di Arianna Baldi
Perché la scelta del Laboratorio Teorico-Pratico di Femminismi, Genere,
Differenza?
Ho scelto di partecipare al “Laboratorio Teorico-Politico di Femminismi, Genere, Differenza” perchè come donna, madre, lavoratrice, e recentemente studentessa universitaria, credo fortemente nella necessità di dover approfondire la tematica femminista italiana e internazionale e quelle ad esse correlate. Sono convinta, infatti, che la “violenza maschile”, non sia un retaggio del passato, una questione ormai superata, una casistica limitata oppure un’emergenza ..tutt’altro! È persistente, sistematica, stratificata nelle piaghe delle nostra società ed investe numerosi contesti della nostra vita.
Parte dalla sfera privata, spesso dalle mura domestiche, per approdare a quella sociale, del mondo dell’università, del lavoro dove, in particolare, la precarietà dilagante ed il frantumarsi dei diritti e delle tutele, rende le donne soggetti più vulnerabili rispetto agli uomini. Proprio in quanto donne, infatti, siamo quotidianamente esposte e sottoposte, consapevolmente o meno, esplicitamente o meno, ad una serie di pratiche maschiliste. Penso che ciascuna di noi, probabilmente attraverso percorsi di vita ed esperienze diverse, sa di cosa sto parlando!
Personalmente ho lavorato per molti anni in un settore prettamente maschile e, pur avendo raggiunto, con non poche difficoltà e tanto lavoro, un ruolo di responsabilità, mi sono spesso scontrata con una mentalità maschilista, prodotto diretto di una cultura legata ancora, per certi versi, a quella che noi, oggi, chiamiamo “teoria del patriarcato”. In verità, poi, mi è capitato di riscontrare lo stesso atteggiamento ostile anche da parte di donne (non molte, fortunatamente!) che sembravano aver camuffato la propria identità femminile al servizio di un modello forzatamente di stampo maschile. Come donna vivo quotidianamente la condizione di genitorialità che personalmente ritengo essere la parte più impegnativa, bella, piena, irripetibile e.. tanto, tanto altro della mia vita! Sono, però, profondamente convinta che la scelta della maternità non ci possa essere imposta da alcun tipo di stereotipo da parte della società e che, in quanto scelta, non debba necessariamente essere adottata da tutte le donne.
Come madre, soprattutto, avverto la responsabilità di dover trasmettere a mio figlio (maschio) tutti gli strumenti in mio possesso, per vivere da uomo adulto rispettoso di qualsiasi diversità e capace di comprendere a fondo, per farne attivamente parte, lo scenario sociale che auspico possa essere il nostro futuro: una società “globale” intesa come figlia di un processo di trasformazione a livello familiare, culturale, economico, educativo e formativo in cui non si debba più parlare di violenza
maschile e violenza di genere!
Femminismo o Femminismi?
Perché parlare al plurale?
Ha senso parlare di “Femminismi” perché entro questa declinazione al plurale è racchiuso il potere di rappresentazione che le donne hanno e fanno del mondo. Il femminismo degli anni Settanta si è trasformato, attraverso le generazioni, ed è arrivato ai nostri giorni affrontando tematiche sociali e facendo proprie tutta una serie di realtà completamente diverse fra di loro.
Proprio da questa diversità, da questa capacità che ciascuna donna ha di intraprendere, nel proprio contesto, il suo specifico percorso di liberazione, ne deriva una ricchezza che ci fornisce una mappa dei femminismi in Italia, composta da entità anche molto diverse fra loro: gruppi, collettivi, singole…
Tutte le esperienze femministe hanno un filo comune e si intrecciano fra di loro, in uno scambio e confronto continuo e nella teoria/pratica femminista per cui ognuna prende la parola partendo da se stessa. Oggi il panorama del femminismo italiano contempla tante realtà, cronache femministe, reti nazionali, a volte virtuali sul web, alcune delle quali più conosciute ed altre rimaste più in ombra, spesso capaci di innovazione soprattutto rispetto al linguaggio e al valore simbolico che nutre il senso
comune.
Violenza maschile e violenza di genere
La violenza maschile si esprime attraverso modalità e pratiche sessuate molteplici e trasversali: dalle svariate forme di esclusione, violenza morale e fisica che minano l’autodeterminazione delle donne, fino ad arrivare a quella più eclatante del femminicidio. Soffermarsi solo su quest’ultimo aspetto, però, a mio avviso sarebbe un errore perché ci indurrebbe ad avere una visuale solo parziale e riduttiva del problema. Il femminicidio, termine tristemente coniato, che ci riporta a fatti di cronaca purtroppo
quotidiani, rappresenta solo una piccola parte, quella più evidente, di un’oppressione e di un’attuale condizione di disuguaglianze di genere che sono ben radicate nella nostra società. La sfera personale, sessuale e riproduttiva, sono le più colpite, ma, in quanto “private”, sono spesso sottovalutate e considerate un qualcosa di circoscritto. Gli stessi media, in molti casi, tendono a descrivere episodi violenti verso le donne con toni sensazionali e inquadrati in un frame ben definito, come quello passionale, personale e che scaturisce da un “raptus” da parte di chi opera violenza. Niente di più falso! Tutto questo va decostruito: il femminicidio, nello specifico, è una forma di violenza che colpisce le donne in quanto tali!
La violenza maschile, basata su stereotipi inalterati nel corso della storia, sull’attuale influenza della Chiesa e di alcune istituzioni, passa attraverso la famiglia e si concretizza, in forme più o meno esplicite, in una “violenza di genere” perché viene perpetrata verso tutte le diverse soggettività che non si riconoscono all’interno di categorie proprie dell’eteronormalità. “La violenza di genere è una categoria costitutiva del reale, funzionale al “mantenimento di una struttura sociale fondata su rapporti di potere diseguali: con gli uomini in una condizione di privilegio e le donne in una di subordinazione, debolezza, incompiutezza, dipendenza”. (Giomi – Maramaggia “Relazioni brutali”).
La nostra Costituzione, all’articolo 3 recita «I cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di condizioni sociali, di religione e di opinioni politiche, hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge”. L’articolo riportato è importantissimo poiché asserisce che tutti noi e tutte noi, in quanto cittadini e cittadine, abbiamo pari dignità e pari tutela davanti alla legge. Da questo assunto, ne consegue che dovremmo poter scegliere liberamente circa tutti i contesti
sopra citati e quindi scegliere anche se essere madre oppure no, se essere lesbica, transessuale….scegliere, in buona sostanza, la propria soggettività, senza che questo influisca, positivamente o negativamente, o che metta a rischio i nostri diritti. Questo “compito”, tra l’altro, non è demandabile a nessuno/a se non a noi stesse! Consideriamo il diritto alla salute una grossa conquista della nostra società, legata al progresso della medicina ed al raggiungimento di quella che può essere definita una soglia minima di benessere generalizzato. Ma quanto faticosamente ottenuto in campo medico grazie a menti illuminate della ricerca scientifica, coincide davvero con un pieno benessere sociale? La questione è sicuramente aperta! Non possiamo dimenticare il ruolo cruciale svolto dai movimenti femministi che, sotto la spinta sociale e di lotta politica nelle piazze, ha permesso, negli anni Settanta, l’approvazione di leggi fondamentali per la dignità umana, tra cui quella sull’aborto. La svolta è stata epocale!
La lunga battaglia delle donne:
– Le donne sono il “Secondo sesso”
Dal periodo del dopoguerra, al boom economico, fino ad oggi, le donne hanno intrapreso una battaglia lunga, a volta frammentata e a fasi alterne, per ottenere gli stessi diritti e le stesse opportunità degli uomini.
Durante gli anni Settanta, al centro della riflessione dei movimenti femministi si è posta la diversità del pensiero femminile: un modo diverso di considerare il proprio corpo, la propria sessualità, la contestazione di quella che può essere definita la “tesi patriarcale” che giustificava l’oppressione e, di fatto, una posizione subalterna (familiare, sociale, politica) della donna nei confronti dell’uomo, persistente nel corso della storia. Vengono messi in discussione i rapporti familiari, compresi quelli con le proprie madri. La lotta diventa aperta su più fronti: la politica, tradizionalmente intesa, il sindacato, le associazioni. Le parole d’ordine risuonano ormai come slogan in tutte le piazze in cui le donne manifestano e sono presenti: “Donna è bello, donna non si nasce, si diventa!”.
Prima di allora, infatti, le donne erano, rispetto agli uomini, esseri diversi ed inferiori nel corpo e nella mente: il senso della loro vita risiedeva nella “riproduttività”, processo in cui, peraltro, non erano considerate parte attiva ma solo un tramite tra una generazione maschile ed un’altra (maschile). L’immagine della donna, negli anni che precedettero la contestazione del 1968, variava in modo considerevole fra Nord e Sud della penisola, fra strati sociali agiati e ceti disagiati. Anche dal punto di vista del diritto familiare, il divario fra i due sessi rimaneva enorme: un uomo, infatti, differentemente dalla coniuge, in caso di impotenza, poteva chiedere l’annullamento del matrimonio in caso di sterilità della moglie. Questa condizione le riguardava sia da un punto di vista privato, sia pubblico ed era accreditata dalla quasi totalità della letteratura e della filosofia, fatte pochissime eccezioni.
Insomma, sembra proprio che in questa società le donne rimanessero il “Secondo sesso”, come sostiene Simone de Beauvoir, la più importante esponente dell’esistenzialismo francese, quando, nel 1949, pubblica il testo che costituirà il primo studio comprensivo sulla condizione femminile. “Il Secondo sesso” è considerato un rigoroso lavoro che diventerà una pietra miliare per il femminismo ed è un imponente volume che traccia un percorso attraverso i saperi fondamentali dell’Occidente, interrogando filosofia, antropologia, biologia, psicologia, letteratura, in cerca delle cause dell’oppressione della donna.
Il libro, alla sua uscita, susciterà critiche durissime in ogni ambiente: il Vaticano lo mette all’indice, ma anche la sinistra francese non risparmia duri attacchi. Al contrario, le donne lo leggono e vi si riconoscono, soprattutto le giovani donne borghesi,
colte, benestanti, eppure oppresse. Il testo supererà poi questo “uso privato” con l’emergere del femminismo della seconda ondata; le donne infatti lo vanno a recuperare negli anni ’70 (la traduzione italiana risale al 1961), rendendolo
così il testo da cui nessun pensiero femminista può prescindere.
– L’Italia degli anni Settanta e il consolidarsi del femminismo
Gli anni Settanta sono anni durissimi per l’Italia. Non a caso sono stati denominati e li ricordiamo ancora nella memoria storica come “gli anni di piombo”. La storia del femminismo può sembrare percorrere una strada diversa, separata dagli scontri, dalle tensioni sociali, dalle bombe, dagli attentati, dalla violenza usata dai neofascisti per attaccare la democrazia e poi dalla lotta armata delle Brigate Rosse contro uno Stato impreparato. In realtà non è così! In Italia degli anni Sessanta offre opportunità sia agli uomini, sia alle donne che, insieme agli studenti, lottano rifiutando i loro padri e le loro madri, accusate di aver dato troppo alla famiglia e di aver ottenuto molto poco. Le donne, già molto diverse dalle loro madri, in verità, nella rivoluzione degli studenti, hanno mansioni subalterne e quindi molte di loro che già si occupano di politica, cominciano a riunirsi in gruppi di sole donne, avviando la pratica dell’autocoscienza. La nascita del femminismo vede la presenza di tante donne provenienti proprio da quei
movimenti che lottano per la condivisione di un progetto rivoluzionario, per un cambiamento radicale, per una rivoluzione che parla del ” qui ed ora”, della vita quotidiana, dei rapporti rivoluzionari.
Nasce allora il nuovo movimento per la liberazione delle donne.
È il momento in cui le femministe invadono le piazze, abbandonano i gruppi politici maschili, formando, così, i nuovi collettivi femministi che rapidamente si moltiplicano in tutta Italia: a Trento, a Milano, a Roma, a Gela, a Napoli, e se all’inizio ammettono anche gli uomini, poi li escludono risolutamente. È anche quello il momento in cui nei collettivi femministi iniziano a parlare le donne; esse hanno finalmente centrato il problema: “Perché essere una donna fra donne non ha valore nella società in cui viviamo; una donna ha valore solo quando si relaziona a un uomo, come “sorella di”, come “madre di”, come “compagna di”, come “moglie di”.
Iniziano a circolare in Italia i primi libri della corrente femminista in America. Nell’aria si diffonde quel problema che non ha nome, quel problema che la giornalista Betty Freedan ha per prima messo in rilievo: le donne americane, anche quelle più
privilegiate, rinchiuse nelle loro belle case, nelle loro gabbie dorate, si sentono incomplete, deluse, ingannate, nonostante le conquiste fatte. In realtà il malessere è insieme più profondo e più diffuso, è il malessere che sfocerà nella contestazione del 1968, un disagio che i governi non riusciranno a contenere. Il “movimento” è irriverente, provocatorio: chiede una cultura nuova per una realtà che dovrà essere diversa. A Berkeley, a Parigi, in Italia, i giovani vogliono “ribaltare tutto”, lottare contro le guerre ingiuste; si ribellano contro l’autoritarismo nelle istituzioni e nella famiglia, rifiutano la ricchezza ottenuta a spese dei paesi poveri o degli operai alienati alla catena di montaggio, ogni forma di repressione, a cominciare da quella sessuale: lottano, sostanzialmente, per una società senza più tabù né pregiudizi.
Aborto:
– L’industria dell’aborto negli anni Sessanta in Italia
La legge che regola l’interruzione volontaria di gravidanza è la Legge 22 Maggio 1978, n. 194 e sancisce un diritto indiscutibilmente primario, inalienabile: quello di disporre liberamente del nostro corpo. L’interruzione volontaria di gravidanza, ricordiamolo, prima del 1978 era una pratica illegale per cui era considerato dal codice penale italiano un reato, per cui nell’Italia degli anni Sessanta, le donne sono costrette ad abortire clandestinamente, anche se questo sembra non essere un problema.
E invece il problema c’è: l’aborto è un’industria dalle solide fondamenta costruite sul corpo di milioni di donne. In questo contesto, la testimonianza di chi ha vissuto quel dramma si pone con effetto decisamente dirompente: la voce delle donne mette improvvisamente in luce una quotidianità dell’aborto, fatta di silenzi che nascondono indicibili umiliazioni, fatta di pratiche mediche rischiose.
Esiste un’improponibile geografia della clandestinità: donne costrette a lunghi viaggi e spostamenti in luoghi improvvisati e malsani rispondenti a sistemi di interessi che, sulla necessità e sulla disperazione delle donne e delle persone intorno a loro, hanno costruito solide fortune. Una situazione che costringe il sistema di valori di ognuna a rimodularsi rispetto alla necessità di
trovare una qualunque via d’uscita. Per secoli, d’altra parte, l’aborto aveva fatto parte della vita quotidianità di molte donne e i motivi a monte del ricorso a una pratica così cruenta per controllare la fertilità non sono da ricercare soltanto
nella grave carenza di informazione sulla contraccezione, circondata da tabù innominabili che culminavano nel divieto di nominarla, ma sono riferibili piuttosto a tutta una serie di cause, – diciamo strutturali – che riguardano l’impostazione tradizionale della società italiana.
Negli anni Sessanta modelli radicati impongono ancora la maternità come principale – per non dire unica – realizzazione di sé per le donne, cui si abbina una diffusa ignoranza e una drammatica limitatezza non solo dei più elementari servizi sociali, ma anche dei servizi sanitari e di assistenza al parto. Questo il terreno su cui poggia il milione e mezzo di aborti clandestini stimato dall’Unesco all’inizio degli anni Settanta in Italia e i Settanta milioni di lire di giro d’affari annuo per chi li pratica. Il ricorso al medico compiacente, all’infermiera del paese o alla mammana di turno si trasformano ogni volta in un rischio, non tanto di infrangere la legge, quanto di morire per quell’aborto. Molte donne, per lo più sposate e già con due o tre figli, la sorte la sfidano continuamente: nel corso di una vita fertile non è raro per alcune ricorrere a pratiche clandestine più volte in un anno; altre ancora, in mancanza di mezzi e di possibilità, finiscono per imparare a mettere in atto da sole o con l’aiuto dei familiari più stretti quelle tecniche che hanno visto usare da altre donne per interrompere la gravidanza. Una sofferta trasmissione di saperi che all’urgenza mescola l’incoscienza e soprattutto l’assoluta mancanza di alternative, non solo materiali ma anche in termini di possibilità di “pensarsi” diversamente.
Sulle questioni che hanno attinenza con il corpo, la sessualità e la vita di coppia gravano ancora pesanti contraddizioni nell’Italia degli anni Sessanta e persistenti stereotipi popolano il senso comune e l’immaginario delle persone, riconducibili tutti ad una morale di matrice tradizionalista e cattolica, ma che si esprimono anche nelle posizioni di chi cattolico non è. L’attaccamento ai precetti della Chiesa e le convinzioni morali fino ad un momento prima credute indiscutibili, le credenze, le diffidenze, i costumi sessuali appresi, l’adesione alla morale dominante, le paure: di fronte ad una gravidanza non voluta tutta questa rete emozionale subisce necessariamente una scossa molto violenta. Procurare l’aborto di una donna consenziente, oltre che estremamente rischioso per la vita della donna, era punito dalla legge con la reclusione da due a cinque anni, comminati sia all’esecutore dell’aborto, sia alla donna stessa (art. 546); procurarsi l’aborto era invece punito con la reclusione da uno a quattro anni (art. 547).
– Il femminismo e l’aborto
Quali sono state le tappe che ci hanno condotto all’approvazione della legga n.194 e come il femminismo ne ha determinato le sorti? Una prima presa di posizione del femminismo è il rifiuto dell’ equazione “donna- maternità” come strumento di denuncia verso la concezione ed il sistema patriarcale che fino ad allora aveva usato la maternità stessa come pretesto per relegare le donna ad assolvere un ruolo esclusivamente “privato”. Esse, quindi, come “angeli del focolare domestico” erano del tutto escluse ed estromesse dalla vita pubblica e politica.
Questo “disertare” e questo “sottarsi” alla maternità, da parte delle femministe, deriva anche dal ricordo ancora vivido dell’ideologia fascista che concepiva le donne come madri e mogli rurali, dedite alla cura ed al sacrificio personale in funzione della famiglia. Scardinare questo stereotipo, allora, diventa una vera e propria priorità: le donne escono di casa, scendono in piazza, ma fanno propria una battaglia nella vita quotidiana, nelle relazioni personali, familiari e sociali; così come avevano fatto, in passato, per ottenere parità nella gestione di eredità, proprietà o per accedere all’istruzione superiore. Solo in un secondo momento, si arriva ad una presa di coscienza che vede le donne svincolarsi dal patriarcato, riappropriandosi della maternità come “esperienza femminile” e come scelta risignificata. Non si tratta di “essere come gli uomini”, di avere la stessa libertà sessuale, ma di nominarsi da sole, nominando ed imparando a conoscere il proprio corpo.
– L’approvazione della Legge n. 194
Già il referendum sul divorzio del 1974, che segna l’approvazione della legge sul divorzio, rappresentando per le femministe un traguardo ed una svolta di enorme portata per una società fin ad allora dominata dal cattolicesimo. La successiva riforma del diritto di famiglia del 1975 asserisce, di fatto, che i coniugi hanno diritti e responsabilità uguali di fronte alla legge.
La legge italiana sull’aborto entra in vigore nel 1978. Il 17 maggio 1978 si vota in Italia per cinque referendum abrogativi, di cui due sull’abrogazione di parti della legge 194 riguardanti «Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria
della gravidanza» (gli altri tre quesiti riguardavano l’ordine pubblico, l’ergastolo e il porto d’armi). Una delle proposte era del Partito radicale, che mira ad un allargamento della possibilità di abortire, propone l’abrogazione di tutti i procedimenti, e i controlli di tipo amministrativo relativi all’interruzione di gravidanza volontaria, come pure tutte le sanzioni per l’inosservanza delle modalità configurate dalla legge 194.
L’altra proposta, in alternativa, è portata avanti dal Movimento per la vita di matrice cattolica, e mira all’abrogazione di ogni circostanza ed ogni modalità dell’interruzione volontaria della gravidanza, quali previsti dalla legge 194.
L’esito del referendum è schiacciante: in entrambi i casi prevalgono i no e la legge 194 rimane intatta. Con essa, si conclude l’epoca dei cosiddetti “cucchiai d’oro”, ovvero di ginecologi che, fino ad allora, avevano fatto abortire le donne clandestinamente chiedendo loro, in cambio di tale servizio, lauti compensi.
Contestualmente, cominciano a nascere i primi consultori, in cui le donne hanno la possibilità di si confrontarsi apertamente con il ginecologo e vengono, allo stesso tempo, aiutate praticamente e psicologicamente, nell’affrontare la loro dolorosa scelta.
L’attuale legge 194 consente alla donna di interrompere la gravidanza nei primi novanta giorni di gestazione nei casi in cui la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica. Tra il quarto e quinto mese è possibile interrompere la gravidanza solamente per motivi di natura terapeutica, quando cioè è stato accertato che la gravidanza comporta un grave rischio per la salute della donna e che il feto presenta delle anomalie e malformazioni che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
L’acceso dibattito nel Parlamento italiano, che porta al Referendum su questa legge, vede la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica disinformata o poco informata. Degno di nota è la campagna comunicativa ad opera di molti collettivi femministi, fra cui
A/matrix che elaborano il “Manuale delle galline ribelli”, il quale si fa carico di informare su un principio molto scivoloso e complicato, l’articolo 1, che equipara i diritti del feto a quelli della donna. Indipendentemente dal proprio credo religioso, mettere donna e feto sullo stesso piano, è una scelta normativa estremamente forte e potente.
Essere madri oggi:
– Autodeterminazione delle donne e Violenza ostetrica
Oggi le donne rivendicano il proprio benessere e si oppongono a qualsiasi costrizione o stereotipo; sono coscienti della propria soggettività derivante dal diverso background culturale, familiare e dal proprio riconoscimento sessuale, indipendentemente dal sesso biologico. La legge che regola l’interruzione volontaria di gravidanza è la Legge 22 Maggio 1978, n. 194 e sancisce un diritto indiscutibilmente primario, inalienabile: quello di disporre liberamente del nostro corpo.
In Italia, però, si pone un problema importante: la legge esiste da quasi quarant’anni ma, in alcuni casi, troppi, è di difficile applicazione e ancora oggi si sente dire che l’aborto in Italia è ancora un percorso a ostacoli. I dati parlano chiaro: l’obiezione di coscienza manifestata ed esercitata dalla quasi totalità dei medici (circa il 70%) lede un diritto importante, senza considerare che l’iter per chiunque voglia abortire è spesso difficoltoso e osteggiato.
L’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente. L’attuale situazione in Italia ha sollevato un’accesa discussione prima nel 2016, quando a seguito di un esposto della CGIL, il nostro paese è stato censurato dal Comitato dei Diritti Sociali del Consiglio d’Europa e, successivamente quando il Comitato dei Diritti Umani dell’ONU, proprio a causa di una grande quantità di obiettori di coscienza presenti in Italia, ha ribadito quanto sia sempre più difficile abortire per le donne che scelgono di farlo.
La cronaca non manca, purtroppo, di casi come quello di Valentina Milluzzo, morta di parto all’età di 33 anni e negli ultimi quattordici anni, circa il 21% delle donne italiane ha dichiarato di aver subito una forma di quella che possiamo definire una “violenza ostetrica”. Questa giovane donna è morta il 16 ottobre del 2016 presso il reparto di Ostetricia e Ginecologia dell’ospedale Cannizzaro di Catania e, secondo la famiglia, per la mancata somministrazione di medicinali che avrebbero potuto salvare la ragazza, dovuta all’imporsi di un medico obiettore. Effettivamente gli esami autoptici sul corpo della giovane confermerebbero tale versione. In attesa che si faccia chiarezza, sui documenti depositati, sembrerebbe essere, infatti, che il decesso
di Valentina è stato causato anche da una “mancata tempestiva rimozione della fonte d’infezione (feti e placenta)”. Il Dott. Michele Mariana, medico obiettore operante nella Regione Molise, Michele Mariano, ha rilasciato un’interessante intervista al quotidiano “La Repubblica”, in cui ha posto l’accento su un altro punto della questione. A detta del il ginecologo, “costretto” a praticare 400 aborti l’anno, il motivo per cui molti suoi colleghi optano per l’obiezione di coscienza, non è solo morale o etico, ma la verità che sembra confermarci il medico è che coloro che non sono obiettori, in Italia, difficilmente riescono a fare carriera.
Se volessimo, allora, ripensare ad uno scardinamento di tali pratiche, dovremmo partire proprio da qui, per rivendicare il pieno e gratuito accesso a tutte le tecniche abortive previste per legge ed equipararci a quella che è la media degli altri paesi Europei.
Oggi sappiamo che seppur non abbia un riconoscimento giuridico, esiste una “violenza ostetrica” che coinvolge una parte delle partorienti, attraverso un abuso della medicalizzazione o con la consuetudine in molti ospedali italiani di sconsigliare fortemente o posticipare l’anestesia epidurale in caso di parto naturale. Ci sono, poi, casi di donne che dichiarano di essere state sottoposte, sotto la “lente d’ingrandimento” a giudizi negativi o a pressioni, in caso di manifestata volontà di abortire. Le donne, oggi sempre più consapevoli ed informate, intendono difendere il Servizio Sanitario Nazionale, messo a dura prova da una politica poco lungimirante, e vogliono porre l’attenzione su quelli che sono i reali bisogni delle donne stesse. Potremmo, allora, ripensare a quelli che sono gli spazi entro i quali avviene la nascita, con l’assistenza di figure femminili e non, in grado di supportare ed accompagnare le donne nel delicato percorso della maternità senza alcun tipo di pratica lesiva della propria autonomia.
I movimenti femministi, attualmente, stanno lavorando molto da questo punto di vista e gridano a gran voce la richiesta di maggiori investimenti pubblici, affinché vengano erogati a favore di nuovi consultori o per riorganizzare e migliorare quelli preesistenti. La funzione di queste strutture potrebbe essere determinante nel supporto e nella continuità assistenziale in caso di violenze, di parto, di allattamento, di aborto, di contraccezione e di informazione circa quelle malattie trasmissibili sessualmente.
La maternità oggi e il potere femminista:
– Vogliamo essere madri
– Vogliamo essere noi stesse
– Vogliamo scioperare
– Vogliamo educare
Come è vissuta oggi la maternità? Come la battaglia delle donne ha influenzato la nostra attuale concezione? Cosa rivendicano, oggi, i movimenti femministi?
La rivendicazione della propria soggettività, rende libere le donne dall’oppressione e dalla maternità: in buona sostanza, ciascuna, può, consapevolmente decidere per se stessa se essere madre oppure, ad esempio, “preferire scrivere un libro, piuttosto che fare un figlio” ( dal libro “Madri cattive” di Caterina Botti). Caterina Botti, Professoressa associata di Filosofia morale presso l’Università “La Sapienza” di Roma, dove insegna Bioetica ed autrice del libro “Madri cattive”, analizza attentamente il tema della gravidanza e della bioetica. Dal suo intervento, che personalmente ho trovato essere uno dei più interessanti di tutto il
Laboratorio, emerge quanto le donne debbano essere considerate un “soggetto morale”, cui va riconosciuto il ruolo principale di sapere operare in autonomia scelte responsabili durante lo stato della gravidanza, prima, e del parto, dopo. La maternità, così oggi come è concepita, è, in primis, quindi una scelta libera e consapevole. Personalmente credo che l’essere genitore è davvero qualcosa di eccezionale, per quanto mi riguarda!
Si tratta di un’esperienza intrinseca di contraddizioni perché diventiamo “qualcosa” che prima non eravamo: viviamo, allora, momenti intensi, emozionanti, ricchi ma anche frustranti e destabilizzanti. Ripeto, questa è la mia personale visione: è inconcepibile pensare che, su questo tema, la visione e le esperienze delle donne siano univoche. Ciò che mi ha colpito e che condivido di quanto ha scritto la Professoressa Caterina Botti, è che non esiste il paradigma “donna incinta, uguale buona”.
Credo, piuttosto, che ciascuna donna sia in grado di vivere la propria responsabilità dell’essere “madre” in quella che è una relazione intima che il feto. Questa responsabilità e tutto ciò che ne consegue (soprattutto per quanto riguarda le fasi del
parto), non sono demandabili a nessun’altro! Oggi si può diventare madri in tanti modi, grazie a nuove competenze ed ai progressi nel campo della bioetica. Si pongono, quindi, problemi di ordine etico diversi e si rende necessaria una riflessione nuova
e una trattazione attenta attorno al tema della maternità e della genitorialità, attraverso punti di vista diversi.
Il femminismo, come ha detto la Dott.ssa Barbara Bonomi Romagnoli durante una lezione del Laboratorio, non esclude o combatte a priori la “famiglia”; ne contesta solo lo stereotipo che ci obbliga a vederla sotto un’unica prospettiva, come se per noi donne fosse già inesorabilmente tracciato un unico, predefinito percorso. L’approccio femminista, invece, è declinato in modi differenti: è un approccio “posizionato” perché si esprime a partire da “sé”, dall’esperienze e dal vissuto di ciascuna donna. Partendo proprio da questa soggettività, quindi, ed in interazione e interlocuzione con tutte le altre identità, è possibile elaborare percorsi di liberazione da qualsiasi forma di oppressione che coinvolge anche la famiglia stessa, tenendo sempre presente che la teoria non è mai scissa o separata dalle pratiche che possiamo mettere in campo. Ricorrere la “normalità” equivale a rincorrere i dogmi che la società tenta, quotidianamente, di imporci. Le diverse identità debbono, invece, essere fluide, mai confuse, ma libere di nominarsi senza sentirsi incasellate in categorie.
Lo sciopero transnazionale indetto dalle donne, l’8 marzo 2108, è il punto di partenza (non certo di arrivo!), del potere femminista che si oppone fortemente ed a gran voce al sessismo ed al razzismo, qualunque esso sia. Il femminismo, in Italia ma non solo, è tornato alla ribalta e va ponendo le basi per sovvertire e mettere in crisi tutte le gerarchie e i rapporti di potere di stampo patriarcale. Le donne, partecipando attivamente ed in prima persona ai processi costitutivi e produttivi di diritto, ciascuna con la propria identità, diventano protagoniste di un miglioramento che riguarda non soltanto loro stesse, ma l’intera società, poiché, ricordiamoci, i diritti umani sono un patrimonio collettivo da difendere e preservare.
Concludendo…
Vorrei concludere queste riflessioni esprimendo quello che, personalmente, sento essere di primaria importanza e che credo debba andare di pari passo a tutta una serie di riorganizzazioni strutturali ed istituzionali che, oggi, le donne pretendono.
Mi riferisco al difficile compito di educare le generazioni di domani: non avremmo mai un radicale cambiamento sociale se prima non “investiamo” su quelli che saranno i nostri futuri cittadini. La famiglia, per prima, come nucleo sociale primordiale dell’individuo, il mondo della scuola e delle istituzioni, a seguire, hanno indiscutibilmente il compito di educare i giovani.
Si rende necessario attuare un ripensando di un sistema educativo e formativo diverso, basato su principi anticlassisti e antirazzisti, aperto ed in grado di educare ad una pluralità di soggetti diversi fra loro.
È impensabile poter ottenere tutto questo senza fare una critica al linguaggio che noi usiamo tutti i giorni: un linguaggio fortemente sessuato!
Capire questo è estremamente importante, poiché non si tratta di un problema meramente formale, come spesso tentano, anche i media, di volerci trasmettere, ma, direi, piuttosto sostanziale. Dobbiamo fare nostro ed adottare ora, subito, con i nostri figli e in tutti i contesti sociali in cui ci relazioniamo, un linguaggio diverso, non sessista, non discriminatorio delle diversità, che non si
avvalga di un “universale” da imporre a tutte e tutti!
È quasi d’obbligo un ringraziamento per questo percorso formativo e di laboratorio intenso, la cui riuscita, credo personalmente, sia dipesa dal fatto che siano intervenuti tanti relatori, alcuni anche a titolo personale e figure professionali (sociologhe, sociologi, storici, storiche, filosofe…) diverse fra loro che hanno garantito una visione globale e da più punti di vista, di temi così importanti
e altrettanto delicati.