Recensione di Valeria Mercandino
Un bellissimo progetto di autofinanziamento, portato avanti dalla casa editrice il Dito e la Luna, ha contribuito a colmare l’assenza di Audre Lorde in Italia: finalmente sono stati tradotti in italiano gli scritti politici di questa poeta femminista, che ha messo a tema il suo essere donna, Nera e lesbica grazie a un intenso lavoro di poesia e a una prosa densa e necessaria – di poco successiva è la pubblicazione, da parte di ETS, dell’autobiografia di Lorde, Zami. Così scrivo il mio nome.
Margherita Giacobino e Marta Giannello Guida, quali traduttrici e curatrici dell’opera, ci propongono un insieme ricco e articolato di riflessioni che coprono un arco di circa 10 anni – a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta – della vita e dell’attività politica di Lorde. Ad aprire e chiudere la raccolta, due diari di riflessione e testimonianza della sua lotta contro il cancro – I diari del cancro del 1978 e Un’esplosione di luce composto tra il 1984 e il 1986 – e in mezzo Sorella outsider, il testo politico più celebre di Lorde che affronta le principali tematiche della pensatrice in un vasto insieme di contributi, interventi pubblici e diari di viaggio che vanno dal 1976 al 1983; qui il fulcro della parola di Lorde è sempre l’azione politica, declinata nell’incontro con altre donne, femministe e non, Nere e bianche.
Il repertorio di Lorde è ricchissimo – il comunismo, la rivoluzione e il sadomasochismo; la nominazione e il riconoscimento; la relazione tra donne e uomini, la relazione tra donne e la razza; il lavoro, le condizioni materiali e la costruzione di una famiglia composta da due madri, una figlia e un figlio – e tuttavia l’articolazione dei contributi raccolti in questo volume ci pone di fronte a un pensiero che, dipanandosi nell’arco di diversi anni, resta fedele a se stesso e mostra la crescita di una pensatrice che snoda in modo sempre più consapevole alcune questioni cruciali.
La raccolta si apre e si chiude con il cancro come evento che inaugura una riflessione e un’azione sempre più profonde. Lorde già da tempo era un’attivista Nera (il maiuscolo segue la scelta dell’autrice), femminista e lesbica che ha lavorato per far vivere le tante anime che componevano la sua interiorità così come la sua intensa attività politica. Dal primo annuncio di un possibile cancro al seno, grazie alla scrittura cruda dei suoi diari, ci dona un’osservazione quotidiana sulla condizione contingente di una donna – questa donna – che si trova a combattere la propria battaglia per la vita. Perché se Lorde morirà nel 1992, per anni convive con un cancro che la disorienta, a volte la paralizza e spesso la spaventa, ma che non la vince mai del tutto, anzi le permette di mettere a fuoco, con una lucidità che lascia esterrefatte, le condizioni della sopravvivenza.
La sopravvivenza è un termine chiave in Lorde: è il termine che esprime la condizione di una donna che viene alla vita in un tempo e in un luogo in cui essere Nera ed essere donna sono buone ragioni per non venire al mondo affatto, e sopravvivere non è un dato di fatto scontato, ma un valore da difendere. A partire da questa esperienza, Lorde ci mostra come dalle violenze e dal disprezzo subiti non consegua necessariamente l’annichilimento, ma si possa declinare un proprio pensiero sulla vita, con scopi propri e propri mezzi per raggiungerli: “Il nostro lavoro di guerriere consiste nel sopravvivere attivamente e consapevolmente il più a lungo possibile, ricordando che per vincere, l’aggressore deve conquistare, ma chi resiste deve solo sopravvivere. La nostra battaglia sta nel definire la sopravvivenza in modi che siano per noi accettabili e ci diano nutrimento, ovvero possiedano sostanza e stile. Sostanza. Il nostro lavoro. Stile. Fedeli a noi stesse” (pp. 359-360).
Qualunque condizione di partenza – anche la più difficile – per Lorde può essere il primo passo per la liberazione e per l’affermazione di una vita propria. Se il nesso tra sopravvivenza e politica è essenziale – “Io mi salvo la vita mettendola a servizio di quel che va fatto” (p. 326) – la morte è la misura che guida Lorde in tutti questi testi: una condizione che ridimensiona e riarticola il qui e ora in cui siamo immersi, i nostri limiti così come le nostre capacità. Lo vediamo, ad esempio, nel modo in cui Lorde tratta il nodo della paura ne I diari del cancro. “Di che cosa mai avevo avuto paura? Sollevare questioni o parlare secondo quel che credo avrebbe potuto significare sofferenza, o morte” (p. 25). La paura dell’esposizione di sé – cifra delle ferite materiali e simboliche cui la vita espone –, viene superata e resa elemento di forza quando la morte entra nella vita, in quanto, ci dice Lorde, “ormai ricordo costantemente a me stessa che se avessi dovuto nascere muta, o avessi mantenuto per tutta la vita un voto di silenzio per stare al sicuro, avrei comunque sofferto, e morirei comunque. È un ottimo metodo per rimettere le cose nella giusta prospettiva” (p. 27). Riconoscere che quella stessa esposizione che ci terrorizza e paralizza è semplicemente l’altra faccia della medaglia del riconoscimento che le nostre relazioni e il mondo ci donano, e che la paura non ci protegge dalla vita, è l’unico modo per potenziarsi. “Non distogliere il viso dalla paura, ma usarla per alimentare il mio cammino lungo la strada che voglio fare. Se riesco a ricordarmi di fare il salto dall’impotenza all’azione, allora il lavoro usa la paura, svuotandola, e io mi ritrovo sfrenatamente potente” (p. 65).
Quello che ci mostra Audre Lorde è un esercizio continuo di esposizione, di annientamento della paura come emozione sovrana e di trasformazione alchemica di quella stessa paura in bussola che ci diriga dove c’è del vitale, fino a produrre la forza di stare su quelmargine dal quale si può fare quel che va fatto, dire quel che va detto. Quel che va detto prende la forma della nominazione che è frutto di un’indagine attenta dei propri desideri, della propria collocazione e di quel che è necessario fare per agire a partire da essa. La nominazione, per Lorde, è il gesto essenziale per trasformare se stesse, chi ascolta, e così il mondo. Essa possiede la forza esplosiva di parole come queste: “Forse per alcune di voi oggi, io sono la faccia di una delle vostre paure. Perché sono donna, perché sono Nera, perché sono lesbica, perché sono me stessa, una donna Nera guerriera poeta che fa il suo lavoro, che è venuta a chiedervi, state facendo il vostro?” (p. 26).
Altrettanto dirompente è l’attenzione dedicata alla rabbia come emozione paralizzante: in Sorella outsider, Lorde esamina i rapporti tra donne Nere inserendoli nel più ampio contesto del dominio bianco e degli effetti che esso produce nei rapporti all’interno della comunità Nera, in particolare della distruzione che produce tra donne: “La rabbia che scaglio contro l’altra donna Nera non appena devia anche di pochissimo dal mio immediato bisogno o desiderio o concetto di risposta appropriata è una rabbia profonda e dolorosa, scelta solo per disperazione – e resa avventata dalla disperazione. Quella rabbia che maschera il mio dolore perché siamo così separate, noi che dovremmo essere insieme – il mio dolore – che lei forse non ha così bisogno di me quanto io ne ho di lei, o che lei possa guardarmi attraverso l’occhio che io conosco così bene dall’immagine distorta che io stessa ho di lei. Cancella o sii cancellata!” (p. 233).
La differenza è un altro tema molto caro a Lorde, fondamentale per comprendere chi si è e come il proprio sé si relazioni con il mondo: per comprendere le differenze tra sé e l’esterno, che si fa così tanta fatica a capire e ad accettare, è necessario comprendere prima di tutto le differenze dentro di sé. Lorde parla di “miriadi di sé” (p.30), di una miriade di differenze, di identità che la costituiscono: senza dare spazio e voce, esistenza simbolica e materiale a ognuna di esse, ci si comprende e si vive solo a metà. Se Lorde è consapevole che di questa differenza interna ed esterna, a partire da cui lei si percepisce, si può morire, sa anche di poter vivere. Il lavoro da fare è doppio: da una parte, una fortissima centratura su di sé, uno scavo continuo e in profondità, alla ricerca della “sola traduzione di cui possa fidarmi” (p. 31), la propria, che le fa dire che “finché ogni donna non avrà ripercorso all’indietro la sua trama, filo dopo filo insanguinato e autoreferenziale, non potremo cominciare a cambiare l’intero disegno” (p. 31); dall’altra parte, la consapevolezza che il suo essere sempre nella posizione della differenza non la può esimere dal cercare un “ponte che avvicini quelle differenze” che altrimenti la allontanerebbero definitivamente dalle altre donne: “sono definita come altra in ogni gruppo di cui faccio parte. L’outsider, una forza e una debolezza. Eppure senza comunità non c’è sicuramente né liberazione, né futuro, ma solo il più vulnerabile e temporaneo armistizio tra me e la mia oppressione” (p. 32). La differenza non significa l’isolamento, il margine deve trovare una relazione con il centro. Quella comunità di cui abbiamo bisogno non è segnata dall’identità e dall’appartenenza, ma dal mondo da costruire che abbiamo in comune: ognuna analizzando la propria posizione può prendere “in esame la sua funzione in quella trasformazione, e […] [riconoscere] il proprio ruolo come vitale all’interno della trasformazione stessa” (p. 27).
Lorde parla a partire da sé, da una condizione specifica di chi nasce e vive in un paese che mostra continuamente il suo volto sanguinario e feroce – gli Stati Uniti, nella voce di Lorde, sono sempre nominati come un ‘drago’ che inghiotte senza remore: ci riporta alla dura realtà delle esecuzioni sommarie di donne anziane, di giovani uomini che hanno in comune l’essere semplicemente loro stessi: persone di colore. La questione della nerezza e del razzismo non bloccano Lorde in retroguardia, non le fanno dimenticare di essere, oltre che Nera, una donna, lesbica e femminista. Senza remore denuncia gli stupri che donne Nere, a volte bambine, subiscono per mano di uomini Neri che non riescono a comprendere e dirigere la loro rabbia contro un sistema che li vuole appiattiti e isolati, che vive di quella virilità (auto)distruttiva. Altrettanto è messa a tema la separazione tra donne bianche e donne Nere e tra donne Nere eterosessuali e lesbiche: se la politica elabora e realizza i propri obiettivi dentro una visione unitaria che rimuove le differenze, il risultato sarà tanto falso quanto violento e irrealizzabile. Questo è ciò che Lorde esprime con forza quando apre il dialogo con donne Nere sopraffatte dall’omofobia e dal riferimento all’uomo per la loro vita e la loro politica – un’omofobia che “è uno spreco di energia femminile, e mette nelle mani dei vostri nemici un’arma terribile da usare contro di voi per farvi stare zitte, per mantenervi docili e in riga. Serve anche a mantenere noi tutte isolate e separate” (p. 296). Allo stesso modo, nella lettera aperta a Mary Daly, Lorde incita la femminista statunitense bianca a considerare la voce delle donne Nere come contigua ma differente, insistendo, così, sulla questione spinosa dell’intersezionalità, che oggi anche in Italia sta prendendo finalmente piede in modo consistente, grazie anche a pubblicazioni come questa. Perché “se il movimento delle donne bianche non impara dai propri errori, come qualunque altro movimento finirà col morirne” (p. 330).
Quel che Lorde dipinge è un quadro che, se è incorniciato in un contesto unico e particolare, parla a tutte e tutti noi. Parla della relazione tra donne e uomini, che implica proprio tutte e tutti come abitanti di questo mondo e come stretti in una rete inestricabile di relazioni che non si può risolvere con l’annientamento, né del pensiero né del corpo, di nessuna delle sue parti (Sessismo: il volto Nero di una malattia americana, Uomo-bambino: la risposta di una femminista lesbica Nera); parla di relazioni tra donne, tanto generative e potenzianti – quando viene riconosciuto il loro valore e la responsabilità cui ognuna è chiamata –, quanto distruttive e mortifere – quando non si può guardare l’altra perché i suoi occhi ci restituiscono un’immagine di noi stesse che non vogliamo vedere, quella differenza che ci riguarda ma da cui vogliamo fuggire (Graffiare la superficie: appunti sulle barriere tra le donne e l’amore, Usi dell’erotico: l’erotico come potere, Un’intervista: Audre Lorde e Adrienne Rich, Guardarsi negli occhi: Donne Nere, Odio e Rabbia, Sono tua sorella: donne Nere di diverse sessualità si organizzano).
Innumerevoli altri i passaggi che dovrebbero essere nominati, tanta è l’urgenza di questo testo che fa di Lorde, oggi, per noi, una pensatrice essenziale. Una femminista senza peli sulla lingua, che ha tratto dalla sua esperienza diretta quel sapere che le permette di pronunciare le parole esatte per nominare situazioni, differenze e conflitti; parole senza le quali – lei ne è convinta, e noi con lei – non si compie un vero cambiamento, parole che richiedono uno sforzo e una forza in più; parole, infine, di cui la politica generalmente tende a non farsi carico, ingombra com’è di quei rimossi che lasciano lentamente inghiottiti dall’ombra idee rivoluzionarie, cambiamento, progetti, gruppi, soggettività. Sono tanti gli argomenti a cui Lorde ci richiama per un riesame e una rielaborazione: la relazione tra uomini e donne, tra donne bianche e Nere, tra lesbiche ed eterosessuali, le condizioni materiali, il personale è politico, il partire da sé, la sessualità, l’intersezionalità, la morte. Ci richiama a queste riflessioni sempre a partire dal suo esempio e dalla sua esperienza, che ne fanno una maestra di vita e di forza oltre che di pensiero.