di Giuseppe Burgio.
Molto si è detto e scritto sulla misoginia, sul controllo maschile delle donne e del loro corpo, sulla rappresentazione del femminile come anomalia del genere umano, come base per fondare il maschile[1]. Per Luce Irigaray, questa disposizione mentale affonda le sue radici e trova la sua base nel modo in cui pensiamo. Quello occidentale sarebbe cioè un pensiero dualistico in cui ciascun elemento si definisce in opposizione ad un altro, che rappresenta il limite negativo del primo: ordine e disordine, bene e male, vero e falso, essere e non-essere; ciascuno dei due termini non può esistere senza l’altro ma è sempre il primo termine ad essere più forte, a definire l’orizzonte di senso e le regole del gioco[2]. Il secondo elemento è il contrario, la negazione, la contestazione del primo (che così viene riaffermato), e ha sempre una connotazione negativa: dis-parità, dis-grazia, disomogeneità, ecc. Ma la più classica delle dicotomie è, chiaramente, quella maschio-femmina.
Anche la donna quindi è “mancanza” rispetto all’uomo, fase imperfetta di un modello che prevede un unico sesso: Galeno e Sorano pensavano i genitali femminili come genitali maschili non del tutto sviluppatisi e, quindi, la donna come un quasi-uomo (il maschio imperfetto di Aristotele[3]), per arrivare a Freud e al tema della donna come uomo castrato e della conseguente invidia del pene. Il dominio dell’uomo sulla donna si annida insomma nelle strutture stesse del nostro pensiero, il quale, al tempo stesso, rappresenta e legittima un ordine sociale. Questa asimmetria, questo rapporto pieno/vuoto non appare diverso dalla dinamica sottesa ad un rapporto sessuale fallocratico: un “fottere” qualcuno (in tutto il vasto spettro semantico del verbo: penetrare, imbrogliare, derubare…) piuttosto che un “unirsi a” qualcuno/a.
Proprio la metafora sessuale permette di passare ad un’altra asimmetria simbolica presente nella nostra società. Recente è infatti l’analisi del legame esistente tra l’oppressione delle donne e quella degli omosessuali, all’interno di un sistema di pensiero che Butler così sintetizza: una persona è il proprio genere sessuale (gender) nella misura in cui non è l’altro genere, all’interno di una coppia binaria; la coerenza interna del genere, sia esso maschile o femminile, richiede un’eterosessualità stabile e oppositiva poiché il maschile è differenziato dal femminile attraverso il desiderio eterosessuale[4]. All’interno di questo sistema, sono potenzialmente vissute come minacciose le pratiche femministe che esprimono la libertà femminile al di là della tradizionale complementarità col maschile[5], ma anche “alcuni tipi di comportamenti e atteggiamenti omosessuali maschili possono essere visti come tentativi di modificare gli abituali rapporti tra mascolinità e potere, il che rappresenta forse una delle ragioni per cui gli omosessuali sono considerati una minaccia dalla comunità dei «normali»”[6]. L’omosessuale rappresenta insomma, accanto alla donna, il contraltare simbolico della virilità[7].
In questa direzione, appare curioso solo ad un primo sguardo il fatto che all’omosessuale sia stato storicamente accostato anche l’ebreo quando, sul finire dell’Ottocento[8] sia l’uno sia l’altro erano, secondo Mosse, considerati estranei alla composizione organica della virilità[9]. Sullo stesso piano si pose Otto Weininger che, nel suo lettissimo Sesso e carattere, accomunava gli ebrei alle donne perché incapaci di controllare le passioni[10]. È poi nel XX secolo che, in maniera compiuta, gli ebrei, così come gli omosessuali e le donne, occupano il polo svantaggiato di una dicotomia che li contrappone alla concezione socialmente condivisa di virilità. La strutturazione della maschilità normale, oltre che di misoginia e omofobia, si è colorata infatti, per il tramite storico del nazionalismo, anche di razzismo verso gli ebrei, definiti come non virili[11]. Ma quale legame può esserci tra donne, ebrei e omosessuali, quel legame che l’analisi di Hans Mayer[12] individuava nelle letterature europee?
La misoginia è molto antica, così come plurisecolare è l’antisemitismo o l’omofobia. Ma è nel sanguinoso ‘900, secolo dei nazionalismi, che questi tre movimenti raggiungono compimento e maturità attraverso la loro sinergia. Quello che infatti colpisce nei nazionalismi totalitari del secolo scorso non è tanto l’antisemitismo, la misoginia e l’omofobia presi in sé ma il fatto che si presentassero insieme. Proprio il reciproco collegamento tra questi tre elementi, storicamente alla base dell’ideologia nazifascista, sembra costituire una spia importante, un argomento degno di approfondimento. Perché queste tre forme di odio e disprezzo sono collegate? E in che relazione sono col nazionalismo?
Per Benadusi, i nazionalismi del Novecento hanno stretto un legame tra sessualità e razzismo che portava sia ad attribuire alle cosiddette razze inferiori anche una diversità sessuale, sia a considerare come una razza a parte coloro che avevano una sessualità difforme dalla norma[13]. Ma questa attribuzione simbolica si è concentrata prioritariamente sugli uomini, sulla rappresentazione devirilizzata di ebrei e omosessuali, colpendo le donne in maniera indiretta. Il discorso nazionalista adotta infatti come modello il Bund, il legame tra uomini uguali che sentono come estraneità, che potrebbe minacciare il loro sodalizio, tutto ciò che rappresenta la non-virilità. E individuando come base etnica e razziale della nazione la communitas dei maschi[14], con lo stesso movimento che escludeva da tale base ebrei e omosessuali, si riaffermava di fatto la condizione sociale inferiore riservata alle donne, dando per scontata la loro esclusione naturale dal Bund. Associare ebrei e omosessuali al femminile rendeva cioè al contempo ovvia l’alterità femminile rispetto al fondamento della nazione: l’uomo. L’esperimento dei fascismi europei è infatti attraversato non solo da un progetto di società nuova ma da un modello prescrittivo di uomo, intendendo con questo termine non gli esseri umani ma proprio i maschi, gli esseri umani per eccellenza. Voglio insomma dire che “il totalitarismo era un metodo e non una meta”[15]: la meta era l’uomo nuovo.
Letta in questo modo, la sintesi totalitaria di antisemitismo, misoginia e omofobia sarebbe allora – è la mia posizione – espressione tragica di quella crisi del simbolico maschile che a partire dall’Ottocento e fino ad oggi, non ha trovato soluzioni ma solo trasformazioni. Ma di quale simbolico parlo? Di quale crisi? Che legame c’è tra il maschile e il nazionalismo?
Già a partire dalle guerre napoleoniche “gli eserciti dei cittadini sostituirono quelli di mestiere, come accadde in Inghilterra e in Germania, dove moltissimi volontari delle classi medie seguirono la propria bandiera, mossi dall’attaccamento alla nazione e dal desiderio di mettere alla prova la propria virilità. Questo fenomeno senza precedenti assicurò un posto preminente all’ideale della mascolinità nell’immagine che di se stessa veniva costruendo la borghesia proprio nel momento decisivo della sua affermazione sociale”[16]. La borghesia costruisce così, assieme allo stato-nazione, una forma cristallizzata di virilità connessa al nuovo ideale di rispettabilità che essa elabora. In questo movimento, lo stereotipo maschile nazionale e quello della classe media diventano identici[17], ponendosi col tempo come modello per tutte le classi sociali. In questo contesto il fondamento della nazione diventa la virilità, l’uomo vero. Per individuarlo chiaramente bisognava però denunciarne le versioni false e prive di valore: innanzitutto la donna. E, accanto al femminile, le altre forme di nonvirilità. Se l’omofobia è antica, solo nel XIX secolo, la medicalizzazione dell’omosessualità aveva bloccato in un ruolo fisso l’omosessuale: la sua anormalità non si limitava più solo all’attività sessuale ma, in parte, anche al temperamento, all’aspetto e alla struttura corporea[18]. In contemporanea con questi cambiamenti, verso la fine del secolo XIX, un po’ in tutta Europa le leggi contro l’omosessualità vennero inasprite[19]. Ma quello della virilità non è un discorso esclusivamente sessuale.
La forma corretta di maschilità borghese nazionale si costruì attraverso diversi modelli paradigmatici del non-virile collegati l’uno all’altro: ecco perché piano piano, lungo tutto il secolo XIX, “agli omosessuali, come agli ebrei, erano attribuite, dai loro persecutori, tutte le caratteristiche morali e fisiche di una razza”[20]. Il discorso sulla razza nasce insomma assieme al nazionalismo e al discorso sulla virilità. Così una religione (l’ebraismo) e un orientamento sessuale (l’omosessualità) vengono rappresentati in termini razziali, e accomunati al femminile nella loro contrapposizione alla maschilità. Si giunge così al XX secolo e al nazifascismo, che è solo il punto culminante di un’evoluzione del concetto di virilità che, come si è visto, si era iniziato a sviluppare molto prima[21]. Ma quali sono le caratteristiche del discorso nazifascista sulla maschilità?
Il nazismo, negando le sfumature omoerotiche che pure erano ambiguamente connesse all’omogeneità maschile del Bund, accomunò ancora maggiormente omosessualità e femminilità: l’omosessualità non era considerata in sé ma (almeno dopo il cruento scioglimento delle S.A. di Ernst Röhm) esclusivamente come assenza di virilità e, esattamente come l’essere donna, posta al di fuori del maschile. Di fatto, per Mosse, “lo stretto rapporto esistente tra la persecuzione degli omosessuali e lo sforzo di mantenere la divisione del lavoro tra i sessi fu dimostrato quando allo stesso nucleo che combatteva l’omosessualità fu attribuito anche l’incarico di procedere contro i casi di aborto”[22]. Il nazismo perseguitava insomma (oltre agli ebrei) quei comportamenti che non corrispondevano ad un ruolo eterosessuale attivo per gli uomini[23] e ad una complementare sottomissione riproduttiva per le donne.
Il collegamento tra omosessualità e femminilità era operante anche in Italia dove però “il fascismo nella sostanza non puniva gli omosessuali, ma chi aveva atteggiamenti femminili, aderendo così senza riserve a un’immagine della donna di per sé considerata inferiore a quella maschile. Non a caso, solitamente i pederasti attivi e gli omosessuali con aspetto virile venivano tollerati o quanto meno non perseguitati; mentre la repressione era diretta soprattutto contro i pederasti passivi, perché erano coloro che assumevano il ruolo proprio della donna”[24]. Se in Italia la persecuzione di ebrei e omosessuali ha avuto dimensioni meno drammatiche che in Germania, paragonabile se non superiore è stato lo sforzo di costruzione della maschilità, condizionato dalla concezione mediterranea del maschile: per Mussolini la donna aveva come unico compito l’essere bella[25] e nel fascismo “la mascolinità si esprimeva nel «disprezzo della donna», ridotta a semplice strumento di piacere, e nell’arte della seduzione, per aggiungere sempre nuove conquiste e dare pieno sfogo ai sensi e alla voluttà”[26]. La rappresentazione ideologica consisteva in “un’immagine dell’uomo come una persona brutale, sempre in preda alla passione, con un costante accostamento tra aggressività e mascolinità, tra capacità militare e sessuale”[27]. Tutto andava bene finché veniva mantenuta intatta questa rappresentazione e riservato all’uomo un posto simbolico preminente. La posta in gioco insomma non erano le donne, né l’omosessualità, ma il mantenimento di una gerarchia che contrapponeva il maschile al non-maschile: semplificando, le donne erano lasciate in pace finché non volevano essere autonome o dirigere un’impresa, gli omosessuali finché non volevano rendere visibili se stessi e pubbliche le loro relazioni. Queste cose venivano sentite infatti non come espressioni di libertà ma come ribaltamento della gerarchia, come il voler riprodurre, da parte dello schiavo, il gesto del padrone.
Il discorso nazifascista che contrapponeva razze superiori a razze inferiori era anche un dispositivo complesso che contrapponeva gli uomini superiori a uomini inferiori (gli ebrei), a non uomini (gli omosessuali), alle donne. Coerente a questa impostazione è il culto alla sana, vera maschilità che il fascismo tributò attraverso la rappresentazione della virilità del Duce, l’erezione di obelischi e fasci littori, una statuaria che esaltava il corpo maschile nudo e muscoloso. La risposta del fascismo al dato di fatto che esistevano donne, omosessuali e razze inferiori consistette in un’esaltazione della maschilità, come un adolescente che si compiaccia della propria erezione. Il nesso simbolico fu costituito dal fatto che il dominio militare sull’Altro prese forma sessuale, così come l’attività sessuale adottò una grammatica militare: “in seguito all’inesorabile meccanizzazione della guerra, all’interrelazione tra uomini e macchine, cominciò a emergere un nuovo stereotipo marziale […]; con questi soldati […] la virilità superava se stessa. Tale esuberanza implicava non la repressione della sessualità, ma un suo nuovo orientamento: le truppe d’assalto sprigionavano una carica erotica virile quando si scontravano con il nemico. […] La sensazione di estasi provata mentre la baionetta penetra nella carne bianca di un soldato francese o inglese somiglia a un orgasmo; quando la battaglia è finita, la truppa d’assalto, ormai placata, lascia dietro di sé i letti disfatti delle trincee. In questo caso, l’aggressività è alimentata dalla furia libidinosa; il soldato […] può sfogare i propri bisogni sessuali, quasi nella stessa maniera, sul nemico in battaglia e sulla donna a battaglia finita”[28].
La supremazia della razza eletta, dell’uomo superiore, si esplicita contrapponendosi alla donna oggetto, all’omosessuale passivo, all’ebreo tremante e implorante, al nemico ormai inerme. Una efficace rappresentazione artistica di questo atteggiamento mentale è stata realizzata da Pasolini in “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, ispirato ai fatti reali commessi da quel reparto di torturatori della polizia fascista detto la “banda Koch”[29]. Ma questo modello di maschilità non è esclusivo dei totalitarismi. La costruzione nazionalistica, esaltata nei conflitti bellici, favorisce il fiorire di questo modello un po’ in tutt’Europa. La superiorità del maschio si esprime allora penetrando a forza, in maniera sessuale o militare. La storica britannica Bourke ha analizzato varie testimonianze dell’esperienza bellica fornite dai soldati, evidenziando connotazioni inquietanti. Un militare della prima guerra mondiale ha raccontato che infilzare un tedesco con la baionetta fu un magnifico godimento; per un altro uccidere era come “andare a donne per la prima volta”[30]. Nelle grandi carneficine belliche è insomma attraverso il tramite del piacere che si è evidenziato un legame tra la violenza e quella concezione normativa della maschilità costruita dai nazionalismi nel XIX e nel XX secolo. Ma perché il piacere? Qual è il legame tra violenza, piacere e virilità?
Oggi le dittature nazifasciste non ci sono più, così come superato è il XX secolo, ma questa concezione di una virilità dominatrice appare tutt’altro che morta. Essa ad esempio è ancora presente all’interno della produzione pornografica, un ambito eminentemente maschile (praticamente non esiste una pornografia per donne e i fruitori del genere sono quasi esclusivamente maschi[31]) e fallocratico. Potrebbe essere questo tipo di piacere erotico visuale a fornire la connessione tra virilità e violenza visto che, secondo Galtung “difficilmente è stato per caso che durante la Guerra del Golfo[32] i piloti (maschi) dei bombardieri Usa sulla Uss Kennedy, prima di partire per i loro raid finalizzati alla distruzione di bersagli militari e civili e all’uccisione di soldati e civili, guardassero video pornografici”[33]. Ancora, concorda Morgan, “se lo stupro come premio o bottino di guerra non è certo un fatto nuovo nella storia dei conflitti […], con la carneficina genocida nella ex Iugoslavia il concetto di stupro si modifica e la violenza sessuale contro le donne si legittima come arma d’offesa. È dunque solo una coincidenza che i soldati serbo-bosniaci tappezzassero i loro carri armati di immagini pornografiche improntate di sadismo?”[34]. L’immaginario erotico maschile rappresentato in certa produzione pornografica sembra insomma poter avere, tra le sue funzioni, anche quella di cinghia di trasmissione tra il piacere e l’esercizio della violenza. Tuttavia, se possiamo dire che l’accostamento tra piacere e dominio (di cui la violenza è espressione massima) è certo una possibilità del desiderio maschile[35], perché tale accostamento si strutturi è però, a mio avviso, necessario un preciso statuto simbolico della maschilità[36] che si è costruito nel tempo, all’interno di dinamiche complesse, e di cui alcuni prodotti pornografici forniscono solo un esempio.
Il problema pertanto non sono gli uomini né una loro presunta sessualità dominatrice e oppressiva: la violenza si accompagna agli uomini in quanto effetto di una costruzione della maschilità basata, almeno a partire dai nazionalismi degli ultimi due secoli, sulla figura dell’eroe guerriero, un modello di virilità fissato attraverso una serie di narrazioni di gesta di violente conquiste territoriali e sessuali[37]. La guerra, iperbole della violenza, è cioè simbolicamente un luogo critico della costruzione del maschile: non solo essa è un monopolio maschile, ma è spesso servita a definire la virilità stessa[38]. Nella narrazione dell’eroe, insomma, “la guerra e la virilità aggressiva sono due istanze culturali che si rinforzano a vicenda: per fare la guerra occorrono guerrieri, cioè «veri uomini», e per fare dei guerrieri occorre la guerra”[39]. E la guerra che ha come posta in palio la virilità, e che non si limita alle trincee, non è mai finita.
Non molto diversa da una battaglia appare la guerriglia dei tifosi fuori dagli stadi di calcio: adolescenti e giovani maschi che sulla base di un’appartenenza ad un gruppo di pari, omogeneamente maschile, e di fedeltà a simboli e valori, sono pronti a combattere contro un altro gruppo dalle caratteristiche simili, all’interno di una logica a somma zero che ha bisogno di un perdente per innalzare il vincitore. Sembra ancora oggi questo il modello di maschilità di molti ragazzi e connesso ad esso potrebbe essere anche il bullismo scolastico ai danni di appartenenti a gruppi socialmente svalorizzati (come le persone grasse, quelle in situazione di handicap, le ragazze, gli omosessuali e gli appartenenti a minoranze etniche). È infatti assodato che, in tutti i paesi, negli episodi di bullismo, gli aggressori sono principalmente maschi e maggiore risulta l’aggressività fisica e verbale se maschi sono entrambi i soggetti coinvolti nella prevaricazione[40].
Questi dati sembrerebbero cioè supportare l’ipotesi che definisce il bullismo un affare prettamente maschile[41] che potrebbe avere origine nelle dinamiche intrapsichiche, relative alla costruzione dell’appartenenza sessuale, caratteristiche dell’adolescenza[42]. Se quanto detto ha un senso, oggi, archiviato il XX secolo, ogni compiacimento maschile per buchi, erezioni e penetrazioni, ogni rivendicazione di una dinamica rigida attivo/passivo, vincitore/vinto, penetratore/penetrato, non può non apparire come possibile spia di un simbolico virile che esprime se stesso non in positivo ma, sempre potenzialmente, alzando la voce contro l’altro da sé. Dopo le denuncie e lo svelamento simbolico operato dal movimento femminista e da quello glbt, appare potenzialmente inquietante, al di fuori dell’adolescenza, ogni compiacimento fallocratico, specialmente se condito di scarso rispetto nei riguardi delle sofferenze patite dagli ebrei durante il nazifascismo, della reificazione del corpo femminile, di omofobia. Certo col tempo molto va cambiando ma il concetto di una virilità dominatrice è ancora persistente, e forse solo l’immagine tradizionale della donna sta cedendo il posto, per quanto non senza difficoltà, a un ideale più dinamico. Tocca quindi ora agli uomini costruire un nuovo modello di maschilità che sappia darsi valore di per sé e non attraverso il disprezzo del non-maschile, che acquisisca una gioia positiva della propria sessualità senza bisogno dei fantasmi del dominio. Accettare questa sfida non è facile perché una virilità non più fallocratica si può dare solo nel confronto adulto, sereno e responsabile con il femminile, con la maschilità omosessuale, con gli uomini che sentiamo stranieri, siano essi gli ebrei di ieri o i migranti di oggi. La tentazione di rifugiarsi in un anacronistico superomismo può essere superata accettando con consapevolezza di essere uomini, semplicemente uomini.
[2] L. Irigaray, Parlare non è mai neutro, Editori Riuniti, Roma 1991
[3] Cfr. S. Campese – P. Manuli – G. Sissa, Madre Materia. Sociologia e biologia della donna greca, Boringhieri, Torino 1983.
[4] J. Butler, Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Sansoni, Milano 2004, pp. 29-30.
[5] Cfr. A. Giddens, La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, il Mulino, Bologna 1995, pp. 130-3.
[6] A. Giddens, Sociologia, il Mulino, Bologna 1994, p. 204.
[7] In tutto l’articolo intenderò per maschilità la condizione socioculturale reale dell’essere uomini, per virilità la rappresentazione ideologica di tale condizione.
[8] G.L. Mosse, L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna, Einaudi, Torino 1997, p. 90.
[9] Ivi, p. 83.
[10] O. Weininger, Sesso e carattere, Edizioni Mediterranee, Roma 1997.
[11] Cfr. S. Bellassai, Il maschile, l’invisibile parzialità, in E. Porzio Serravalle (a cura di), Saperi e libertà. Maschile e femminile nei libri, nella scuola e nella vita, Guerini, Milano 2001, p. 27.
[12] H. Mayer, I diversi, Garzanti, Milano 1992.
[13] L. Benadusi, Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista, Feltrinelli, Milano 2005, p. 51.
[14] A. Capone, Corporeità maschile e modernità, in S. Bellassai – M. Malatesta (a cura di), Genere e mascolinità. Uno sguardo storico, Bulzoni, Roma 2000, p. 207.
[15] E. Gentile, Prefazione, in Benadusi, Il nemico dell’uomo nuovo, cit., p. XVI.
[16] G.L. Mosse, Sessualità e nazionalismo. Mentalità borghese e rispettabilità, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 25-6.
[17] Ivi, p. 18.
[18] Ivi, p. 41.
[19] Ivi, p. 98.
[20] Ivi, p. 40.
[21] Benadusi, Il nemico dell’uomo nuovo, cit., p. 6.
[22] Mosse, Sessualità e nazionalismo, cit., p. 187.
[23] “Furono circa 50.000 le persone condannate come omosessuali sotto il regime nazista, e di queste 10.000, forse
15.000 perirono nei lager” (Gentile, Prefazione, cit., p. XI).
[24] Benadusi, Il nemico dell’uomo nuovo, cit., p. 280.
[25] Mosse, Sessualità e nazionalismo, cit., p. 179.
[26] Benadusi, Il nemico dell’uomo nuovo, cit., p. 25.
[27] Ibidem.
[28] Mosse, Sessualità e nazionalismo, cit., p. 141.
[29] M. Griner, La “Banda Koch”. Il Reparto speciale di polizia. 1943-44, Bollati Boringhieri, Torino 2000.
[30] J. Bourke, Le seduzioni della guerra. Miti e storie di soldati in battaglia, Carocci, Roma 2003, pp. 38-9.
[31] C. Buzzi, Giovani, affettività, sessualità. L’amore tra i giovani in un’indagine Iard, Il Mulino, Bologna 1998, p. 211.
[32] L’autore si riferisce qui alla prima guerra del Golfo, nel 1990.
[33] J. Galtung, Pace con mezzi pacifici, Esperia, Milano 2000, p. 76.
[34] R. Morgan, Il demone amante. Sessualità del terrorismo, La Tartaruga, Milano 1998., p. 227. Sul dramma vissuto dalla ex-Iugoslavia, vedi V. Nahoum-Grappe, L’uso politico della crudeltà: l’epurazione etnica in ex-Iugoslavia (1991-1995), in F. Héritier (a cura di), Sulla violenza, Meltemi, Roma 1997.
[35] Faccio qui riferimento al piacere della violenza intesa come prevaricazione inflitta senza il consenso della vittima e non al sado-masochismo, ambito tanto maschile quanto femminile, basato sul consenso e la volontarietà, teatro organizzato secondo dispositivi che garantiscano il controllo delle dinamiche relazionali.
[36] Cfr. É. Balibar, Violenza: idealità e crudeltà, in Héritier (a cura di), Sulla violenza, cit., p. 65.
[37] P. Berrettoni, La logica del genere, Plus – Università di Pisa, Pisa 2002, p. 213.
[38] B. Ehrenreich, Riti di sangue. All’origine della passione della guerra, Feltrinelli, Milano 1998, p. 119. Con la recente partecipazione delle donne alle guerre in qualità di combattenti si assisterà forse ad una progressiva perdita delle connotazioni di genere della guerra. Ma questo fenomeno, che comunque non sappiamo fino a che punto si spingerà, “non significa che la «virilità» cessi di essere un attributo desiderabile, ma soltanto che essa diventa un attributo a cui sia le donne sia gli uomini possono accedere” (ivi, p. 209).
[39] Ivi, p. 122.
[40] F. Marini – C. Mameli, Il bullismo nelle scuole, Carocci, Roma 1999, pp. 40 e sgg.
[41] Esistono certo forme di bullismo al femminile ma queste consistono nell’esclusione delle vittime dai giochi di gruppo e nella diffusione di pettegolezzi ai loro danni, modalità quindi diverse dalla violenza fisica e verbale di cui ci stiamo occupando e che riguarda principalmente i maschi.
[42] Sui rapporti tra bullismo e adolescenza, vedi F. Marini – C. Mameli, Bullismo e adolescenza, Carocci, Roma 2004.
(tradotto in Desordres simbòlics de la masculinitat, in “L’Espill”, Publicacions Universitat de València, València, segona època, nùm. 35, tardor 2010, pp. 20-26.)
Giuseppe Burgio è Professore Associato di Pedagogia all’Università Kore di Enna e Graduated SYLFF Fellow della “Nippon Foundation”, Tokyo.