Della carenza di un simbolico maschile contro il potere patriarcale
Convitato di pietra
Il breve lasso di tempo tra la morte del fondatore di Playboy e lo scoppio del “caso Weinstein” sembra una cesura insuperabile, mentre invece l’elemento per comprendere molto di quello che sta accadendo era lì, a portata di mano nelle chiacchiere appena spentesi sul cadavere di Hugh Hefner. L’errore più banale su di lui lo hanno fatto in tanti e in tante: liquidare la questione, magari con una certa soddisfazione, come si trattasse solo di un trastullo per peni solitari – oppure del solito sfruttatore di donne su larga scala. Purtroppo non era e non è così, o comunque non solo così. Pochi giorni dopo arriva anche il “caso Weinstein” a ricordarlo, ma sempre a pochi e poche. Lateralmente ma non meno fortemente la morte di Hefner prima e la vicenda Weinstein poi hanno riproposto anche un problema tipicamente italiano: le competenze per giudicare sensatamente la vita e l’opera di un uomo che ha modellato l’immaginario sessuale di milioni di uomini per diverse generazioni. Perché, tra le altre cose, è il simbolico di Hefner che rende leciti, per il senso comune, gli insulti alle donne che non dicono di no al molestatore.
Un luogo dove tutto è possibile
Hefner ha trovato decenni fa una ottima soluzione a un problema di adeguamento del potere patriarcale: dove può esercitare un uomo etero quel potere, ora che viene socialmente minacciato dalla mobilità sociale e dai femminismi che hanno sempre più spazio. La risposta è: in casa. Trasformando la casa nel suo luogo di potere, visto che in pubblico le cose sono difficili sia per via della esasperata competizione maschile, sia per le giuste rivendicazioni femministe. Quindi mettiamoci a produrre una esperienza anestetizzata in partenza, domestica e trasgressiva insieme, estrema e sicura; la formula vincente della pornografia commerciale. Il letto e il pigiama non sono questioni estetiche, o meglio lo sono propriamente: Hefner li fa diventare divise, tipiche divise maschili attraverso le quali riconoscere valori comuni, appartenenze indiscutibili, cameratismo maschile di un tipo nuovo, diverso dalla rincorsa all’onore e dalle spettacolari prove di virilità. Un corpo maschile in pigiama è inoffensivo ma simbolicamente potente, perché impone di adeguarsi al suo desiderio domestico, avvicinabile, economico e liberatorio per tutti.
Liberatorio anche perché sullo sfondo, non perché non a fuoco ma fondamentale, sta la questione del desiderio. Il lavoro di Hefner non consisteva in primo luogo nel dare agli uomini un potere sulle donne: già lo avevano, ma era condiviso in uno spazio pubblico che ne rendeva particolarmente difficile l’uso e il mantenimento. Come per ogni altro bene a disposizione dal boom economico in poi, il problema di Hefner era diverso dall’esercizio indifferenziato di potere in ambito familiare o sociale: voleva un numero illimitato di donne in maniera esclusiva per tutti. Per questo era necessario non già sfidare leggi e consuetudini, ma configurare uno spazio di possibilità per esercitare un potere, convogliando il desiderio in uno spazio sicuro e inattaccabile. Una strategia sostanzialmente difensiva che ha bisogno, per attuarsi socialmente, di tre caratteristiche: un simbolico potente, un marketing aggressivo, un’utopia seducente. Queste tre armi sarebbero dovute servire contro un femminismo sempre più diffuso e contro quel fenomeno che all’epoca (1958) era raccontato come The Womanization of America. Ben sapendo che il valore simbolico eccede il valore di scambio, Hefner si adopera per fabbricare una mascolinità mitica.
Il simbolico e il mercato
Per capire che mercato e moralismo c’entrano poco, se non come effetti invece che come cause, basterebbe continuare a seguire Preciado, come abbiamo fatto fin qui, nel suo Pornotopia. Hefner ha prodotto un codice estetico per vendere alla massa uno spazio di potere maschile portatile, domestico, riproducibile; e lo ha fatto generando una forza simbolica che ha lentamente permeato tanti di quegli aspetti della comunicazione che – come all’epoca aveva ben capito McLuhan – sono diventati non la forma del messaggio ma il messaggio stesso il quale, destinato a una massa, si fa per questo politica. Questo codice estetico ha cominciato lentamente e irresistibilmente a riprodurre, adattandolo a un mercato, lo spazio del potere maschile, rendendolo personalizzabile e sicuro, vendibile e discreto, aperto a novità nei rapporti di lavoro tra uomini e donne, tanto da essere considerato all’avanguardia – sempre all’avanguardia, ogni volta all’avanguardia.
Quelle novità di politiche del lavoro che però non avrebbero potuto sovvertire i rapporti di potere. Come, lo stesso Hefner lo ha spiegato con una semplice battuta su Twitter (11 luglio 2011 alle 16:45): «I have a lot of girlfriends because I don’t call them bitches, Jroe. A little respect will take you a long way». Altro che pimp. Questo comportamento, infatti, dà i suoi risultati in a long way: dagli anni 2000 la maggior parte dei consumatori di prodotti Playboy è donna, perché Hefner ne rispetta la moralità. Quella che ha creato lui: «non c’è prostituzione, intesa nel senso tradizionale, perché non c’è pagamento per i servizi sessuali femminili. Playboy non intende trasformare tutte le giovani americane in prostitute ma, cosa ancor più interessante e vantaggiosa, cerca di far sì che tanto gli uomini quanto le donne si convertano in clienti (più che in lavoratori), consumatori della pornotopia sessuale Playboy e dei suoi prodotti derivati» (Preciado).
Quello che Hefner ha risolto socialmente è stata la riproducibilità di uno spazio maschile dove non ci fosse alcuna competizione, ma la felicità di essere clienti e attori/attrici di quello spazio. L’«estetizzazione della politica» (Benjamin) ha fatto il resto: la sua finta rivoluzione dei costumi – fosse stato realmente rivoluzionario non avrebbe costruito alcun impero economico – ha prodotto un linguaggio e un immaginario nel quale la disponibilità del corpo femminile non è neanche più da discutere, perché entrambi i corpi maschile e femminile sono lì per divertirsi: il maschile come padrone di una domesticità (in pigiama) nella quale il femminile è un accessorio felice di esserlo (la coniglietta).
Non è fantascienza
Non per caso la simbologia hefneriana non vuole nessun altro uomo intorno, e pretende che nessuna donna abbia un ruolo domestico non professionale; non per caso nelle sue mansion Hefner ha attuato politiche egualitarie pioneristiche, ma ha bandito l’omosessualità. Le fondamenta eterosessuali ed eterosessiste sono da considerarsi uno stretto dogma, mentre tutto il resto può, anzi deve, essere esteticamente reinventato. Per questo sulle pagine di Playboy science fiction e difesa simbolica di un mondo altro sono andate di pari passo. La creazione di un mondo alternativo andava sostenuta con una una simbolica fuga, verso un colonialismo di nuove immaginarie lande dove realizzare, su larga scala, quello che si può comunque cominciare a fare nel proprio appartamento. Non serve realizzare l’utopia, basta raccontarla; in questo Hefner non ha fatto altro che ripetere ciò che tante politiche occidentali hanno fatto, il suo successo non è che la ratifica di un esistente ben corroborato dal racconto di un immaginario altrove. La sua è la metafora di tutta la politica neoliberista; possiamo considerare tranquillamente le promesse capitalistiche di democrazia ed equilibrio economico come l’ennesimo, per niente originale, porno commerciale.
Etica ed estetica
Nel frattempo, come sappiamo da un pezzo dalla storia delle madonne e delle maddalene, l’estetica della coniglietta crea, specularmente, l’etica della “vera donna”. Quella che vediamo furiosamente propugnata da tante donne che commentano, appena due settimane dopo la morte di Hefner, la vicenda di Weinstein e di Asia Argento, e di tutte le altre donne che, secondo questa morale, in quanto giovani e belle si sono concesse a un potente di turno ottenendo dei vantaggi. Il linguaggio del potere che si è scatenato intorno a Weinstein e il suo studio (come già è successo nel caso di Strauss-Kahn in albergo, di Polanski in casa, di Clinton nello studio ovale) è quello di Hefner: il suo potere personale è tale da rendere abituale l’estorsione di una prestazione sessuale da chi entra nel suo spazio. Questo spazio è sempre più largo: dalla casa domestica alla casa di produzione, alla casa pubblica di un ministero, all’ufficio di dirigenti e proprietari, e così via. L’ottimistica e superficiale impressione che tutto questo sia «la vendetta di Marilyn» – illusione nutrita dall’altra più grossa, quella che il patriarcato stia finendo – è sconfessata dal fenomeno mediatico legato all’hashtag #metoo, recentemente premiato (più avanti parlaremo della natura di questi “premi”) per il quale assistiamo alla mostruosa necessità che per dare credibilità a una donna sia necessario che tutte raccontino qualcosa di simile. E neanche funziona.
Inutilità della confessione
L’associazione rapida al meccanismo confessionale di tanti uomini, che in rete hanno ammesso di aver fatto violenza, ha ratificato quello che già sapevamo da Foucault: la confessione se l’è inventata chi il potere lo aveva già, per mantenerlo. Essendo la confessione un’operazione personale e singolare – perché il liberarla in uno spazio pubblico tramite hashtag non comporta affatto che i singoli rispondano insieme di ciò che hanno fatto – rimane valido il quadro sociale ben raccontato da Mossetti: l’individualismo che veicola il giudizio sull’attrice molestata vent’anni prima è lo stesso che spinge tanti a scrivere delle loro mani morte sull’autobus. E lo stesso individualismo spiega la difesa “alla Woody Allen”, perché il legame tra Weinstein e il molestatore sull’autobus è quello dello spazio e della disponibilità del corpo altrui che non può essere messo in discussione da nessuna confessione singolare: è proprio la pornotopia di Hefner, realizzata nell’ufficio di Weinstein e in tanti altre stanze dirigenziali con divano. «Mentre il suo potere economico svanisce, Playboy edifica la sua sovranità culturale» (Preciado). La mansion hefneriana ha allargato di parecchio i suoi muri e probabilmente è limitata solo dai confini, seppure labili e permeabili, dell’Occidente. È questo il motivo per cui il molestatore di ogni ordine e grado – il produttore, il passante, il regista, l’operaio sull’impalcatura, l’attore, il caporeparto, il direttore, il giornalista e il giornalaio – una volta scoperti sono sinceramente pentiti e sgomenti di fronte al crollo della loro costruzione di vita come l’avevano conosciuta fino a quel momento. La disponibilità del corpo altrui tra i beni fruibili, la possibilità di fissarne un valore di scambio, non era mai stata messa in discussione, prima: era intesa come qualcosa di naturale. E meno male che il patriarcato stava finendo.
Enti morali ed enti moralistici
Mentre Hefner riposa in eterno vicino a Marilyn – s’è comprato la tomba lì accanto, affinché sia chiaro per tutti e tutte che c’è poco da vendicare – tanti uomini vedono nel proliferare di denunce di molestie e di racconti pubblici delle violenze subite una possibile strumentalizzazione politica. E certo che c’è – stiamo sempre parlando di potere, e il potere piace, come piace la visibilità che porta con sé. Ma se ritirare un premio a Kevin Spacey non serve a cominciare la decostruzione di un sistema di potere, allora serve solo a ratificare quel potere dicendo che adesso passa a chi inventa una regola etica all’uopo: chiunque viene denunciato, anche solo sui media, per violenze sessuali, viene ostracizzato. Senza intaccare la struttura di quel sistema di potere.
Un ente che decide di non dare un premio a Kevin Spacey per le accuse che gli sono state fatte sta lavorando alla propria immagine, non ha certo come interesse la persona molestata da Spacey. Allo stesso modo un mondo economico e politico come Hollywood prova a liberarsi del problema “sessismo” espellendo i presunti colpevoli – mostrando tutta la sua incapacità di gestire un problema sociale enorme. Sintomo dell’incapacità di prendere una decisione molto più difficile e complessa, che ovviamente nessuno vuole prendere: o la bravura nel proprio lavoro va premiata indipendentemente dal proprio comportamento privato – e allora il premio e la carriera che ha Spacey se li merita tutti – oppure decidiamo che è il comportamento privato (non fare violenza, non evadere le tasse, non corrompere…) a determinare se si può fare una carriera; ma allora torniamo ai tempi del codice Hays, o amenità del genere.
Questa alternativa maschera ipocritamente il nodo davvero spinoso: il legame tra moralità e potere. La moralità di un’epoca, di un paese, di un ambiente è determinata proprio da chi gestisce il potere in quell’epoca, in quel paese, in quell’ambiente: ecco perché è possibile far finire in pochi giorni la carriera di un grandissimo attore. Questo nodo ipocrita e deleterio tanti femminismi lo descrivono da almeno due secoli, perché è maschile, ma nessuno li ascolta, e si è incapaci di fare le giuste distinzioni tra pubblico e privato, tra morale e potere. Quindi si distruggono le carriere pensando che il problema sia lì, sia nel famoso attore o nel grande produttore da cacciare via; dando ragione alle chiacchiere di un Mattia Feltri, che appunto non distingue nella questione “arte” lo spazio pubblico e privato tra i piani di potere quello della morale, o di Michele Serra, che s’inventa un «maccartismo da cerniera lampo» perché non vede che c’è un legame tra «lo stupro e la proposta sporcacciona», e quel legame è il potere sessista maschile – ma non siamo ancora capaci di metterlo al centro del dibattito. Oppure non ci va.
È normale che
Non si comincerà mai a diffondere un nuovo simbolico del potere maschile se perlomeno non si comincerà a comprendere che la gerarchia patriarcale crea ruoli di potere, spazi di potere per quei ruoli, linguaggi di potere per giustificare e anche glorificare quegli spazi; e che poi questi spazi si replicano, si trasformano, si vendono e si comprano. L’ufficio del produttore che molesta ogni attrice è un territorio nel quale, come voleva Hefner, le donne non hanno alcun potere sul loro corpo che diventa ipso facto un arredamento per il piacere del padrone di casa. Intanto che un universo di segni e immagini mette in questione la donna che fa sesso per fare carriera – nascondendo nell’ordine delle cose l’uomo che usa la carriera per fare sesso – quel simbolico nella stanza passa per le case, gli autobus, le stazioni, le piazze, la rete delle web-cam senza che ci sia un discorso, un contro-simbolico, una pratica capaci di opporsi. Da ultimo infatti, in piena piazza, un uomo pretende di essere alla testa di un corteo di donne, pensando di non essere parte di quel potere che invece sta confermando spudoratamente. E quel simbolico allarga il territorio di disponibilità, sessuale e non, dei corpi femminili all’ovunque, con una sottile casistica e una precisa modulazione delle occasioni degna di accademie prestigiose. Invece, è ancora la normale educazione maschile, per la quale in pochi cerchiamo senza scuse un immaginario alternativo al pigiama, alla coniglietta, alla nostra stanza del potere.
Alternative?
Le alternative ci sono, ma vanno praticate o non diventeranno un nuovo simbolico ma rimarranno esercizi sterili. Il personale è politico, quindi ripensare il proprio linguaggio, analizzare le relazioni, criticare il potere patriarcale agito nei linguaggi e nelle relazioni, sono cose che vanno fatte nella propria vita quotidiana. Esempi, strumenti e linguaggi diversi che si possono utilizzare per mettere in pratica un altro simbolico ce ne sono.
Per me che sono uomo etero bianco occidentale filosofo ci sono due secoli di femminismi e studi di genere che dicono anche molto su di me, e che una cultura patriarcale e strumentale continua a nascondermi, a ostracizzare, a confondere con retoriche ipocrite; sta a me rendere possibile una traduzione per il corpo, l’esistenza, l’esperienza di tutto il mio genere. In più posso muovermi tra la storia di John Stuart Mill, gli strumenti genealogici e archivistici di Foucault, la fenomenologia di Merleau-Ponty, la lotta dentro il linguaggio naturale di Wittgenstein – una rassegna del tutto personale e occasionale – che sono possibili “attrezzi” con i quali impostare la continua critica al patriarcato vigente nel sistema sociale e nelle relazioni quotidiane intorno a me, al fine di rendere possibili spazi nei quali non vige la disparità patriarcale.
Per chi filosofo non è, i nomi per prendere riferimenti, immaginario e vocabolario non mancano: Andy Murray, Alan Alda, Eddie Vedder, Donald McPherson, Daniel Radcliffe, Aziz Ansari sono i nomi che vengono fuori a una banale ricerca in rete, e chissà quanti ce ne sono ancora – non è una battuta – e chissà perché è tanto difficile trovare esempi italiani – ecco, questa lo è. Ma il problema non è tanto trovarli: è ben più complesso rendere questi esempi parte di una educazione maschile che rifiuta la normalità vigente, e che sente la comune responsabilità di agire fuori da gerarchie di potere, oppressive per chiunque non sia un uomo eterosessuale, per riprendersi una identità non violenta e meno schiava di poteri che non ha scelto.
Una delle difficoltà più grandi lungo questa strada di liberazione per tutti gli uomini è la mancanza di un linguaggio, di un simbolico, di un immaginario disponibili, e per i quali la sola ironia verso i propri atteggiamenti patriarcali non basta. È un inizio, è probabilmente il migliore inizio possibile, ma non basterà per uscire dalle stanze arredate da Hefner.