Da sempre segnato dall’ambivalenza, il rapporto con il lavoro si sostanzia, da un lato, nella condanna biblica al “travaglio”, al sudore della fronte necessario per assicurarsi la sopravvivenza; dall’altro, secoli di elaborazione e di azione collettiva hanno saputo creare un sistema di diritti e di doveri, in cui si sprigionano anche elementi di soggettività libera, di libera espressione di sé. Non a caso, in questi tempi di selvaggia ristrutturazione capitalistica, nel potere domina l’idea di asservimento e di annichilimento da esercitare nei confronti di chi, alle prese con la ricerca di lavoro, con il lavoro che non c’è o che c’è, prigioniero del precariato e del ricatto occupazionale e della solitudine, è maggiormente soggetto/soggetta al silenzio. Dategli da faticare impauriti per cercare il pane, così alle rose – alla partecipazione politica, alla discussione, alla lettura, allo studio, alla relazione – non penseranno certo.
Il lavoro che, quando c’è, si prende la vita e pervade l’esistenza umana: il lavoro da cui liberarsi, il lavoro in cui ri-conoscersi. A questo proposito, Hannah Arendt riconobbe in Marx una forte ambivalenza, tra l’idea classica di uomo libero come uomo sgravato dal lavoro e l’esperienza della sua contemporaneità, che vedeva possibilità di liberazione e di riscatto nel lavoro stesso.
Un’ambivalenza che, ripeto, ci portiamo dietro. Per quanto mi riguarda, riconosco nel lavoro un insieme di rapporti dinamici, in cui poter esprimere la propria soggettività; ma, anche, un sistema di potere, di gerarchia, di possibile sudditanza, quando non di ricatto. Non ultimo, nella generazione dell’emancipazione femminile il lavoro è stato vissuto come fonte di autonomia e di realizzazione dell’emancipazione stessa, permettendo di uscire dallo stato di minorità economica.
Credo che nel lavoro si declini la possibilità di sviluppare aspetti relazionali importanti: per questo, è vitale una sua organizzazione non molecolare e non parcellizzata, come invece la ristrutturazione capitalistica sta imponendo. La fabbrica novecentesca è stata cellula di ribellione e di lotta, ma perché campo di creatività relazionale.
La mia unica appartenenza strutturata in una realtà mista è, da tempo, la CGIL, alla quale riconosco ancora un grande valore, della quale mal tollero gli aspetti burocratici, con il rischio di blocco della libera espressione soggettiva delle lavoratrici e dei lavoratori. Ancora prevale, penso, la capacità di verità, di materialità, di sapere dei corpi pensanti: ma la strada è irta, e la porta è sempre più stretta.
Non mi interessa lo schieramento, mi interessano la relazione e la possibilità di agire il conflitto in termini non distruttivi: per questi motivi, non ho trovato interesse, nel percorso dell’ultimo congresso della CGIL (congressi aziendali, provinciali, regionali etc.., di categoria e generali), a schierarmi con una tesi o l’altra, bensì ho trovato senso nel tentativo di declinare in modo più aderente alla realtà la parte che, nelle tesi del documento di maggioranza Camusso-Landini (il documento di minoranza non recava ragionamenti espliciti in tal senso) era intitolata “Azione 9 – LIBERTÀ DELLE DONNE. Contro il femminicidio e ogni tipo di violenza”. Ho discusso di questo con alcune compagne del mio luogo d lavoro e abbiamo convenuto che fosse povera di senso una riflessione “sulle donne”, anzi sulla “libertà delle donne”, che incentrasse il discorso sulla violenza, tema gravissimo, ma non certo, per fortuna, in grado di esaurire i campo di esistenza femminile. È nato, quindi, l’emendamento che segue:
“Il mondo in cui viviamo, donne e uomini, ha bisogno di cura. Intendiamo per “cura” quella sapienza e quella competenza che fanno “l’insieme delle microattività che costituiscono l’architettura della vita”, tra “le poche capaci di dare un senso all’esistenza”.
Per parafrasare il titolo di un libro, le donne imparano, sbagliano, vivono. Si prendono cura delle relazioni e degli affetti, dei corpi e dei sentimenti, e lo fanno anche con gioia, anche con fatica, sicuramente con maestria. È quel “di più” che neppure la migliore organizzazione sociale, i migliori servizi, il miglior welfare (e sappiamo quanto oggi ne siamo lontane e lontani) possono dare. È la competenza che tiene insieme le relazioni familiari, amicali, sociali; è il lavoro del “fare relazione, disegnare connessioni, tessere mediazioni”.
Ma la attenta e sapiente competenza femminile sulla cura non deve essere un pretesto per confinare questa azione in una sorta di welfare sostitutivo dei servizi pubblici (nidi, scuole d’infanzia, case di riposo, ospedali), per ridurre o eliminare l’impiego pubblico di risorse in tali servizi.
E non deve essere uno sgravio alla ricerca collettiva di un “buon modo di lavorare”, facendo conto su una organizzazione del lavoro in cui alle donne è affidata (come sempre di più accade) la capacità di gestione della complessità e dell’imprevisto.
E la capacità di flessibilità e di responsabilità femminile non deve diventare pretesto per affermare modelli di lavoro frustranti, insostenibili, incapaci di assicurare una progettualità di vita. Essere flessibili e responsabili non vuol dire e non deve voler dire essere sfruttate e sfruttati, schiave e schiavi.
Crediamo che sia necessaria un nuova pratica di conciliazione tra vita e lavoro, o ricerca di lavoro, che passi necessariamente “attraverso una profonda revisione culturale, un vero e proprio scatto paradigmatico che vede coinvolti entrambi i generi verso la costruzione di un nuovo patto sociale”.
Dopo il congresso aziendale, in cui è stato discusso e votato, lo abbiamo “liberato” per un suo viaggio, che è approdato al congresso nazionale della Funzione pubblica CGIL.
Ho conquistato, nel lavoro e con il lavoro, la “coscienza di sfruttata”, ma anche il senso della materialità in cui il lavoro è inscritto; materialità che, per essere compresa, ha bisogno di dati orientati. È il senso che ho trovato nella partecipazione ad un progetto della mia amministrazione, cioè lo studio, la progettazione e la predisposizione del Bilancio di genere della Provincia di Livorno, riferito all’annualità 2012.
Vi si afferma che “nessuna politica è, per così dire, neutrale in termini di genere, nemmeno quella che più di altre sembra non produrre alcuna influenza sulle differenze tra donne e uomini […] Se esaminiamo l’art. 3 della Costituzione italiana (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”), si nota che compare l’espressione “di fatto”. Essa fu fortemente voluta dalla deputata costituente Teresa Mattei, per segnalare che, pur in una situazione normativa in cui l’uguaglianza e le pari opportunità fossero state sancite per legge, l’applicazione fattuale e la realtà sociale consolidata avrebbero potuto vanificare l’opera del legislatore […]”.
Non è neutrale, ad esempio, scoprire, attraverso i dati “di fatto”, che, ad una forte prevalenza percentuale del tasso di bocciatura scolastica per i maschi e, viceversa, ad un risultato notevolmente superiore delle femmine nel caso di immatricolazioni universitarie e di conseguimento della laurea, si affianchi una situazione per cui “dai dati in serie storica della rilevazione Istat sulle forze di lavoro, si può notare un aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro […], ma anche il permanere di una netta forbice di genere di oltre 15 punti percentuali. Forbice che si allarga ancor più (18%) in relazione al tasso di occupazione […]”. Ne consegue che “molti impieghi femminili sono di natura precaria (temporanei, stagionali, part time), perché sempre più è necessario per le donne poter effettuare una organizzazione serrata tra tempi di lavoro e tempi di vita, in una economia sociale che ancora fonda la sua esistenza su una base femminile che supporta il sistema. Proprio da tale differenza di stabilità e durata dell’orario e delle modalità di lavoro nasce anche la sostanziale differenza retributiva riscontrabile ancora oggi tra i due generi, sia in termini di lavoro dipendente che, ovviamente, in termini pensionistici”.
Il mio punto di vista, che non è paritario, assume però come forte segno di ingiustizia sociale l’esistenza di una realtà in cui le donne studiano meglio e di più, ma lavorano meno e guadagnano meno degli uomini.
In conclusione, ho cercato di fornire due esempi di come, anche in contesti “neutro-maschili” (Cavarero), sia possibile un lavoro sensato di riflessione e di azione libera.
Giugno 2014