di Stefano Pirro
Tentare di dare una definizione univoca ed esaustiva del femminismo risulta oggi un’impresa ardua in quanto esso consiste in un fenomeno estremamente sfaccettato e che si snoda in diversi periodi storici distinti l’uno dall’altro, ma soprattutto perché sfaccettata è la figura cardine di questo movimento, la donna, di cui ci giungono — soprattutto attraverso i mass media — molteplici esempi e tipizzazioni che spesso sono contraddittori tra loro.
Per quel che concerne i conflitti di genere dall’avvento del nuovo millennio il tema sembra essere stato relegato ad un passato ormai trascorso, finito negli anni Settanta con le lotte delle femministe sui temi dell’aborto, del divorzio e della violenza sessuale.
Le donne recentemente sembrano non sentirsi delle vittime nel rapporto svantaggioso con gli uomini. In Italia attualmente quella che viene veicolata dai mass media è una donna moglie che viene uccisa per futili motivi, la ragazza violentata o la donna che sfrutta la sua avvenenza per raggiungere il suo personale fine; le figure femminili positive — che si distaccano da questi ruoli prestabiliti — che hanno ad esempio una posizione di potere e prestigio sono considerate un’eccezione alla regola.
Allo stato attuale delle cose le donne che lottano per i loro diritti sembrano essere presenti solo nella civiltà orientale, nella nostra parte di mondo si tratta di una storia già archiviata.
Per comprendere il conflitto di genere è necessario fare chiarezza sul femminismo, il cui tratto caratterizzante nell’immaginario collettivo è il concetto di emancipazione, inteso come uscita da uno stato di minorità e di debolezza e come lotta per l’uguaglianza politica e sociale con gli uomini.
L’ambivalenza che caratterizza la temporalità ciclica e quella relativa all’evento differenzia il conflitto su cui si basa il politico, chiamato stasis. Il termine racchiude significati differenti, come il caos e il fissare; assumere la differenza sessuale dal punto di vista della stasis implica che la comunanza sia nella natura della condivisione. Gli obiettivi sopra elencati non sono stati perseguiti dalle donne solo nel secolo appena trascorso, in effetti si tratta di battaglie che nel lungo periodo sono state combattute a più riprese, si tratta quindi di un conflitto ricorsivo. Un esempio possiamo ritrovarlo nel Settecento francese, quando Olympe de Gouges elabora la Dichiarazione dei diritti e dei doveri della donna e della cittadina, atto che le costa la vita per mano dei suoi stessi compagni di rivoluzione. Con un salto di cento anni giungiamo poi alle rivolte suffragiste fino ad arrivare, in un passato più recente, agli scritti di Simone de Beauvoir che ha dedicato la sua esistenza in nome della giustizia e della libertà, combattendo per una società migliore in cui le donne ricoprono il ruolo che spetta loro; tra le sue opere più celebri annoveriamo Il secondo sesso, che ha ricoperto una grande importanza nella concezione femminista.
[…] Le donne non sono una minoranza, come i negri d’America e gli ebrei; ci sono tante donne quanti uomini sulla terra […] le donne non hanno un passato, una storia, una religione, non hanno come i proletari una solidarietà di lavoro e interessi. Simone de Beauvoir, 1949 Il secondo sesso.Appare già chiaro da questo breve excursus che le lotte per l’emancipazione delle donne non sono affatto un processo graduale che ha poi avuto compimento negli anni Sessanta del Novecento, sembrano piuttosto seguire un percorso di “due passi avanti e tre indietro”; la conferma di questo ci giunge ad esempio dalle parole di Platone che nel lontanissimo 390 a.C. riconosceva la parità tra uomini e donne, ebbene a più di duemila anni di distanza le donne lottano ancora per l’affermazione di sé.
In quest’ottica di discontinuità il femminismo ha più volte cambiato punto di vista ed obbiettivo, negli anni Settanta ad esempio il tratto caratterizzante era la differenza tra gli uomini e le donne, non l’uguaglianza.
Durante gli anni Settanta si è assistito a una serie di importanti conquiste sociali e politiche rese possibili da una modificazione dei modelli culturali e sociali di cui il femminismo è indicatore; si tratta di un periodo storico segnato dal difficile rapporto dei gruppi femministi con le istituzioni e il mondo politico. Il neofemminismo trova fondamento infatti dalla critica al modello di emancipazione affermatosi nel dopoguerra grazie alle organizzazioni femminili legate ai principali partiti politici, ma si contrappone anche alle leggi di tutela giuridica delle donne sostenendo la pratica della disparità o della differenza sessuale contro l’uguaglianza omologatrice della tradizione emancipazionista. A questo proposito infatti ricordiamo che parte del neofemminismo si scaglia contro le conquiste civili e politiche dell’Italia repubblicana, le lotte per la regolamentazione dell’aborto e la legge contro la violenza sessuale perché sarebbero frutto di una politica che non tiene conto della differenza sessuale.
Il movimento femminista possiede tratti in comune con il movimento degli studenti, essi si sono sviluppati nello stesso periodo e oltre ad accrescere la coscienza civile italiana presentavano comuni caratteri di trasgressività e innovazione; tuttavia si differenziano nel fatto che dopo aver perso il carattere di forza d’urto il movimento femminista è rimasto vivo nella sua essenza teorica e approda, negli anni Ottanta, ad una nuova fase con il pensiero della differenza sessuale.
A livello storico appare ardua l’impresa di tracciare una storia comune e continuativa del movimento femminista che sembra piuttosto caratterizzato da momenti distinti e slegati tra loro, assumendo spesso punti di vista e basi teoriche differenti.
L’Ottocento da alcuni è stato considerato il punto più basso della storia delle donne a causa soprattutto del passaggio dalla società tradizionale agraria alla società moderna urbana. L’uscita dalla povertà, la trasformazione della famiglia e della casa sono i punti focali, si passa infatti dalla famiglia allargata della società agraria alla famiglia nucleare composta in genere da genitori e figli. L’abitazione inoltre nella società agraria costituiva un luogo di socialità in cui si svolgeva la vita di tutti i giorni, con l’industrializzazione viceversa il lavoro si stacca dall’abitazione e si sposta nelle fabbriche; la casa quindi si trasforma e nasce una figura che nelle epoche precedenti non era presente: quella della casalinga, che si occupa dell’ambiente domestico e della famiglia ed è isolata dalla società. Essa oltre ad essere isolata è anche priva di diritti, gli uomini infatti stanno conquistando sempre più privilegi politici oltre che civili, le donne invece non possono accedere all’istruzione, ad eccezione delle aristocratiche che imparano a stare in società; non hanno inoltre accesso al mondo del lavoro e non possiedono capacità giuridica, questo comporta l’impossibilità a presenziare in tribunale, il non avere la potestà genitoriale sui figli e non poter possedere o gestire i propri beni in quanto è necessario un tutore. La città però comporta anche dei cambiamenti positivi nella vita delle donne, le alleggerisce da molti lavori fisici e questo porta a liberare il loro tempo che esse sfruttano per riflettere su loro stesse e unirsi in gruppi, creare delle alleanze.
Gli uomini si avviano in questo periodo all’allargamento del suffragio e verso migliori condizioni di lavoro mentre il destino delle donne è quello di restare nella loro subalternità, è da qui che nasce la protesta femminile, dalla disparità di diritti. Le donne assumono come punto di partenza gli stessi ideali che a loro volta avevano usato gli uomini per la rivoluzione, gli ideali illuministi di libertà, uguaglianza e fratellanza. Le donne sono in prima linea durante la Rivoluzione Francese che costituisce un’insurrezione della società contro il vecchio. Nel 1791 con la Costituzione uomini e donne hanno uguali diritti di successione e le donne sono ammesse a testimoniare; le successive leggi del 1792 configurano il matrimonio in qualità di contratto civile e sanciscono l’uguaglianza tra i coniugi oltre a permettere il divorzio. Nonostante queste concessioni la partecipazione alla politica per le donne è impensabile, si diffonde inoltre la figura della tricoteuse, la donna che assiste alla ghigliottina, simbolo degli influssi negativi che può liberare in un contesto pubblico quando non è sotto il controllo di un uomo. Da questa necessità di controllo si giunge al Codice Napoleonico nel 1801 che pone la donna sotto la tutela di una figura maschile, in particolare negli spazi pubblici.
Il neofemminismo (nuovo movimento femminista) nasce in Italia a metà degli anni Sessanta e trova le sue basi storiche nel femminismo classico che si fonda a sua volta sul rivendicazionismo del femminismo democratico e sulle tematiche dell’emancipazionismo socialista dell’Ottocento.
A fine Ottocento infatti ¬— nonostante non abbiano ancora conquistato il diritto di voto — le donne vengono impiegate in associazioni di beneficenza nel tentativo di saldare la politica con la morale, e la sfera pubblica con l’esperienza soggettiva legata alle funzioni femminili; questa tendenza a concedere loro uno spazio limitato continuerà anche durante la dittatura fascista durate la quale nasceranno dispositivi per incentivare la maternità, inchiodando ancora di più le donne al loro ruolo di madri.
Tuttavia in questo contesto iniziano a formarsi due delle caratteristiche fondamentali di quel che sarà il successivo movimento di emancipazione: la forte connotazione utopistica — tipica dei movimenti anti-autoritari — intesa come l’illusione che chi verrà dopo sarà in grado di cambiare la storia, e il rapporto di solidarietà tra donne ossia lo sforzo comune di raggiungere obiettivi di interesse generale.
Parlando di utopismi appare evidente che in riferimento a quello socialista di questo stesso periodo storico alle donne è attribuita una grande importanza, infatti nella società futura loro sarebbero destinate, insieme al proletariato — le parti deboli dalla società — a raggiungere il paradiso comunista senza classi e senza conflitti.
Tuttavia le somiglianze tra i due movimenti si fermano qui in quanto nel pensiero utopistico si evidenzia un modello di società futura senza un’applicazione concreta, al contrario nel movimento femminista la teoria è sempre funzionale ad una pratica che oltre all’autocoscienza prevede una forma politica per la sua attuazione. Un’ulteriore differenza risiede nel fatto che il modello marxista è basato sulla vita economica e produttiva in cui il dato sessuale è ininfluente, la rivoluzione femminista aspira invece alla creazione di un nuovo ordine sociale non neutro ma sessuato.
Qualche decennio dopo nel contesto nella resistenza — intorno quindi agli anni Quaranta — nascono associazioni politiche femminili come l’Unione donne italiane che riprendono i temi della parità e dell’emancipazione sul piano giuridico, politico ed economico ma non il tema della libertà sessuale.
In quegli stessi anni precisamente il 30 gennaio 1945 le donne conquistano il diritto di voto che costituisce il riconoscimento politico della piena cittadinanza, status che secondo la costituzione repubblicana si fonda sull’uguaglianza formale tra i due sessi, sul lavoro e su regole democratiche della civile convivenza; un’uguaglianza che sembra essere in effetti solo formale siccome — in base all’appartenenza di sesso — la funzione familiare è affidata alle sole donne che di conseguenza hanno la percezione di aver raggiunto soltanto dei diritti dimezzati e di non essere ancora cittadine come gli uomini a tutti gli effetti, nonostante il diritto appena conseguito.
Il femminismo italiano dei decenni Sessanta e Settanta, trova punti in comune con il femminismo statunitense, soprattutto riguardo a concetti come la sisterhood che in Italia prenderà poi il nome dello “stare insieme fra donne”, inoltre i movimenti femministi americani, italiani ed europei in generale condividono tutti un retroterra nella protesta anti-autoritaria collettiva.
Il femminismo americano muove i suoi primi passi con i gruppi di auto-riflessione che sottintendono un rifiuto della politica tradizionale, la partecipazione politica femminista è fondata sulla relazione stretta tra la persona e la pratica politica; tutto ciò verrà poi riassunto dal neofemminismo italiano nella formula “il personale è politico”.
Altra somiglianza tra il femminismo statunitense e quello italiano è la critica del modello egualitario e paritario: siccome le conquiste del secolo precedente non hanno posto fine alla subalternità femminile, la diversità è vista non più come un deficit bensì come un valore, in quanto è tratto caratteristico della propria unicità.
In America si assiste comunque a una diversa situazione femminile, le donne sono capaci di sostituirsi agli uomini, le chiese inoltre si aprono alle donne “democratizzandosi” in un certo senso, inoltre esse ricoprono una posizione di prima linea nella lotta per l’abolizione della schiavitù.
La legge dello stato di New York del 1848 permette alle donne sposate il diritto di proprietà e nello stesso periodo ha luogo il convegno di Seneca Falls; inoltre nel 1967 le donne possono ritirare i propri guadagni.
Da oltreoceano oltretutto ci giungono le teorie del gender su cui si basano gli Women’s Studies e i Gender Studies; i sostenitori della teoria del gender operano una distinzione sostanziale tra sesso e genere, il primo è il sesso con cui nasciamo — un dato biologico e culturale — il genere è invece un dato psicologico e socioculturale. L’identità sessuale di un individuo quindi non è determinata dalla biologia ma dalla percezione soggettiva di ognuno, che può scegliere quindi arbitrariamente il genere in cui si sente più a suo agio.
Centrale per il movimento femminista — che inizia proprio dal Sessantotto la parabola della sua massima visibilità e capacità espressiva — è la contestazione degli studenti.
Sembra non sia possibile ritrovare una radice comune tra il movimento studentesco e quello femminista, essi sembrano condividere la radicalità della protesta anti-autoritaria e la critica alla cultura patriarcale ma il femminismo è stato il primo vero movimento politico di critica storica alla famiglia e alla società; per il movimento studentesco infatti la critica alla famiglia si inserisce in generale nella critica agli autoritarismi.
Dal carattere anti-autoritario i due movimenti generano la tendenza a una nuova forma di partecipazione politica che non necessita di un partito ma vuole affermare i nuovi bisogni a partire da sé, dal soggetto stesso che fa politica.
Tuttavia una grande differenza risiede, secondo Carla Lonzi, nel carattere “temporaneo” della ribellione al sistema patriarcale da parte dei giovani studenti, la donna e il giovane possono allearsi contro di esso ma per i giovani uomini si tratta di un’opposizione momentanea, sono destinati a diventare essi stessi oppressori dopo la fase giovanile; viceversa la donna resta donna per tutta la vita, non solo per la durata storica del movimento.
In effetti la sua longevità sembra essere uno degli elementi atipici del movimento femminista rispetto al movimento studentesco e ai movimenti collettivi in generale, la cui forza rivoluzionaria insorge in un momento di disagio sociale che il sistema politico non riesce più a contenere.
I gruppi di Demau e Rivolta femminile — seguendo schemi teorici diversi — perseguono una forma di determinazione femminile che sappia affermare la propria voglia di esistenza, rinnegando una cultura e una storia che hanno sistematicamente escluso la donna.
Dieci anni dopo le vicende del Sessantotto è opinione comune che occorre pensare la politica delle donne a prescindere dalla politica ideologica, le donne non possono agire nella storia o partecipare alla realtà del mondo esterno poiché la realtà sociale esistente è stata fatta dall’uomo; secondo Carla Lonzi è necessario ricominciare da capo e creare un nuovo corso esistenziale oltre che politico a partire dall’azzeramento della cultura e della storia, che costituiscono i prodotti di una società maschile.
La critica della politica, il rifiuto dell’ideologia come reminiscenza astratta e come strumento di dominio e di controllo sociale sono le radici teoriche del femminismo delle origini, di quella parte cioè del movimento femminista che precede la stagione del Sessantotto e che — pur traendo dal movimento della contestazione studentesca un terreno vitale su cui attecchire ed espandersi — rimarrà estranea alle forme e alle ragioni della politica antiautoritaria del movimento studentesco.
La comune istanza radicale e utopistica e la ricerca di una nuova modalità della politica, intesa come partecipazione collettiva e pubblica, corrisponde solo a una delle due anime del movimento femminista, a quella che si identifica con la pratica dell’agire politico. Il neofemminismo delle origini — quello che, come nel caso del Demau, precede il movimento studentesco o che, come per Rivolta femminile, prescinde in modo inequivocabile dalla tendenza a cambiare il mondo esterno — teorizza un’idea della politica che non corrisponde a quella del movimento studentesco e neppure a quella del femminismo che in esso si riconosce.
In questo quadro spicca l’autorevole figura di Carla Lonzi, femminista teorica della fase radicale che sostiene la differenza sessuale come opposizione all’uguaglianza tra donne e uomini, fondatrice del gruppo Rivolta Femminile oltre che redattrice del Manifesto del luglio 1970, che rappresenta uno dei testi più importanti del movimento femminista in Italia. L’autrice elabora una distinzione fra immanenza e trascendenza associando la donna al primo termine e l’uomo al secondo. La filosofia ha spiritualizzato la gerarchia dei destini e l’uomo per poter iniziare la storia ha dovuto negare il femminile; annullare l’immanenza del proprio vissuto vuol dire cancellare le proprie esperienze e dare vita a un nuovo soggetto in grado di esprimere, libero da influenze, il senso della propria esistenza.
Carla Lonzi con la sua ideologia costituisce una voce innovativa poiché affronta tematiche che precedentemente erano state trattate solo a livello teorico, si batte strenuamente per l’abolizione del dominio patriarcale oltre che contro il matrimonio e l’eterosessualità attraverso i quali quel dominio si estrinseca. Dalle parole del manifesto emerge la concezione del matrimonio come l’istituzione che ha assoggettato le donne al destino maschile, secondo la Lonzi la donna deve svincolarsi da queste imposizioni ed avere una pratica sessuale libera. Tuttavia l’autrice non rifiuta l’uomo come soggetto — come le dure parole del manifesto potrebbero far sembrare — ma lo rifiuta come figura autoritaria ed assoluta che dovrebbe invece restare estraneo da alcuni ambiti personali della donna.
Particolarmente significative appaiono queste parole del Manifesto: «abbiamo guardato per 4000 anni, adesso abbiamo visto», con queste semplici parole si esprime il disagio percepito dalle donne nell’essere state per secoli delle semplici spettatrici in un mondo a protagonismo maschile; per Carla Lonzi la liberazione della donna non consiste nella partecipazione ad un potere maschile, ma nella messa in discussione di questo potere.
Tornando alla dimensione sessuale, essa ricopre una grande importanza nella concezione dell’autrice del piacere femminile, si sostiene infatti l’esistenza di una sessualità esterna alla vagina che può essere affermata senza il rischio del concepimento, ritenuto frutto della violenza della cultura sessuale patriarcale alla cui base c’è il piacere maschile.
A proposito della cultura Carla Lonzi nel saggio Sputiamo su Hegel sostiene che sia necessario dissociarsi da essa e critica la teoria hegeliana circa l’esistenza di due principi: uno umano virile, che attiene alla comunità e uno divino femminile, che attiene alla famiglia. L’autrice si scaglia inoltre contro il carattere di passività per natura che Hegel attribuisce alle donne e asserisce che l’istituzione familiare tradizionale non sia stata indebolita dalla socializzazione dei mezzi di produzione, bensì il contrario.
Anche Luisa Muraro è dell’opinione che la natura dell’oppressione vada ricercata alla radice della civiltà patriarcale che mette la donna in una posizione subalterna grazie a motivi riproduttivi e di divisione del lavoro, che la assoggetta ai bisogni degli uomini, il sesso dominante.
Il ruolo della donna è quindi sempre derivato alla figura di un uomo (madre, sorella, moglie), negli anni Settanta le donne tentano di sfuggire alle pratiche sociali che determinano la loro posizione nella società per ripartire daccapo, da loro stesse e dai loro bisogni. Il motivo del contendere non è quindi l’uguaglianza in un contesto già esistente ma la differenza e ciò costituisce il passaggio dal paradigma dell’oppressione al paradigma dell’espressione che permette di decidere sulle proprie vite; questo potere decisionale si è poi estrinsecato nella lotta per la legge sul divorzio e sull’aborto.
L’emancipazione è una “libertà da”, intesa come l’atto di liberarsi dagli impedimenti e dalle avversità, una “libertà da guadagnare” rispetto al presente; il concetto di liberazione costituisce invece una libertà “da realizzare” e l’espressione è una “realtà da inventare”, nel senso di comportarsi in modo da realizzare la libertà.
In un’ottica del genere il conflitto sessuato (conflitto tra sessi) riguarda l’intero ordine sociale, la differenza non consiste quindi nel porre una questione femminile effettuando delle modificazioni ad hoc a livello legislativo ma nel ripensare i concetti alla base dell’intera questione.
Sempre riguardo la differenza sessuale seppure costantemente basata su uomini e donne assume di volta in volta un punto di vista differente a seconda del periodo storico, oggi ad esempio può essere la richiesta di regolarizzazione da parte degli omosessuali, che non chiedono solo il riconoscimento di diritti individuali ma tirano in gioco i principi fondamentali della convivenza.
Altro punto nevralgico della discussione è il lavoro, in particolare la distinzione tra lavoro produttivo e lavoro di cura, non riconosciuto come lavoro vero e proprio; il tentativo delle donne di svincolarsi dai compiti loro attribuiti ha portato all’ingresso nel mondo del lavoro e quindi alla conquista di una indipendenza economica ma anche al cambiamento del mondo del lavoro e dello stato in generale.
Nelle produzioni femministe dagli anni Cinquanta del Novecento in poi il pensiero della differenza sessuale intende i segnali della crisi come uno spazio che per secoli è stato dominato dagli uomini, in cui pensare la trasformazione, di cui approfittare.
La differenza italiana per parte femminista inizia a partire dagli anni Settanta, periodo in cui le donne iniziano a rendersi conto che l’uguaglianza è in realtà un inganno, che il fatto di essere integrate nella società non comporta necessariamente una “stima reale”; sostanzialmente l’uguaglianza giuridica e l’ingresso nel mondo del lavoro — che Simone de Beauvoir designava come necessari al raggiungimento dell’uguaglianza — non avevano portato i risultati sperati.
Altro punto debole di questa impostazione è il considerare l’essere un cittadino a tutti gli effetti, come erano gli uomini, come un qualcosa che manca alle donne, un’analisi di questo tipo porta implicitamente a creare un modello verso cui tendere ed elemosinare l’inclusione in una società già impostata su canoni maschili; l’approccio basato sulla differenza sessuale ha quindi costituito senz’altro un’alternativa migliore.
Il processo trasformativo nel pensiero della differenza sessuale non mira al riconoscimento ma si attesta sulla produzione di alternative per guadagnare nuove posizioni e nuove forme relazionali.
Tra il 1971 e il 1972 in un’assemblea femministe italiane e francesi si impegnano per far crollare la distinzione dell’individuale e del collettivo tra ambiti che si vorrebbero separati.
Il tempo della trasformazione non è indefinito, è il qui e ora della vita quotidiana, non si distingue inoltre tra l’esistenza pubblica e privata, “il personale è politico” è una delle pratiche fondanti dei primi gruppi di autocoscienza.
Attraverso la tesi de “il personale è politico” quei soggetti esclusi dagli scambi sociali si fanno carico di dare voce all’esclusione, e questa presa di parola rappresenta per loro un processo di trasformazione della realtà. Per le donne del movimento femminista dire che il personale è politico non significa ridurre tutto al discorso politico, né che tutto è politica; significa però che ogni aspetto dell’esistenza può diventarlo. La divisione classica tra pubblico e privato non aderisce all’effettiva esperienza che una donna fa della realtà, in cui cultura, relazioni, lavoro, tutto è intriso di politicità ed è stato politicamente normato.
Il lunghissimo iter fino ad ora descritto può darci un’idea di quanto sia stato difficile conseguire dei diritti che molto spesso diamo per scontati e di cui non usufruiamo, ma possiamo affermare che la situazione di oggi sia diversa e migliore rispetto a quella di ieri? Sulla carta sembra di si, per lo meno nella nostra parte di mondo dove non mancano esempi — forse pochi — di leadership al femminile, basti pensare alla neopresidente del Senato della Repubblica o ancora meglio alla figura ormai quasi leggendaria di Angela Merkel che ad oggi da oltre un decennio gestisce con pugno di ferro una delle nazioni più produttive al mondo, incontrando il favore e l’approvazione non solo delle donne ma anche degli uomini.
Nella realtà questi esempi positivi vengono messi continuamente in secondo piano dalle molte notizie di femminicidio che ci giungono quotidianamente.
Viene da domandarsi se la violenza sulle donne sia in aumento o se semplicemente venga enfatizzata e strumentalizzata dai media per puro sensazionalismo; l’abuso di genere è sempre esistito, tuttavia sembrerebbe che negli ultimi anni esso abbia raggiunto gradi sempre più alti di perversione e che i motivi alla base di tali atti siano sempre più futili.
Alla radice di tutto ciò risiede sicuramente la concezione ancora arcaica, patriarcale e ignobile che la donna sia un essere inferiore che non può dire no, che non può rifiutarsi nel suo ruolo di moglie, di lavoratrice, di madre e di amante; quel NO per alcuni uomini è inconcepibile e nella loro distorta concezione del mondo la donna deve essere punita o addirittura uccisa per il suo diniego.
Recentemente dallo scandalo scoppiato grazie al coraggio di un’attrice sulle molestie di Weinstein nel mondo di Hollywood si è dato il via ad una quasi commovente catena di solidarietà tra donne che hanno taciuto per anni sulle violenze subite per mantenere il loro posto di lavoro, dal coraggio di una si è giunti alla liberazione — almeno interiore — di tutte. Da questa vicenda è nato quindi il fenomeno virale #MeToo che in seguito ha coinvolto oltre al mondo del cinema americano anche quello europeo e la politica internazionale.
MeToo è attualmente considerato uno dei movimenti a più rapida espansione degli ultimi anni, popolarità raggiunta soprattutto grazie alla mediazione dei social network; esso va a unirsi ad altre campagne come ad esempio #NonUnaDiMeno, fenomeno nato in Argentina grazie a giornaliste e volontarie intenzionate a dire basta e a rompere il circolo di violenza, cresciuto poi grazie ad assemblee territoriali e nazionali. Il Movimento ha creato nel giro di un anno un proprio Piano Femminista Antiviolenza nato dalla scrittura collettiva di molte donne, dalla condivisione di esperienza, pratica, vissuti e saperi.
Il movimento definisce sistematica la violenza maschile contro le donne, essa è presente quindi in tutti gli ambiti della vita, quello lavorativo, familiare e sociale e in tutte le sue sfumature, come violenza psicologica, fisica e sessuale. Le partecipanti chiedono inoltre che la violenza di genere venga trattata nelle scuole e che vengano creati luoghi femministi, oltre alla formazione di figure professionali e alla “rieducazione” delle industrie culturali, in particolare i mass media. L’obiettivo del Piano Femminista e degli incontri di Non Una Di Meno è quello di adottare una politica di riposizionamento ossia di riconoscere la propria prospettiva, che si presenta come non imparziale e definita dalle specifiche condizioni personali e materiali che ognuno vive.
Una similitudine con il movimento femminista degli anni Settanta è il partire da se stesse e dalla relazione con le altre donne, il partire da sé è inoltre tratto fondante della concezione di Spinoza, considerata la prima filosofia materialista-monista che pone tutto sullo stesso piano; i femminismi non parlano per tutte le donne, ogni femminismo ha il suo collocamento e la sua posizione.
Altro esempio di movimento femminista contemporaneo è La Favolosa Coalizione che a livello cronologico è precedente al movimento Non Una Di Meno ed è caratterizzato dall’insieme di soggettività molto diverse tra loro. Uno dei progetti fondanti della coalizione è quello a favore dell’autodeterminazione riproduttiva e sessuale come contrapposizione al piano nazionale della fertilità portato avanti dalla ormai ex ministra della salute Beatrice Lorenzin. Uno dei punti di forza del progetto è sicuramente l’ironia femminista oltre che lo spirito di coalizione; attualmente La Favolosa Coalizione esiste ancora all’interno del movimento già citato Non Una Di Meno che l’ha assorbita.
Come abbiamo visto quindi le femministe di tutte le estrazioni sociali, da un capo all’altro del mondo e in tutte le epoche hanno lottato per rivoluzionare il concetto di essere donna, e forse in un certo senso hanno conseguito un successo, ma non potrà mai avere fine il rapporto diseguale tra uomo e donna se non cambia la concezione che gli uomini stessi hanno delle donne.
Bibliografia:
Giardini, F. Concepire la Trasformazione.
Giardini, F. Differenza, conflitto costituente.
Lussana, F. Le donne e la modernizzazione: il neofemminismo degli anni Settanta, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, L’Italia nella crisi mondiale. L’ultimo ventennio, tomo 2, Istituzioni, politiche, culture, Torino, Einaudi, 1997, pp. 523-533.
Rivolta Femminile, Manifesto di Rivolta Femminile, in C. Lonzi, Sputiamo su Hegel e altri scritti, Rivolta Femminile 1970.