusione di proteggere “noi” contro un misterioso “loro”.
Nel corso dell’ultimo anno, il mondo è stato testimone della storica resistenza della città curda chiamata Kobane. Che le donne da una comunità dimenticata siano diventate le più feroci nemiche del gruppo Stato Islamico – la cui ideologia si basa sulla distruzione di tutte le culture, le comunità, le lingue e i colori del Medio Oriente – ha sconvolto i patti convenzionali sull’uso della forza e sulla guerra. Kobane non passerà alla storia della resistenza umana perché gli uomini hanno protetto le donne o uno Stato ha protetto i suoi “soggetti”, ma perché donne e uomini sorridenti hanno trasformato le loro idee e i loro corpi in un’ideologica prima linea contro la quale si sono sgretolati il gruppo Stato Islamico e la sua stupratrice visione del mondo.
Non è più sufficiente per le donne, soprattutto in Medio Oriente, “condannare la violenza”, dal momento che la violenza è diventata un fattore talmente costante nelle nostre vite, che il nostro status di “vittime”, percepito o costruito, è usato dagli imperialisti come giustificazione per lanciarsi in guerre contro le nostre comunità.
L’ascesa del gruppo Stato Islamico ha mostrato il disastro a cui porta la completa dipendenza dagli uomini e dalle armate dello Stato: il femminicidio. Per cui è necessario un meccanismo radicale di autodifesa.
La condotta di guerra del movimento di liberazione curdo si basa sul concetto di “legittima autodifesa” e comprende la creazione di meccanismi di base sociali e politici per proteggere la società al di là della mera difesa fisica.
In natura, gli organismi viventi come le rose con le spine sviluppano i loro sistemi di autodifesa non per attaccare, ma per proteggere la vita. “Teoria della rosa” la chiama Abdullah Öcalan, rappresentante ideologico del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan).
Similmente, per resistere senza essere militarista la società deve astenersi dall’imitare i concetti statuali di forza e, invece, tutelare i valori comunitari, traendo la sua forza dal basso. La società, e in particolare le donne, dice Öcalan, deve prima di tutto “xwebûn” – essere se stessa. Solo con la realizzazione della propria esistenza e del suo significato, si può rivendicare il diritto di vivere e difendere se stesse/i e la comunità. Questo deve basarsi su una società politicizzata, consapevole di sé, cosciente e attiva, che interiorizzi l’etica dell’amore per la comunità – compresi valori fondamentali quali l’impegno per la liberazione delle donne – piuttosto che fare affidamento sulle leggi applicate dallo Stato capitalista e dal suo apparato di polizia.
Ciò che ha trasformato il Kurdistan in un luogo di pellegrinaggio per le donne e i movimenti antisistema di tutto il mondo è stata questa posizione ideologica che ha difeso la vita, a fronte di un esercito di morte.
Le forze di difesa in Rojava mostrano come l’autodifesa possa funzionare senza gerarchie, né controllo, né dominio.
Nel mezzo della guerra, le Unità kurde di Difesa del Popolo, o YPG, e le loro brigate di donne, le YPJ, così come le unità di sicurezza interna, Asayish, focalizzano la propria attenzione sull’istruzione ideologica. Metà di questa riguarda l’uguaglianza di genere.
Le accademie educano le/i combattenti a capire che non sono una forza di vendetta e che l’attuale mobilitazione è una necessità dovuta alla guerra. Le accademie delle Asayish lavorano per una comunità con un Asayish senza armi, che sappia mediare verbalmente le controversie nei quartieri, con l’obiettivo finale di abolire del tutto le Asayish, costruendo una “società etico-politica” che risolva i propri problemi. Esse rifiutano l’etichetta di polizia perché, anziché servire lo Stato, servono il popolo, perché sono popolo esse stesse. L’accademia Asayish a Rimelan solitamente era un centro dei servizi segreti del regime siriano. Lì una volta alcuni studenti sono stati torturati dal regime come prigionieri politici.
I/le comandanti sono eletti/e dai membri del battaglione in base alla loro esperienza, all’impegno ed alla volontà di assumersi la responsabilità. Questa idea di leadership nello spirito di sacrificio è la ragione per cui molti/e dei/delle martiri delle YPG/YPJ erano comandanti con esperienza, amati/e.
Per le donne, inoltre, l’autodifesa è una questione di vita o di morte.
ypj2_dilardirik.jpg_347796135 Le donne yazide di Shengal (Sinjar), che da parte dei media sprezzanti sono ritratte come miserande vittime passive, ora rifiutano di venire essenzializzate come vittime di stupro e hanno costruito – in modo simile alle YJA Star (esercito di donne del PKK) e alle YPJ, le Forze di Difesa delle donne in Rojava – il proprio esercito autonomo di donne chiamato YPJ-Shengal [vedi immagine qui accanto], la forza di autodifesa delle donne yazide, parallelo alle loro emergenti strutture autonome di autogoverno.
Non è un caso che i primi eserciti permanenti siamo emersi con l’aumento dell’accumulazione di ricchezza, che ha segnato anche l’istituzionalizzazione del patriarcato e i predecessori dello Stato.
Lo stato-nazione afferma insidiosamente la propria esistenza tracciando confini tra le comunità, creando paranoia e xenofobia dove per secoli ci sono stati mosaici di culture.
Quindi, se siamo impegnati/e a difendere la società, dobbiamo affrontare anche filosoficamente tutti gli attacchi contro la società, dal momento che i sistemi di dominazione e gerarchia si stabiliscono prima nel pensiero.
Dualismi come quelli uomo-donna, Stato-società, umano-natura hanno lo scopo di rappresentare come naturali le relazioni gerarchiche.
Ciò che Thomas Hobbes chiamava “homo homini lupus est”, per legittimare l’insindacabile leviatano chiamato Stato, nei nostri tempi moderni è praticato nello stile del grande fratello.
Dobbiamo sfidare la storiografia fascista che sminuisce la società e oggettifica la natura e, invece, cercare praticamente le soluzioni ai problemi sociali con una “sociologia della libertà” incentrata sulle voci e sulle esperienze degli/delle oppressi/e.
Contro le premesse razziste dell’ordine separatista dello Stato-nazione e contro i suoi confini mentali e fisici, la società deve rafforzare la nozione di “nazione democratica” – concettualizzata da Öcalan per dissociare l’idea di nazione dalle forme senza senso dell’appartenenza etnica – per rafforzare una unità etica più significativa basata su principi quali la libertà delle donne, soprattutto nell’epoca del gruppo Stato Islamico.
La Rivoluzione in Rojava – dove curdi, arabi, siriaci, turkmeni e ceceni cercano di creare insieme un nuovo sistema alternativo – si basa su questo concetto politico.
L’autodifesa deve, quindi, non solo combattere contro, ma anche per qualcosa, soprattutto in Medio Oriente, dove tutte le forme di violenza vengono messe in atto ad un livello insopportabile. Così, l’autodifesa è il tentativo radicale di separare la potenza dal sistema patriarcale militarista – e le donne devono essere l’avanguardia militante di autodifesa di una vita autodeterminata, più bella, più giusta, più libera.
L’autodifesa, accompagnata dal pensiero rivoluzionario, ha il potenziale per produrre un cambiamento sociale radicale.
La Rivoluzione in Rojava, con il suo modello di “confederalismo democratico”, come proposto da Öcalan, è un fulgido esempio del potere del popolo.
Come combattente delle YPJ, Amara da Kobane mi ha detto: “Ancora una volta, i curdi sono apparsi sul palcoscenico della storia. Ma, questa volta, con un sistema di autodifesa e di autogoverno, soprattutto per le donne, tale che ora possono, dopo millenni, scrivere la propria storia per la prima volta. Le nostre opinioni filosofiche rendono noi donne consapevoli del fatto che siamo in grado di vivere solo resistendo. La nostra rivoluzione va ben al di là di questa guerra. Per avere successo, è fondamentale sapere per che cosa si lotta”.
di Dilar Dirik, 7 luglio 2015