di Silvia Iacocagni
Il primo incontro del seminario ha trattato i concetti di “emancipazione”, “emancipazionismo” e “liberazione”, attraverso una lettura di genere della storia e le lotte delle donne per la parità dei diritti civili.
Ovviamente non è semplice affrontare una lettura di genere della storia senza fare prima chiarezza sul significato dei termini presi in analisi: • il “femminismo” per dare una definizione è un movimento di rivendicazione dei diritti economici, civili e politici delle donne, in senso più generale, è l’insieme delle teorie che criticano la condizione tradizionale della donna e propongono nuove relazioni tra i generi nella sfera privata e una diversa collocazione sociale in quella pubblica; • l’“emancipazione” è il processo attraverso cui un popolo si libera da un sistema oppressivo, o una classe sociale si sottrae a una soggezione, a una situazione subalterna e ottiene il riconoscimento dei propri diritti, nel caso dell’emancipazione della donna si parla di parificazione all’uomo nei diritti civili e politici, ma anche della liberazione da quei pregiudizi e da quelle convenzioni che limitano la sua libertà e la sua autonomia; • l’”emancipazionismo” viene dall’emancipazione, è un pensiero che considera le donne come un gruppo sociale da tutelare, debole, in qualche modo inferiore, che ha bisogno appunto di emanciparsi per diventare simile all’uomo, che è considerato il vero modello della cittadinanza.
L’importanza della conoscenza dei termini serve a capire anche la differenza fra l’emancipazionismo, con il quale definiamo il passato e che rivendica il compimento di atti, ed il “femminismo”, con il quale viviamo il presente e prefiguriamo il futuro, aspirando ad una innovazione e crescita culturale.
Purtroppo l’emancipazionismo rimanda al banale “politically correct”, una tutela accordata alle mancanze delle donne, che non fa altro che evidenziare la necessità da parte di una collettività di comportarsi almeno correttamente con chi non goda delle stesse prerogative fisiche, culturali ed economiche.
Difatti le donne delle ultime generazioni tendono a non percepirsi come vittime o escluse, rispetto ai loro coetanei uomini, perché siamo in un paese in cui la cronaca ci restituisce alcune figure canoniche, come la moglie portata allo stremo, le figlie violentate, le fidanzate uccise, o la madre infanticida, senza lasciare spazio ad immagini di donne che si trovano in posizioni diverse, come quelle di presidenti, segretarie di stato, o cancelliere, che sono considerate casi eccezionali e non rappresentative del loro genere.
Per risolvere questo problema appunto non si può più parlare di emancipazione per l’uguaglianza con gli uomini, bisogna passare dal paradigma dell’oppressione al paradigma dell’espressione, ossia di prendere le decisioni sulle proprie vite e posizione sulle questioni politiche.
Facendo riferimento alla storia, in tutte le società del mondo, sin dalla fine dell’Ottocento, era netta la disuguaglianza fra uomini e donne, il privilegio maschile rispetto allo stato di minorità delle donne, quest’ultime venivano infatti escluse dalla vita politica, poiché ritenute incapaci di agire secondo ragione e di conseguenza venivano sottoposte alla potestà del marito, senza la libertà di decidere della propria vita ed escluse da una serie di percorsi di studio e di professione. Alla donna non rimaneva che il ruolo di moglie e madre di famiglia come massima aspirazione nella vita.
Il cammino delle donne però non è lineare, storicamente parlando, perché subisce dei momenti di stallo fra le due grandi guerre per poi riprendere vigore dopo la Seconda guerra mondiale e accelerare dagli anni Settanta del Novecento.
Infatti con il crescere dell’industrializzazione, l’inurbamento sempre maggiore, lo sviluppo scientifico e tecnologico, con la pace e prosperità del dopoguerra, arrivano importanti innovazioni con le istanze libertarie del ’68, che misero in discussione l’autoritarismo dei rapporti sociali e della famiglia, o anche l’arrivo della pillola anticoncezionale, che liberò la donna dalle gravidanze non volute, fino ad arrivare ai semplici elettrodomestici che diminuirono la fatica del lavoro domestico.
Storicamente si fa riferimento a due ondate di femminismo: • la “prima ondata”, anche detta “femminismo dell’uguaglianza”, era all’insegna dell’emancipazione, fu una fase di rivendicazioni e di battaglie che miravano a conquistare la parità di diritti, ovvero l’uguaglianza con gli uomini; • la “seconda ondata”, anche detta “femminismo della differenza”, era quella dei movimenti che miravano alla liberazione della donna, ad affermare un’identità femminile non subordinata né assimilata a quella maschile, al riconoscimento e alla valorizzazione delle differenze di cui uomini e donne sono portatori.
La prima ondata di femminismo voleva cancellare le differenze tra i sessi che erano consolidate nella cultura occidentale, che portavano a discriminare, subordinare ed escludere la donna. Le donne reclamavano l’accesso agli stessi diritti degli uomini e respingevano i ruoli di oppressione che le erano tradizionalmente attribuiti, in quanto uguali e pari agli uomini per natura.
Infatti nonostante l’Ottocento fu un periodo di innovazioni con il passaggio dalle campagne all’urbanizzazione, per le donne non fu la stessa cosa, si venne a creare la figura della “casalinga”, una donna che si occupa della famiglia e della casa, isolata dalla società, privata dei propri diritti, esclusa volutamente con le leggi e la cultura.
Ad esempio in Italia, durante il regime dittatoriale fascista, veniva propagandata l’idea della donna come angelo del focolare, madre di famiglia, alla quale era negato il divorzio e criminalizzato l’aborto.
Questo fino a che le donne non iniziarono a prendere coscienza di sé e ad impadronirsi di ideali illuministi come quello di uguaglianza e di libertà.
I primi inizi arrivano dagli Stati Uniti, sia nel mondo della frontiera, dove le donne impararono ad utilizzare le armi ed a sostituirsi ai compiti degli uomini, sia nella chiesa protestante, dove le donne vennero accettate anche all’interno del clero, ed anche nelle lotte contro le schiavitù, nelle quali le donne lottavano in primo piano per abolirla, anche entrando a far parte di alcuni club di opposizione.
Mentre una delle battaglie più importanti della prima ondata, che viene dalla Gran Bretagna, fu quella sulla lotta al suffragio, ossia al diritto al voto, manifestazione dalla quale vennero designate le “suffragette”, ovvero le militanti di questa iniziativa che furono protagoniste della scena pubblica e portarono l’idea della donna come un soggetto politico autonomo, capace di scegliere e agire senza la tutela di nessuno.
Un passo importante, anche se forzato, venne con la Prima guerra mondiale durante la quale, per necessità, si dovettero infrangere alcune barriere fra i sessi. Infatti la maggior parte della popolazione maschile era impegnata nella guerra e la manodopera in alcuni settori industriali scarseggiava, così fu necessario l’impiego della donna in compiti e ruoli importanti.
Per quanto riguarda il diritto all’istruzione invece, fino agli inizi del Novecento, per la cultura dominante alle donne veniva riservata l’acquisizione di competenze diverse dagli uomini solo per i campi a loro destinati, ossia la casa e la famiglia. L’unico livello di istruzione garantito alle donne era quello elementare.
Tutto ciò migliora, a partire dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Venti del Novecento, quando vengono accolte alcune richieste da parte dei movimenti a favore delle donne all’avere accesso a tutti i percorsi formativi, a tutte le occupazioni e libere professioni.
Solo nel 1977 viene per la prima volta introdotto il principio di parità di trattamento e di opportunità sul lavoro tra uomini e donne, e non più solo quello di tutela delle lavoratrici.
Bisognerà aspettare dopo la Seconda guerra mondiale per avere un’estensione dei diritti, con la Costituzione degli Stati democratici che sancì l’eguaglianza e la parità dei diritti fra i sessi. Successivamente il diritto di voto si estese rapidamente pressoché ovunque, in Italia arrivò nel 1943, e con la Riforma del diritto di famiglia, del 1975, venne eliminata la patria potestas, una violenza strutturale, che attribuiva al marito tutte le decisioni familiari e l’educazione dei figli, opprimendo la donna a livello simbolico, psicologico ed economonico.
Altre importanti riforme furono quella del 1970 sul divorzio, quella del 1978 sull’aborto e quella del 1981 che abrogava il delitto d’onore e il matrimonio riparatore, trovando poi nel 1996 riscontro quando la violenza sessuale divenne un delitto contro la persona e non contro la moralità pubblica.
Un esempio della lotta contro i matrimoni riparatori, viene dal sud d’Italia, fu quello di Franca Viola, una giovane che rifiutò le nozze con l’uomo che l’aveva rapita e violentata, che secondo il codice italiano sarebbero servite per riparare l’onore della famiglia, al contrario la ragazza scelse di opporsi andando incontro ad una vita da “disonorata”.
Inoltre con il secondo dopoguerra si ha una forte crescita dell’occupazione femminile, una grande espansione dell’accesso delle donne all’istruzione superiore e al sempre più crescente riconoscimento formale dei diritti alle donne, nonostante nella mentalità comune continui a dominare il tradizionale modello femminile della donna casalinga.
Purtroppo le sole leggi non bastarono a garantire l’effettivo accesso ai diritti, le donne per essere libere avevano, ed hanno, bisogno di una trasformazione sociale e culturale molto profonda.
Arrivando poi agli anni Sessanta e Settanta del Novecento, con la seconda ondata, i movimenti femministi ricalcarono in modo prorompente la scena e focalizzarono l’attenzione dall’emancipazione alla liberazione delle donne.
Il modello di donna imposta era sempre più rinnegato, la nuova generazione di donne nasceva già emancipata, fu il ’68 l’anno di presa di parola di questa generazione di donne, di accesso alla politica ed al tempo stesso anche l’ultima illusione di emancipazione.
Infatti le donne si accorsero che la loro partecipazione nei movimenti studenteschi era sempre relegata a ruoli secondari, mentre la presa di parola era prevalentemente maschile, ciò generò così un clima di maggior frustrazione anche per le molte aspettative che vennero tradite.
Nonostante il movimento studentesco e quello femminista avessero dei punti in comune, tra cui il rifiuto della famiglia come modello autoritario, ed una nuova forma di partecipazione politica dal basso, vi era una differente qualità nelle motivazioni e nell’agire che segnarono le differenze fra le due contestazioni: • per il giovanile, si trattava di un momento di ribellione nei confronti del sistema patriarcale, ma che con il tempo si conformerà a quello stesso sistema; • per la donna, invece si trattava di una rivolta contro il patriarca per tutta la vita e non solo per la durata del movimento.
La seconda ondata del femminismo contestava radicalmente la più antica e basilare forma di dominio, quella di un sesso sull’altro, quella all’origine di ogni rapporto di potere e di sopraffazione anche nella società del presente.
Inoltre la nuova ondata denunciava il patriarcato, i suoi obblighi, le sue leggi, le immagini della donna come subordinata, criticando i costumi sessuali, le abitudini e le convenzioni della vita quotidiana.
In questo passaggio dalla prima alla seconda ondata ricordiamo la filosofa Simone de Beauvoir, che ne il suo libro “Il secondo sesso” si interrogava proprio su “che cos’è la donna?”, mobilitandosi per la legalizzazione dell’aborto in nome della maternità consapevole, per la diffusione della contraccezione, per l’aumento di consultori femminili e servizi sociali, proponendo nuovi modelli di comportamento basati sulla equa ripartizione dei compiti all’interno della coppia e della famiglia, evidenziando l’autonomia del soggetto femminile, della sua libertà sessuale e promuovendo la solidarietà fra donne.
“Il Secondo sesso”, uscito nel 1949, fu uno dei libri manifesto del movimento femminista, in cui la Beauvoi sosteneva che la donna si integrasse nella società con gli stessi diritti e doveri dell’uomo. Secondo l’autrice l’essere donna non è uno status in cui si nasce, ma uno status che si acquisisce con il tempo, perché l’essere donna non è un fatto naturale, biologico, ma il risultato di processi di costruzione della propria persona.
Inoltre secondo la Beauvoir sia l’uomo che la donna dovrebbero costruire la propria libertà in relazione l’una con l’altro, negando la propria biologia ed andando oltre alla propria cultura, poiché è l’unico modo di raggiungere la libertà di stare al mondo come se stessi.
L’autrice nel suo testo critica l’emancipazione femminile in quanto in un contesto dove emanciparsi significa entrare in un mondo già formato, e quindi aderire ad una realtà costruita da uomini per individui maschili, la donna deve adattarsi entrando in un mondo riduttivo, perché uomini e donne sono diversi per condizioni storiche, fisiche e sociali.
Bisogna ricordare che la seconda ondata ebbe dimensioni di massa grandissime, con movimenti femministi che ebbero un ruolo di primo piano nelle trasformazioni sociali, culturali e nella svolta dei rapporti tra sessi.
Difatti la nuova ondata portò delle forti ripercussioni su diversi piani, dalla caduta della natalità, alla diminuzione dei matrimoni ufficiali, all’aumento dei divorzi, e all’incremento della monoparentalità, non solo, anche l’immagine della donna cambiò e divenne più complessa, caddero molte barriere sociali, le donne piano piano presero maggiori libertà e divennero più indipendenti.
Purtroppo sarebbe falso dire che la seconda ondata risolse tutti i problemi riguardo le disuguaglianze fra sessi, in realtà ancora oggi le ingiustizie e le discriminazioni nei confronti del sesso femminile sono ancora presenti ed in molti casi gravi. Viviamo in una società in cui la violenza contro le donne, che sia fisica, sessuale, psicologica, economica, dentro e fuori casa, è ancora una piaga molto diffusa.
Non solo, viviamo in un mondo in cui le donne continuano ad essere sottorappresentate nei parlamenti, nei posti di lavoro e sono ancora le donne a svolgere la gran parte del lavoro casalingo non retribuito in famiglia, sottoposte spesso ad un doppio carico di lavoro.
Proprio per questo con il tempo le donne con lotte ed esperienze hanno portato avanti con un gesto di rivolta tutto ciò che era stato trattato solo a livello teorico. Negli anni ’70 si parla di “rivolta sessuata” in quanto si arriva alla rottura con l’intera tradizione simbolica di potere ed al rifiuto delle pratiche politiche tradizionali.
Con il “posizionamento sessuato” le donne aprirono la possibilità di fuoriuscire dai canali tradizionali, prendendo la parola in polita, rifiutando il potere e l’idea di un’uguaglianza fra i sessi, che viene smascherata in quanto omologante e improduttiva.
Le donne degli anni Settanta si distinguono dal femminismo di emancipazione nel togliersi da una posizione attribuita, riconosciuta subordinata all’uomo, ma si concentra sull’importanza di ogni singola coscienza, partendo dal sé, dal proprio corpo, dalla propria esperienza, per elaborare una politica basata sulle vite e che non tralascia la differenza sessuale.
Bisogna ricordare che il femminismo non si pone come alternativa politica contro il sistema già dato, ma come un altro rispetto all’idea politica tradizionale e che la differenza sessuale è un posizionamento qualitativo non rappresentabile attraverso i modi classici della democrazia.
Infatti le donne non sono un gruppo sociale omogeneo e compatto, le donne hanno differenti posizionamenti, hanno dei progetti individuali, quindi la politica delle donne necessita di tener conto delle pratiche di ogni donna insieme alle altre ed il femminismo non può basarsi su idee fisse, deve partire dall’esperienza di ognuno, poiché non esiste un dogma da seguire.
Successivamente le donne avviarono la pratica delle riunione in piccoli gruppi chiamati “gruppi di autocoscienza”, riunioni in cui le donne potevano operare una centratura della propria esperienza, confrontarsi sulle contraddizioni che vivevano individualmente e collettivamente nella società, cercando di abbattere la scarsa comunicazione fra donne data da una cultura che non stimolava la soggettività femminile. Difatti in questi collettivi si condivideva la propria esperienza e posizionamento in modo tale che circolasse e divenisse un nodo politico di dibattito.
Volendo il femminismo degli anni ’70 viene anche chiamato “femminismo radicale”, il cui intento era quello di andare alla radice delle cause che hanno reso la donna, storicamente e non naturalmente, inferiore all’uomo, differenziandosi dal primo femminismo che vedeva le cause solo in materia giuridica ed economica. Le esponenti del femminismo radicale non erano giovani donne, bensì donne mature, lavoratrici e con un’autonomia economica.
La chiave di svolta del femminismo radicale è il porre attenzione sulla sfera della sessualità, concetto che viene ampliamente trattato dalla filosofa Carla Lonzi, esponente del gruppo femminista “Rivolta femminile”, nel libro “Sputiamo su Hegel” che contiene anche il Manifesto di Rivolta Femminile.
La Lonzi propone una divisione delle donne in due categorie: • la donna clitoridea, libera dalle imposizioni eterosessuali imposte dal dominio patriarcale, disponibile ad una libera sessualità polimorfa; • la donna vaginale, soggetta alle pratiche eterosessuali imposte dal dominio patriarcale e miranti solo al piacere maschile.
Nel libro la Lonzi suggerisce alle donne di liberarsi dal matrimonio, in quanto istituzione, e dalla famiglia, come luogo della schiavitù, rifiutando l’autorità patriarcale che le è stata imposta culturalmente, anche per raggiungere un’indipendenza economica.
Inoltre la rivendicazione della libertà sessuale suggerita dalla Lonzi è strettamente collegata anche al tema dell’aborto, in quanto, sottolinea l’autrice, secondo la cultura patriarcale non ci si pongono dubbi sulle leggi naturali, mentre in realtà quando una donna rimane incinta non possiamo sapere se è stato per sua volontà o perché si è conformata all’atto e al modello sessuale prediletti dal maschio. Le donne quindi sono costrette all’aborto perché sono costrette ad una paratica sessuale unica che porta solo alla gravidanza.
Infatti nel mondo patriarcale l’uomo ha imposto il suo piacere che conduce alla procreazione e che diviene una violenza della cultura sessuale, un piacere al quale la Lonzi propone una via d’uscita affermando che la donna – gode di una sessualità esterna alla vagina, dunque tale da poter essere affermata senza rischiare il concepimento -, sottolineando così anche la differenza fra la sessualità maschile, che ha il meccanismo di piacere coincidente con il meccanismo di riproduzione, e la sessualità femminile, che al contrario ha il meccanismo di piacere comunicante ma non coincidente con quello di riproduzione.
Bisogna precisare però che la Lonzi non propone il rifiuto dell’eterossessualità del rapporto della donna con l’uomo, ma ne critica il carattere passivo, infatti l’uomo deve sapere che la vagina è una zona adatta ai giochi sessuali e la clitoride è l’organo centrale della sua eccitazione. La donna deve avere una sessualità
libera in quanto la donna è “normale”, e deve avere difronte un uomo normale, essendo entrami esseri sessuati, ma con le loro differenze da valorizzare e non da modificare al servizio dell’uno o dell’altra.
Purtroppo parlando di sessualità il femminismo ancora oggi ha difficoltà a liberarsi all’omofobia, infatti già dagli anni ’70 le donne lesbiche anche se condividevano le proprie esperienze venivano escluse a causa delle proprie differenze, che diventarono difficili da sostenere da parte di un movimento che voleva fare delle differenze il proprio punto di forza.
Infatti tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta le lesbiche si divisero in due filoni, uno lontano dal femminismo e che elaborava autonomamente la propria specificità creando un “lesbofemminismo”, mentre l’altro proseguì in linea con il femminismo di tutte le donne.
Uno degli elementi di criticità tra lesbismo e femminismo fu l’introduzione della teoria “queer”, che mette in discussione la naturalità dell’identità di genere, dell’identità sessuale e degli atti sessuali di ciascun individuo, affermando che esse sono interamente o in parte costruite socialmente. Si pose quindi una critica verso quei movimenti che volevano categorizzare gli individui, sottolineando la transitività dei generi, e la possibilità di avere identità non fisse, e non etichettate.
Oggi possiamo dire di essere nel pieno corso della terza ondata del femminismo, basata sull’autoaffermazione dell’autorità femminile, che si evolve in tutto il mondo a partire da iniziative come la “Women’s March” fino ad arrivare a “Non una di meno”, il movimento italiano costituitosi sulla scia del movimento argentino Ni una Menos nato nel 2015.
Uno dei recenti avvenimenti, il caso Weinstein, ci è di esempio per una campagna social lanciata dall’attrice americana Alyssa Milano con l’hashtag #Metoo, ossia “anche io”, per portare l’attenzione globale sul velo di omertà che ha coperto il tema delle molestie sessuali per mancanza di supporto e per il bisogno di dimenticare.
Ma il movimento #Metoo nasce molto prima dello scandalo legato a Harwey Weinstein, infatti venne lanciato almeno vent’anni fa dall’attivista americana Tarana Burke, come simbolo mondiale delle donne che rompono il silenzio sulla violenza del patriarcato, in difesa delle donne violate, per sottolineare l’importanza di affrontare la violenza sessuale come una questione di giustizia sociale.
Anche in Italia il #Metoo ha trovato consensi e solidarietà anche se con lentezza, dopo la denuncia dell’attrice Asia Argento contro Weinstein, con una lettera-manifesto scritta da un gruppo di attrici e sceneggiatrici per supportare tutte le donne che hanno avuto il coraggio di uscire allo scoperto raccontando le proprie esperienze e partendo da sé stesse.
Il caso del #Metoo ci collega fortemente a come il femminismo della terza ondata prenda forza anche tramite social, creando una rete globale mai vista prima, aiutando le donne a sentirsi meno sole nell’affrontare le loro esperienze, a vincere la vergogna ed a rivendicare la propria individualità.
Ancora oggi, in un mondo che accende i riflettori sulle violenze domestiche e non solo, è attuale la necessità di una trasformazione radicale della società, con cambiamenti profondi e simbolici, ancora oggi si rivendicano gli stessi diritti che tradizionalmente sono di appannaggio dei soli maschi, come l’indipendenza economica, quindi il lavoro, e l’indipendenza sessuale, quindi la libertà di disporre del proprio corpo.
Infatti secondo dati Ansa, oltre cento donne in Italia ogni anno vengono uccise, mentre secondo dati Istat, ben 7 milioni di donne nel corso della loro vita hanno subito una forma di abuso, e durante il 2017 la media registrata è di una vittima ogni tre giorni. Anche sul piano lavorativo l’Italia risulta 82esima su 144 paesi analizzati per disparità di partecipazione, di possibilità di carriera, di differenza salariale e rappresentazione politica.
Il movimento Non una di Meno, dopo l’ennesimo episodio di violenza, quello della studentessa ventiduenne Sara di Pietrantonio, bruciata viva dal compagno a Roma, ha incrementato le sue proposte di cambiamento basandosi sull’esperienze di tantissime donne volte a migliore il sistema patriarcale in cui ancora viviamo.
Il femminismo odierno possiamo definirlo “intersezionale”, che fa riferimento proprio al concetto geometrico di intersezione di due assi, dove a seconda di dove posizioniamo un numero possiamo dire qual è più piccolo e qual è più grande. Gli assi servono quindi a stabilire delle gerarchie, dove agli estremi ritroviamo individui a paragone, ad esempio, i maschi più importanti delle femmine, le persone bianche più delle nere, le persone con corpo abile più delle disabili, e così tanti altri.
A tal proposito è doveroso approfondire la conoscenza sulla Women’s March, manifestazione globale che avvenne successivamente alla vittoria di Donald Trump alla presidenza, quando l’avvocato Teresa Shook lanciò un post su Facebook con la domanda “cosa succederebbe se le donne marciassero in massa?” prendendo consensi di migliaia di donne in tutto il mondo. La marcia, partita come opposizione alle idee di conservatorismo di Trump con i pregiudizi su donne, immigrati, neri e portatori di handicap, prese anche posizione contro ogni discriminazione verso omosessuali e diritti Lgbtqia (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer, intersessuali e asessuali). Anche in Italia ci furono tre appuntamenti, a Roma, Milano e Firenze, per sostenere la Women’s March contro la disparità di potere, il sessismo e la misoginia.
Anche durante le diverse Women’s March fu usato come simbolo su molti cartelli portati dalle manifestanti l’hashtag #Metoo.
Possiamo dunque chiamare gli assi,“assi di oppressione”, in quanto divide in gerarchie le persone in base ad una caratteristica, innescando un meccanismo di oppressore – oppressa, che nel caso della donna è un’oppressione di genere.
Riprendendo il femminismo della differenza, quello della seconda ondata, bisogna ricordare che è un’illusione il pensare di poter far decadere le disuguaglianze fra uomo e donna, mentre il primo femminismo, quello dell’uguaglianza che rivendicava pari diritti fra uomo e donna, portando anche ad esiti positivi sul diritto al voto e al lavoro, ci deve ricordare che ad ogni concessione di diritto si sottintende che si debba seguire esattamente un modello prestabilito.
Infatti si parla di meccanismo di “assimilazione”, che non è “uguaglianza”, e che porta l’aspirazione di subalterne a diventare uguali all’uomo, ossia uguali ad un modello prestabilito, che emargina e discrimina gli individui con caratteristiche diverse. E’dunque importante recuperare coscienza della propria identità, partendo dal vissuto e dall’esperienza.
Uno dei punti principali da analizzare è il fatto che la nostra costruzione sociale si basa sul binarismo di genere. La nostra cultura eteronormativa ci insegna che l’orientamento sessuale giusto è l’eterosessualità, che forma il nucleo della famiglia, che non altro che la base della nostra società, e per far ciò è necessario che uomini e donne siano ben distinti fra loro.
Infatti in base alla categoria che ci viene assegnata alla nascita, ci viene assegnata una precisa identità di genere, un nome, ci viene insegnato come comportarci, cosa possiamo fare e non fare, e perfino per chi provare attrazione.
Di conseguenza se sei i transgender, ossia non ti riconosci interamente né nell’identità femminile né nell’identità maschile, o se sei cisgender, ossia che ti riconosci nell’identità di genere che ti è stata assegnata alla nascita in base al tuo sesso biologico ma non ti senti del tutto conforme allo stereotipo di genere, sei automaticamente a rischio di emarginazione ed esclusione. Tutto ciò non fa altro che ricadere nella “violenza di genere”.
Bisogna precisare che il genere non è altro che un costrutto sociale e che l’essere uomo o donna è principalmente la conseguenza di uno stereotipo che ci viene cucito addosso.
Tornando quindi al piano del femminismo intersezionale va ricordato che non può essere dogmatico, perché ogni azione, o esperienza di vita, prende significati diversi in base al contesto in qui essa viene compiuta e o vissuta. Per questo il femminismo odierno, ed anche il movimento Non Una Di Meno, promuove la solidarietà ed alleanza, contrapposte alla sovradeterminazione, lasciando spazio alla libera emancipazione e determinazione.
Inoltre, va però ricordato che al giorno d’oggi non viviamo più in un mondo dove vige il delitto d’onore, o l’unico stereotipo della donna è quello della casalinga, ci sono nuovi ruoli della donna, come esponenti, come donne realizzate nel loro lavoro, o anche il fatto che i matrimoni omosessuali o la riassegnazione chirurgica del genere non sono più concetti inconcepibili. E’ proprio per questo che il femminismo di oggi è in continuo movimento, crescita, e per la prima volta nella storia del femminismo le rivendicazioni delle donne non stanno nascendo da altre lotte, ma sono proprio loro a trainare nuove rivoluzioni ed idee.
Una nota blogger e commentatrice del “Guardian”, Laurie Penny, scrive – Io non sono qui per raccontarvi come bisogna essere femminista… il femminismo non è un’identità. Il femminismo è un processo. Chiamatevi come volete. La cosa importante è che voi combattiate per questo. –
Nella mia personale opinione penso che questa citazione possa riassumere il perché io abbia scelto di parlare del primo seminario sull’emancipazione e la liberazione. Viviamo in un mondo dove il femminismo attuale si differenzia fortemente dai precedenti per la presenza dei media, dove Internet e il web sono strumenti per dare voce e carattere a questi movimenti, anche se purtroppo questo meccanismo nasconde un grave pericolo. Infatti il femminismo deve essere interiorizzato, non deve essere un tipo di approccio alla vita, perché purtroppo può accadere di confondere la forma con la sostanza, scambiando i principi di appartenenza ad un’idea con semplici slogan o hashtag.
In sempre più casi assistiamo alla ridicolarizzazione dell’argomento, tralasciando il vero motivo per cui è nato il femminismo, ricadendo in un banale movimento di tendenza in stile “girl power”, dove si pensa che una semplice maglietta con la scritta “we should all be femminist” faccia la differenza contro i pregiudizi, quando in realtà dovremmo essere liberi di avere la possibilità di essere chi vogliamo senza essere giudicati o oppressi.
Trovo che il femminismo 2.0, se così si può chiamare, possa sempre più diventare un forte strumento di sensibilizzazione all’importanza di essere sé stessi, ad indebolire l’idea di uomo-virile e donna-femmnile, e all’evitazione di forme di discriminazione basate su stereotipi di genere, perché “tutti dovremmo essere femministi” non per tendenza ma per la parità tra i generi.