Il genere della contemporaneità.  Politica, lavoro industriale, movimento operaio e socialista di fronte alla “questione femminile”.  Appunti su un patto escludente

Il genere della contemporaneità. Politica, lavoro industriale, movimento operaio e socialista di fronte alla “questione femminile”. Appunti su un patto escludente

Roberto Carocci1

Ciò che si vuole delineare è una panoramica generale e orientativa circa gli elementi originari che, nell’età contemporanea, hanno caratterizzato la ridefinizione dei ruoli di genere attraverso l’esclusione di quello femminile dalla decisionalità politica così come dalla produzione industriale. Prendendo le mosse da questo contesto, si è voluto indagare l’atteggiamento assunto dalle principali correnti del movimento operaio e socialista di fronte alla cosiddetta questione femminile. Ciò che ne è emerso è il delinearsi di un patto escludente tra il nascente modo di produzione capitalista, le strutture patriarcali precedenti e l’affermazione dello Stato moderno, finalizzato al ridefinirsi in chiave conservativa delle gerarchie di genere e di cui il movimento socialista e sindacale ne fu in larga parte agente.

  1. Estromissione politica e marginalizzazione dal lavoro industriale

Fin dalla Rivoluzione Francese e nei sommovimenti successivi, l’età contemporanea è stata segnata dal protagonismo femminile. Non una semplice presenza o partecipazione delle donne, bensì un loro posizionamento d’apripista nell’iniziativa sociale più generale, giocando il ruolo di vere e proprie «eccitatrici alla sommossa»2, come ben rappresentato da certa iconografia ottocentesca3.

Riguardo gli eventi francesi, furono le donne le prime a riunirsi nelle strade il 5 ottobre 1879 e a fronteggiare i soldati, le prime a chiamare la popolazione in piazza e le prime a voler marciare su Versailles. Tuttavia, con il successivo intervento della Guardia Nazionale, ovvero il monopolio maschile della forza, furono estromesse dalla ribalta degli eventi e, in seguito, dalla decisionalità politica. All’atto costitutivo dello Stato moderno, da eroine della rivoluzione, le donne si trasformarono in «cittadine prive di cittadinanza». Nelle assemblee di base furono ammesse senza diritto di parola ma al solo fine di apprendere i valori rivoluzionari così da educare i figli alla nuova etica della Nazione, ancora confinate nell’ambito domestico nella veste di «madri repubblicane». Il suffragio universale maschile, sancito dalla Costituzioni del 1791 e del 1793, ne decretò infine la definitiva preclusione da ogni spazio politico4.

La Rivoluzione francese ha senz’altro rappresentato un momento di svolta nella storia delle donne, momento emblematico del loro protagonismo diretto che si tradusse anche nella produzione di una prima letteratura femminista come la Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne (1791) di Olympe de Gouges e, per altri versi, gli scritti di Mary Wollstonecraft5. Eppure, il suo esito comportò una ridefinizione delle gerarchie tra i sessi secondo un ordine patriarcale con una sovrapposizione stridente tra la conquista femminile dello spazio pubblico e l’estraniazione da quello politico, in cui il primo venne disciplinato dal secondo. Se da una parte furono immessi criteri giuridici improntati a una logica individualista ed egalitaria, collocando uomini e donne sul medesimo piano dell’ordinamento civile, dall’altra il mantenimento del controllo maschile sul campo legislativo permise un ulteriore limitazione nell’accesso all’istruzione (una delle richieste delle rivoluzionarie del’89), così come servì a ostacolare l’ingresso delle donne nell’industria moderna6.

La rivoluzione industriale aveva difatti comportato il trasferimento della produzione dall’ambito domestico a quello della fabbrica. Si trattò di un fenomeno dall’ampiezza straordinaria che, nella sua fase culminante, vide l’emergente capitalismo industriale fare un largo utilizzo della manodopera femminile e giovanile, sia per il suo costo minore sia perché le donne e i “fanciulli” erano considerati maggiormente ricattabili e disciplinabili7. Mettendo in discussione la sostenibilità della riproduzione sociale, tale passaggio interrogò la compatibilità tra questa e il lavoro salariato. Il dibattito che ne derivò si risolse in una presunta inconciliabilità tra funzione produttiva e funzione riproduttiva e una divisione del lavoro disciplinata in base al genere, con la sostanziale esclusione delle donne dall’industria.

Gli strumenti per attuare tale estromissione furono essenzialmente due. Venne innanzitutto impedito l’autosostentamento delle lavoratrici tramite una netta asimmetria salariale, con una forbice in media del 30-50% in meno per le retribuzioni femminili rispetto a quelle maschili. La miseria salariale costrinse le donne a uscire dalle fabbriche per far ritorno alle funzioni domestiche in una condizione di dipendenza dal salario degli uomini, sotto il controllo del quale venne così posto anche l’ambito riproduttivo. Un secondo strumento di allontanamento delle donne dal lavoro industriale fu la loro destinazione a mansioni dequalificate (e giustificative dei bassi salari) che le ponevano al gradino più basso della gerarchia produttiva. L’impiego femminile era infatti per lo più previsto in età giovanile8, con la conseguenza che la formazione impartita alle giovani non era finalizzata all’apprendimento di un mestiere specifico bensì a un impegno generico nella prospettiva socialmente accettata del matrimonio9. Nelle occupazioni femminili prevalse pertanto la continuità con mansioni premoderne e, anche nel caso di impiego nel lavoro manifatturiero, questo era previsto come «accessorio» e comunque subalterno a quello maschile10.

A livello mondiale, l’unico settore industriale a prevalenza femminile, con tutta probabilità, fu quello della manifattura dei tabacchi; il tessile vide una larga presenza di donne ma rimase nel suo complesso – salvo alcune eccezioni – a prevalenza maschile, mentre la maggioranza delle donne rimanevano impiegate nei lavori domiciliari. Alcune statistiche dei paesi più industrializzati permettono di coglierne il peso quantitativo: nell’Inghilterra del 1851, il 40% delle lavoratrici erano occupate come governanti o cucitrici e il 22% nel tessile; in Francia, nel 1866, erano rispettivamente il 22% e il 10%, mentre in Prussia il 18% e il 12%. All’inizio del Novecento, con l’incedere della società di massa, si verificarono alcune trasformazioni, ma non mutarono la sostanziale esclusione delle donne dalla produzione industriale né la scarsa qualità delle loro mansioni, comunque ausiliarie a quelle maschili, come i bassi ranghi dei colletti bianchi (segretarie, dattilografe, archiviste, ecc). Se, nel 1870, negli Stati Uniti, il 50% delle salariate erano inquadrate nel settore domiciliare, nel 1920 il 40% esercitava ruoli impiegatizi; la stessa percentuale era riscontrabile in Francia nel 190611.

Un ulteriore fattore di gerarchizzazione sessuata del mercato del lavoro si verificò nei Paesi maggiormente industrializzati, tra Ottocento e Novecento, tramite provvedimenti legislativi cosiddetti “protettivi” (per il lavoro sotterraneo o quello notturno) che determinarono un’ulteriore esclusione delle donne dall’industria (ma non dai settori agricoli, domestici o del terziario). Al tempo stesso, sempre per iniziativa statale, furono accentuate le rigidità del diritto di famiglia che, per le donne, diventò una vera e propria «trappola» tesa a disciplinare ulteriormente il lavoro riproduttivo12.

  1. Sindacalismo: singolare maschile.

L’esclusione delle donne dal lavoro industriale fu in buona sostanza accettata e sostenuta dall’insieme del movimento operaio. Tra le motivazioni di un atteggiamento ostativo da parte del proletariato maschile vi era il timore che all’ingresso nel mercato del lavoro di lavoratrici a basso costo potesse corrispondere un indebolimento salariale e contrattuale per l’insieme del corpo operaio. Altre motivazioni avevano a che fare con considerazioni di tipo paternalistico, come il voler preservare le donne dal duro e spesso degradato ambiente di fabbrica. Era inoltre diffuso una sorta di conservatorismo anticapitalista quale reazione a un’industrializzazione che tendeva a distruggere le relazioni sociali precedenti, improntate sul modello della famiglia patriarcale e contadina.

In effetti, l’impiego delle donne nelle mansioni meno qualificate, così come la sottovalutazione salariale, garantivano agli imprenditori l’utilizzo di un’enorme massa di manodopera a basso e bassissimo costo, estremamente ricattabile con il parziale effetto di contenere più in generale i livelli salariali. Ne conseguiva una sorta di «sotto-concorrenza operaia», in cui i lavoratori maschi adulti tendevano a difendere i propri livelli di reddito13. Tuttavia, l’asimmetria salariale non è sufficiente a spiegare tale diffidenza. La separazione più o meno completa degli ambiti di lavoro tra uomini e donne non determinava alcuna competizione diretta, poiché rendeva non sostituibile il lavoro dell’uno con quello dell’altra14 che era per lo più «intermittente e spesso informale» e quasi mai strutturale15.

L’associazionismo mutualistico e sindacale accettò in buona sostanza la divisione sessuata del mercato del lavoro come fattore naturale, considerando la manodopera femminile più come una «minaccia» che una possibilità di accrescimento della propria forza contrattuale16. Atteggiamento che permaneva nonostante le operaie mostrassero una spiccata predisposizione conflittuale e si proponessero come apripista per la conquista di diritti più generali, incentrati sulla liberazione dei tempi di vita tramite la riduzione dell’orario di lavoro. In questo senso, un esempio significativo fu, nel 1901, la conquista delle 8 ore delle tabacchine romane, che per almeno trent’anni furono isolate dal movimento operaio cittadino17, o quello antecedente delle tessili americane che rivendicavano la giornata di 10 ore anziché 14-16, anch’esse del tutto inascoltate dal proletariato maschile.

La tensione escludente si riverberò sul piano associativo con una scarsa accoglienza delle operaie o con la loro separazione in sezioni specifiche. Tra le prime organizzazioni sindacali a prevedere la presenza femminile, se pure in sezioni separate, furono quelle statunitensi della manifattura tabacchi, dei tessili e l’Unione dei Lavoratori Neri negli anni Sessanta e Settanta del XIX secolo, cui seguirono i Knights of Labor nel 188118. Ma furono casi per lo più isolati, in un contesto improntato dal rifiuto a organizzare le lavoratrici nell’ottica di una loro estromissione dal lavoro industriale. Nel 1874, il Consiglio dei delegati delle Trade Unions inglesi rifiutò di accettare delegate operaie; al Trade Union Congress del 1877, i convenuti approvarono che, «come uomini e come mariti», avrebbero «fatto di tutto» per mantenere le donne nella sfera domestica. Due anni più tardi, il congresso sindacale riunito a Marsiglia fece l’«elogio della donna casalinga» asserendo che «il luogo reale della donna non sia nella fabbrica o nell’officina, ma nella casa, nella famiglia». Negli anni Settanta e Ottanta, i congressi dei sindacati francesi del nord imposero alle operaie di poter prendere parola solo con l’autorizzazione scritta del marito o del padre. I sindacati dei tipografi nordamericani, francesi e inglesi accettarono l’affiliazione femminile solo nel caso in cui le addette avessero percepito lo stesso salario degli uomini19, cioè mai. Al congresso mondiale dei tipografi (Bruxelles, il 18 luglio 1880) fu approvato un documento dal contenuto piuttosto emblematico: «[è] immorale il porre la donna costantemente a contatto con l’uomo nelle officine, e che la sua costituzione non risponde alle esigenze tipografiche, il Congresso fa voti perché non sia permessa la introduzione della donna nelle tipografie»20. Anche nelle associazioni di mutuo soccorso italiane di fine Ottocento la presenza femminile era assai scarsa. Nel 1873, su 1264 società mutualistiche, 900 erano quelle maschili, 42 le femminili e 322 miste ma a prevalenza maschile con, complessivamente, 196.950 uomini e 20.956 donne, circa il 10%21. Nel giro di un decennio, le associazioni maschili passarono a 2861, quelle femminili a 109 e quelle miste a 792, con una drastica riduzione della presenza femminile, con 35.853 donne e 531.853 uomini22.

Il generale atteggiamento di chiusura del movimento operaio favorì solo in parte l’apertura di spazi autonomi e la costruzione di soggettività indipendenti da parte delle lavoratrici, come nel caso delle tabacchine romane o in quello più strutturato della British Women’s Trade Union League23. In questo contesto, va comunque segnalata la pur parziale e contraddittoria, ma ugualmente significativa, eccezione costituita dalla corrente sindacalista rivoluzionaria. Fu il caso dell’Industrial Workers of the World (IWW) statunitense (1905), della Confederación National del Trabajo spagnola (1910) e dall’Unione Sindacale Italiana (1912) che videro la presenza di donne anche all’interno degli organismi di direzione. Alquanto peculiare fu l’esperienza degli IWW che, sebbene fossero presenti principalmente in industrie a maggioranza maschile, non rifiutavano di organizzare le operaie, apportando anche alcune sperimentazioni e innovazioni, come le Women’s Brigade, durante gli scioperi del 1907 di Portland, associando le prostitute nel 1913 o, ancora, sostenendo i diritti riproduttivi come il controllo delle nascite24.

  1. Insufficienze liberali e incertezze socialiste.

In seguito alla Rivoluzione francese, il protagonismo femminile si tradusse in primi movimenti femministi nei quali si enucleava un’«identità pubblica» di minoranze attive di donne, che tendevano a inserirsi e a dialogare con le correnti di stampo liberale o progressista.

Negli Stati Uniti, le associazioni femminili delle classi medie promossero l’estensione dei diritti di cittadinanza al di là dei ruoli di madre e di moglie. In Europa si verificò invece una maggiore oscillazione tra le istanze borghesi e la nuova propaganda operaia. In Italia fu significativa, se pure dallo scarso seguito, la proposta democratica dalle influenze fourieriste di Anna Maria Mazzoni, incentrata sull’emancipazione politica (il diritto di voto), quella economica (il libero accesso professionale) e giuridica (con un diritto di famiglia fortemente egalitario). Piuttosto vivace ed emblematica fu invece la vicenda dei femminismi russi sorti all’interno dell’alveo liberale che andarono via via radicalizzandosi fino alla rottura nichilista25.

In base a una concezione individualistica, il pensiero liberale ebbe l’indubbio merito di favorire l’iniziativa femminile, ma non superò una concezione subordinata alle istituzioni del potere maschile. Particolarmente audace fu il presupposto gettato da John Stuart Mill con The Subjection of Women (1869) nel quale individuava nella famiglia patriarcale il maggiore ostacolo al progresso civile. L’inferiorità femminile veniva rifiutata come un concetto «altamente artificiale» e, pur immaginando l’ambito domestico come quello più adatto alle donne, Mill non escludeva – se bene non auspicandolo del tutto – una loro presenza nel mondo industriale26. Per quanto avanzato, il suo discorso non sortì ricadute significative negli ambienti liberali, se non nel campo del suffragismo elettorale.

Solo in parte diversa fu la reazione del nascente e composito movimento socialista. Se Henri de Saint-Simon mostrò un «atteggiamento distratto» alla questione femminile, i suoi discepoli aprirono i ranghi della loro corrente permettendo l’avvicinamento al socialismo di numerose proletarie ed esercitando una certa influenza sui destini del femminismo. Tale apertura fu tuttavia mal digerita da buona parte della componente maschile, finché quella femminile non fu esclusa dalla gerarchia del movimento. Ne seguirono scissioni di una certa gravità che, nel 1832, portarono le sansimoniane a fondare il periodico «La Femme Libre» (considerata la prima rivista femminista), e a costituire una propria associazione (contraddistinta dal colore viola) incentrata sull’educazione professionale delle donne e la loro immissione nell’industria a parità salariale.

Più definito fu l’approccio della corrente ispirata da Charles Fourier. Nella condizione femminile era individuata la misura del progresso dell’insieme della società e veniva perciò previsto il libero accesso all’istruzione e al lavoro e la negazione della segregazione nell’ambito domestico. Pertanto, le donne non erano più predestinate al ruolo di madre/moglie e la maternità veniva concepita come una scelta corrispondente alla sola vocazione individuale. Era un’impostazione radicalmente egalitaria che, non a caso, risultò fortemente attrattiva per le femministe socialiste uscite dall’esperienza sansimoniana27.

A fornire un contributo alla formazione di una soggettività femminile operaia, per quanto contraddittorio, fu Flora Tristan. Nel suo Union Ouvrière (1843), ella si rivolgeva direttamente alle lavoratrici proponendo «l’eguaglianza assoluta» tra i sessi e, nella considerazione che «dall’educazione della donna dipende[sse] quella dell’uomo», indicava il miglioramento della condizione femminile come conveniente a un avanzamento comune. Rivolgendosi agli uomini, li ammoniva senza mezzi termini: «la legge che assoggetta la donna e la priva dell’istruzione opprime voi, proletari»! Purtuttavia, nella sua concezione, l’uguaglianza tra i generi era possibile solo in forza dell’iniziativa maschile: «pensate voi uomini – li esortava – a liberare gli ultimi schiavi […] proclamate i diritti della donna». Tale atteggiamento si rifletteva nel Progetto dell’Unione universale degli operai e delle operaie da lei stilato che prevedeva un’Unione organizzata in comitati di base composti da «cinque uomini e due donne» e uno centrale formato da «40 uomini e 10 donne» (artt. 1 e 7). In una nota allo statuto, la stessa Tristan motivò la scelta di un dislivello associativo così marcato: «Se non prevedo un numero uguale di uomini e donne è perché è noto che al giorno d’oggi le operaie sono molto meno istruite e meno sviluppate degli operai»28. In questo modo, la dimensione egalitaria costituiva più un’ambizione che un presupposto, mentre il protagonismo femminile non trovava spazio né possibilità di generalizzazione e, tanto meno, veniva favorito un qualsiasi tipo di soggettivazione autonoma delle donne in funzione di una loro autodeterminazione.

  1. Madri o operaie? Il dibattito nella Prima Internazionale.

A partire dal 1864, diverse correnti del giovane movimento operaio e socialista si riunirono nell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (AIL o Prima Internazionale), dando vita a un vivace laboratorio per l’emancipazione delle classi subalterne in cui la questione femminile trovò però uno spazio limitato e, per come venne affrontata, apparve fin «da subito una questione tra e da uomini».

La partecipazione delle donne alla produzione industriale fu discussa fin dal I congresso (Ginevra, 1866), dove Marx diede lettura di un Rapporto del Consiglio generale che prevedeva che alle donne «in ogni caso [dovesse] essere rigorosamente proibito qualunque lavoro notturno e ogni tipo di lavoro in cui fosse ferito il pudore e in cui il corpo potesse venir esposto a veleni o ad altri agenti dannosi». A questo pronunciamento paternalistico, rispose quasi unanime la sezione francese, per lo più composta da esponenti vicini alle idee di Pierre-Jospeh Proudhon, che rifiutò del tutto la partecipazione femminile al lavoro industriale (considerata una vera e propria «prostituzione di fabbrica») ed esigendo per la donna il solo esercizio dei compiti domestici in qualità di «educatrice naturale del bambino che, sola, può preparare a una vita civica, maschia e libera». Tra i delegati francesi, una minoranza di altri proudhoniani – come Eugène Varlin – ritenne una «follia» escludere le donne dalla produzione industriale e propose un emendamento per il miglioramento delle condizioni delle lavoratrici per quanto riguardava il salario, l’educazione, l’igiene e la sicurezza. La loro rimase una voce isolata e il congresso approvò il Rapporto presentato da Marx insieme alla mozione di maggioranza della sezione francese29, con una convergenza tra i marxisti e la parte antifemminista dell’area proudhoniana.

Al congresso successivo (Losanna 1867), il Consiglio generale propose la definitiva esclusione delle donne dal lavoro industriale e il loro ritorno all’ambito domestico sotto il controllo maschile: «La donna, per sua natura fisica e morale, è naturalmente chiamata alle funzioni pacifiche e minuziose del focolare domestico: è quello il suo reparto. Noi non crediamo sia utile alla società darle ancora un altro ministero […]. Come madre, la donna è prima educatrice del fanciullo, ma alla condizione espressa che il padre agisca come forza dirigente»30.

In questa occasione, la sezione belga inviò due documenti di segno opposto. Quello di maggioranza, presentato da César De Paepe (collettivista poi passato al marxismo e tra i maggiori teorici dell’AIL), indicava la fabbrica come un luogo «anormale», «contro natura» e «incompatibile con i destini della donna e col ruolo che è chiamata a svolgere», asserendo che l’emancipazione femminile sarebbe stata possibile solo grazie all’iniziativa dei lavoratori maschi. Il secondo, invece, proposto da tre delegati (tra cui gli ex proudhoniani, ora bakunisti, Eugène Hins e Paul Robin) e significativamente intitolato Sull’indipendenza e l’emancipazione della donna, chiedeva il pieno diritto al lavoro con il «medesimo titolo dell’uomo», cosicché la donna non «[fosse] incatenata a lui dalla necessità». Veniva inoltre rifiutata l’idea che l’occupazione femminile comportasse il ribasso dei salari maschili, imputabile invece all’organizzazione del lavoro capitalista, mentre la presunta debolezza fisica delle donne (motivo di esclusione dall’industria) era ritenuta facilmente ovviabile dall’utilizzo delle macchine. Era infine proposta l’apertura di una cassa per il sostegno delle madri sole, introducendo un elemento innovativo, volto alla socializzazione mutualistica del lavoro domestico. Tale risoluzione tuttavia non trovò eco tra i congressisti, che approvarono solo alcune parti di quella di maggioranza31.

La successiva assise di Bruxelles (1868), tornò sulla questione chiarendo che, «in nome della libertà della madre», la donna dovesse essere «strappa[ta] all’officina che la demoralizza e l’uccide […] per l’abuso di un lavoro pel quale non è fatta. La donna ha per scopo essenziale quello di essere una madre di famiglia, la donna deve restare a casa, il lavoro deve esserle proibito»32. L’anno successivo a Basilea, due delegati svizzeri proposero, invece, di favorire l’occupazione femminile tramite una graduale parità salariale, ma la loro proposta non suscitò alcun dibattito. Ciononostante, la crescente partecipazione delle operaie alla lotta di classe, non poteva essere elusa. Alla conferenza di Londra (1871), pur tra forti contrasti, fu approvata la formazione di sezioni femminili dell’AIL, accettando una situazione di fatto che, su iniziativa delle lavoratrici, aveva visto il sorgere spontaneo di ambiti internazionalisti prettamente femminili33.

Al congresso dell’Aja (1872) – in cui si consumò la definitiva rottura tra marxisti e anarchici – le operaie della sezione ginevrina delegarono Harriet Law, unica donna membro del Consiglio generale, a presentare un loro documento che prevedeva il sostegno dell’Internazionale al pieno ingresso delle donne nel lavoro industriale e la completa uguaglianza salariale. Al tempo stesso, le operaie ginevrine chiedevano – ed è significativo che lo facessero nel congresso della scissione – che all’interno dell’AIL fosse garantita la libera espressione delle diverse correnti di pensiero del movimento socialista, ma non trovarono alcun ascolto 34.

  1. La subordinazione marxista.

A eccezione di alcuni passaggi di Marx, per altro poco significativi, nel socialismo scientifico la questione femminile è stata per lo più elusa, se non per i testi di August Bebel, La donna e il socialismo (1883), e di Fredrich Engels, L’origine della proprietà privata, della famiglia e dello Stato (1884), che tuttavia non si distaccavano dalla generale diffidenza espressa dal movimento socialista nei confronti dell’emancipazione femminile. Questa veniva difatti subordinata alla questione economica, rimandandola alla liquidazione del capitalismo, senza indicare alcun intervento specifico e, quindi, senza determinare ricadute di rilievo pratico-organizzative nella socialdemocrazia internazionale e, in seguito, nel movimento comunista.

Rispetto a Engels, Bebel ha senz’altro offerto un quadro di maggiore respiro riconducendo l’ineguaglianza di genere al dominio maschile e non solo agli assetti capitalistici, ma la sua lettura non usciva da una concezione della lotta femminista come niente di più che una deviazione borghese35. Ed è proprio qui che risiede una delle maggiori differenze tra il socialismo utopistico e quello scientifico, con il primo che, se pure confusamente, prendeva in esame l’emancipazione femminile sia nell’ambito dello sfruttamento economico sia nella vita privata e familiare36. Non a caso, le «riflessioni marxiste sull’oppressione di genere non sono state caratterizzate da un tentativo sistematico di fornire una spiegazione teorica del nesso tra relazioni di produzione e gerarchia tra i sessi»37. O, meglio, quel nesso è stato schiacciato sui rapporti di produzione nella convinzione di una presunta, ma non dimostrata, sussunzione del patriarcato da parte del nascente capitalismo.

Engels considerava l’affacciarsi della famiglia monogamica come «il primo contrasto di classe che compare nella storia» e che «la prima oppressione di classe coinci[desse] con quella del sesso femminile da parte di quello maschile». L’ingresso delle donne nell’industria avrebbe invece avuto l’effetto di far «cadere completamente ogni base all’ultimo residuo della dominazione dell’uomo», costituendo una «condizione preliminare» all’emancipazione femminile. La partecipazione delle donne alla produzione industriale avrebbe a sua volta riaperto loro «la via della riproduzione sociale», trasformando «l’amministrazione domestica privata […] in un’industria sociale […] un fatto di pubblico interesse». Alla base di questo ragionamento vi era la convinzione che «la grande industria moderna […] tende[sse] sempre più a trasformare lo stesso lavoro domestico privato in un’industria pubblica» e che il rapporto tra i sessi fosse determinato da «una divisione del lavoro del tutto naturale». Pertanto, l’impiego femminile – anche nella sua forma industriale – sarebbe stato comunque confinato nella funzione riproduttiva. L’oppressione patriarcale veniva invece a coincidere – per sussunzione o altro – con l’ordine borghese rimanendo un fattore estraneo alla vita delle classi subalterne. Non a caso Engels affermava che la famiglia proletaria, mancando di ogni proprietà, «manc[asse] dunque anche ogni incitamento a far valere la dominazione dell’uomo [sulla donna]». Non diventava quindi difficile agli occhi del pensatore marxista rinviare l’emancipazione femminile a «dopo che sarà spazzata via la produzione capitalista»38.

Tale impostazione fu alla base della formazione dei partiti d’ispirazione marxista, per i quali l’emancipazione femminile non era oggetto di lotta immediata ma veniva programmaticamente risolta nella lotta economica e comunque rimandata a una fase successiva alla trasformazione del modo di produzione.

In una delle società più industrializzate, quella statunitense, il movimento comunista fu fin dalle origini – con la nascita della Proletarian League (1852) per opera di Josef Weydemeyer, stretto collaboratore di Marx ed Engels – un affare prettamente maschile, almeno fino alla costituzione del Socialist Party all’inizio del Novecento39. Situazione non troppo dissimile si verificò nelle maggiori organizzazioni europee, anch’esse dominate dagli uomini, in cui l’ammissione delle rivendicazioni femminili portò a scissioni o a rinunce da parte delle militanti.

Per fare alcuni esempi, nel 1889, le socialiste olandesi uscirono in blocco dall’Unione Socialdemocratica (il primo e tra i più importanti partiti socialisti dell’epoca) per fondare un loro organismo autonomo, rientrando solo nel 1894 ma dando vita a una struttura interna separata. Le socialdemocratiche austriache, al contrario, considerata l’ostilità della direzione del partito verso il suffragio femminile, preferirono rinunciarvi per non compromettere l’unità organizzativa. In Inghilterra, il sindacato delle tessili chiese al Labour Party di sostenere il diritto di voto alle donne, ma fu risposto loro di attendere. La questione fu ripresa da Emmeline Punkhurst con l’Independent Socialist Party di Manchester e la nascita, nel 1903, della Women’s Social and Political Union, che prevedeva la sola affiliazione femminile. All’interno del Partito Socialista Italiano, Anna Kuliscioff fu protagonista di una faticosa e solitaria battaglia in favore di alcune rivendicazioni femminili40.

Alla nascita di quella che sarebbe stato considerato il partito-modello e la culla del socialismo internazionale, la Socialdemocrazia tedesca, l’immissione femminile nel lavoro industriale si risolse in maniera assai restrittiva se non addirittura escludente. Al congresso costitutivo (Gotha 1874), il programma approvato prevedeva «l’abolizione del lavoro dei fanciulli e di tutti quei lavori considerati pericolosi per la salute e la moralità femminile»41. Lo stesso Marx, nella Critica al programma di Gotha (1875), assumeva un atteggiamento ancor più restrittivo suggerendo una limitazione del lavoro femminile più ampia e non solo nei casi nocivi. Solo successivamente, tra Ottocento e Novecento, si espresse la voce, per altro isolata di Clara Zetkin che, «non riconosc[endo] la questione di una particolare condizione femminile», richiese che nel lavoro industriale non fosse prevista alcuna distinzioni tra uomini e donne42.

Dove il marxismo trovò un terreno di verifica circa la questione femminile fu nella Russia bolscevica sebbene, pur tra significativi e comunque «modesti» progressi, non andò oltre le concezioni già espresse da Engels. Rimandando ogni questione all’abbattimento definitivo della società capitalista, la lotta femminista veniva pertanto considerata dai bolscevichi nient’altro che una deviazione borghese. Così vennero recepite, in particolare da Lenin, le richieste avanzate dalle dirigenti Ines Armand e, soprattutto, Alexandra Kollontaj. Con il 1917, vi fu una spinta in senso più radical-liberale che socialista (diritto all’aborto, matrimonio laico, ecc) volta al miglioramento della condizione femminile, ma che fu via via ridotta negli anni della guerra civile, mentre in seguito al 1921 (anno cruciale nella periodizzazione del bolscevismo, segnato dalla repressione della Comune di Kronstadt, dall’inaugurazione della NEP e dall’abolizione della democrazia interna) il partito comunista tornò a una concezione tradizionale delle relazioni tra i generi43.

  1. La (parziale) anomalia dell’anarchismo

Nel contesto operaio e socialista, l’anarchismo costituì una parziale eccezione. Aprendo una «fessura nelle gerarchie di potere e proclama[ndo] l’uguaglianza di tutti gli individui, [il movimento antiautoritario] offriva uno spazio concreto di compensazione e lotta, nel quale trovare riconoscimento e speranza»44. Ma anche in questo caso la questione non fu affatto facile né lineare.

Colui che, non a torto, è considerato l’iniziatore del pensiero anarchico, Pierre-Joseph Proudhon esprimeva un solido atteggiamento antifemminista. Egli faceva infatti proprio, radicalizzandolo, il diffuso atteggiamento presente nel mondo operaio, introiettando l’accettazione di una presunta divisione naturale del lavoro per la quale il «destino della donna» non poteva essere altro che quello di «cortigiana o massaia»45. Più esplicitamente e più rozzamente di altri, Proudhon negava l’uguaglianza tra i generi sostenendo che l’emancipazione femminile fosse uno degli «equivoci» del pensiero socialista, nient’altro che una «fantasia», cui contrapponeva la segregazione domestica: «governare la casa è ciò che più si addice alla donna»46.

Purtuttavia, all’interno della corrente anarchica delle origini, più di una tensione femminista è invece riscontrabile nell’opera di William Godwin, compagno di Mary Wollstonecraft e tra i maggiori pionieri del pensiero libertario. Successivamente, a innervare l’anarchismo con i principi femministi fu Michail Bakunin che, fin dalla giovinezza, a Parigi, era stato assiduo frequentatore di George Sand e dalla quale si lasciò largamente influenzare47.

In quello che è considerato il suo primo scritto anarchico, Societé internationale secrète de l’emancipation de l’humanité (1864), Bakunin prevedeva la piena «parità» tra i generi anche per ciò che concerneva il lavoro e l’istruzione, elementi senza i quali qualsiasi idea di liberazione avrebbe assunto il valore di una «menzogna». Pur ammettendo che le donne sarebbero state impiegate «soprattutto per l’educazione ed istruzione dei figli», questo non rispondeva a un elemento naturale, bensì all’inclinazione individuale. Il lavoro, non più prerogativa maschile, diventava il principio emancipatore sia per gli uomini sia per le donne, mentre si prevedeva la socializzazione del lavoro di cura con l’immissione di elementi di mutuo soccorso o welfare. Tale impostazione ebbe un suo precipitato nella fondazione dell’Alleanza Internazionale per la Democrazia Socialista (confluita nella Prima Internazionale nel 1869) che nel suo programma poneva «prima di ogni altra cosa l’uguaglianza politica, economica e sociale dei due sessi», con piena possibilità «per tutti i bambini dei due sessi […] di educarsi e di istruirsi a tutti i livelli scientifici, industriali e artistici»48.

Nel suo testo più noto, Stato e anarchia (1873), Bakunin tornava sulla questione smontando il mito in auge in quegli anni tra le giovani generazioni di rivoluzionari russi circa il «sistema patriarcale» delle comunità contadine, che egli invece considerava un «male storico gravissimo» da «combattere con tutte le nostre forze»49. Insomma, con Bakunin la lotta all’ordine patriarcale assumeva per l’anarchismo un carattere teorico-programmatico le cui prime ricadute si ebbero – come abbiamo visto – nel dibattito interno alla Prima Internazionale.

Da questo punto di vista è significativa l’esperienza delle internazionaliste italiane che permisero la penetrazione tra i ceti subalterni di idee libertarie e femministe fuori dal raggio d’azione della borghesia50.

Sotto la presidenza dell’anarchica Maria Luisa Minguzzi, le internazionaliste della sezione femminile di Firenze, nel 1876, pubblicarono un Manifesto programmatico indirizzato alle operaie italiane nel quale chiamavano le proletarie ad agire per essere «libere ed eguali»: «Nella emancipazione del lavoro sta la soluzione della questione sociale [giacché] i nostri diritti di esseri umani […] la libertà e la vita nostra [siano] assicurate mediante il nostro lavoro […] [perché] la nostra vita non sia più alla mercé del caso o dei capricci degli uomini», proponendo un femminismo non più incentrato sull’«emancipazione borghese» bensì sull’«emancipazione umana»51.

Erano donne che si rivolgevano ad altre donne in un processo di soggettivazione che si riconosceva nella lotta all’oppressione capitalista e, contestualmente, a quella patriarcale. Oltre ad aver favorito l’associazione femminile in seno al socialismo e aver contribuito a influenzare quest’ultimo in senso femminista, l’iniziativa delle internazionaliste fiorentine gettò i presupposti affinché l’anarchismo italiano accogliesse con particolare apertura la questione femminile. Gli esiti furono comunque contraddittori. Più positivo fu in questo senso il contributo di Errico Malatesta, direttamente influenzato dalla stessa Maria Luisa Minguzzi con cui era in rapporto diretto52, il quale già nel suo fortunato opuscolo Fra contadini (1884) esprimeva una concezione radialmente egalitaria nel rapporto tra i generi53. Francesco S. Merlino, anch’egli molto vicino a Malatesta, individuava nella famiglia il «diritto di proprietà che l’uomo si è arrogato sulla donna», proponendo di contro «l’unione libera fra’ due sessi fondata sull’amore, l’uguaglianza sociale dell’uomo e della donna»54.

Nonostante tali presupposti, l’eccezione anarchica fu comunque parziale. Più in generale anche l’anarchismo, se bene con presupposti diversi dal marxismo, subordinò meccanicamente l’emancipazione femminile alla nascita della società complessivamente libera. Così proponeva anche uno dei più fini teorici libertari, Luigi Fabbri, nelle sue pur giovanili Lettere a una donna sull’anarchia (1905), il quale in ogni caso individuava tra gli agenti dell’oppressione femminile non solo la dimensione politico-economica, ma anche quella più strettamente di genere chiamando le donne a «ribellar[si] all’egoismo e alla prepotenza dell’altro sesso»55. Fabbri proponeva pertanto un elemento non riducibile alla sola contraddizione capitale/lavoro, ma anche un motivo di azione immediata e non rimandabile. Riflesso di questa contraddizione furono i periodici interamente scritti da anarchiche, «Donna Libertaria» (Parma, 1912-1913) e «Alba Libertaria» (Pontremoli, 1915), che insistevano nell’inquadrare l’emancipazione della donna in una più generale emancipazione umana, cioè nella realizzazione di una società anarchica. Al tempo stesso, denunciavano il «disinteresse» mostrato dall’insieme del movimento – a prevalenza maschile – verso la questione femminile56.

Esperienze di radicalizzazione femminista, in seno al movimento anarchico, si sono verificate ovviamente anche fuori dall’Italia, come per esempio con la pubblicazione argentina «La Voz de la Mujer» (Buenos Aires, 1896-97), scritta interamente da militanti libertarie che invitavano le donne a mobilitarsi non solo come lavoratrici ma anche per la loro specifica oppressione di genere57. A introdurre con maggiore forza l’emancipazione femminile in ambito anarchico, pur scontando la diffidenza dei suoi compagni, fu Emma Goldman. Il suo enfatizzare la «necessità di vivere la rivoluzione nella vita quotidiana, partendo dalle relazioni di intimità è forse il contributo più grande che [ella] ha dato alla riflessione femminista» nella convinzione di un rapporto non scindibile tra liberazione individuale e trasformazione sociale. Così facendo, Goldman «ha contribuito a dare una dimensione femminista all’anarchismo e una dimensione libertaria al femminismo»58.

  1. Conclusioni

Da questa breve e di certo non esaustiva panoramica emerge che, fin dalle origini della contemporaneità, si andò stipulando un patto empirico, contraddittorio e non univoco tra la novità rappresentata dall’affermazione del capitalismo industriale e le strutture sociali e culturali patriarcali precedenti che trovarono così modo di rinnovarsi. Un patto non lineare, basato su approssimazioni successive e adattamenti reciproci, reso possibile da concreti agenti connettivi. In questo senso lo Stato moderno ha rappresentato il primo elemento di conservazione delle strutture patriarcali, sia tramite la codificazione dell’esclusione delle donne dalla decisionalità politica con il suffragio maschile sia tramite la legislazione “protettiva” che ne sancì l’estromissione dalla produzione industriale. A ciò si aggiungeva lo stabilirsi di un diritto di famiglia tutto teso a confinare le donne nel campo delle attività domestiche di moglie e di madre.

Un altro agente connettivo del patto escludente nei confronti dell’elemento femminile è stato, nel con le dovute eccezioni e successivi mutamenti, il movimento operaio e socialista che – a netta prevalenza maschile – si fece strumento di conservazione dei privilegi patriarcali goduti anche dai proletari. il movimento operaio tese infatti a mantenere in ambito maschile la partecipazione al nuovo modo di produzione e operò lungamente per escludere dai propri ranghi associativi (politici ed economici) le lavoratrici, le quali vi entrarono più per la loro caparbietà e tensione conflittuale, che per concessione di parte maschile. Più in generale, nel movimento operaio, così come tra i suoi teorici delle diverse scuole socialiste, pesò l’esser frutto della società che pur si proponeva di trasformare nonché la difficoltà ad affrontare l’incedere della modernità capitalista nei suoi elementi di continuità così come in quelli di discontinuità e a comprenderne, nel pieno del suo farsi, lo stabilirsi di un patto tra politica statuale, capitalismo industriale e cultura patriarcale indirizzato a disciplinare la società secondo una gerarchia sessuata.

Roberto Carocci è docente a contratto di Storia contemporanea all’Università di Roma Tre. Ha conseguito il Dottorato di ricerca in storia contemporanea presso la Sapienza Università di Roma. Si occupa di storia del lavoro, del movimento operaio e del movimento anarchico e socialista. Tra le sue pubblicazioni principali segnaliamo le monografie “Roma sovversiva. Anarchismo e conflittualità sociale dall’età giolittiana al fascismo (1900-1926)” (Roma, 2012); “La Repubblica Romana. 1849: prove di democrazia e socialismo nel Risorgimento” (Roma, 2017).

1 Questo articolo è un approfondimento della prima parte della lezione da me tenuta il 24 marzo 2018 al Master Studi e Politiche di Genere, Dipartimento Filosofia Comunicazione e Spettacolo, Università degli Studi di Roma Tre; è pubblicato su «Società Filosofica Italiana», Sulmona, giugno 2019, ISSN 2281-6569.

2 Dominique Godineau, Sulle due sponde dell’Atlantico: pratiche rivoluzionarie femminili, in Georges Duby e Michelle Perrot (a cura di), Storia delle donne in Occidente. L’Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 16.

3 In questo senso, l’opera Libertà che guida il popolo (1830) di Eugène Delacroix (che rivoluzionario non era) raffigura una giovane donna con berretto frigio, seno nudo e tricolore al vento, alla guida di uomini in armi, soggetto che avrebbe successivamente influenzato rappresentazioni, come La libertà sulle barricate di Jean-François Millet e altri, Eric J. Hobsbawm, Lavoro, cultura e mentalità nella società industriale, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 99 e ss.

4 Dominique Godineau, Sulle due sponde dell’Atlantico, cit., pp. 18-19 e 30.

5 Olympe de Gouges, Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, Roma, Caravan, 2012; Mary Wollstonecraft, Tempo di rivoluzioni. Sui diritti degli uomini e delle donne (a cura di Giannarosa Vivian), Santa Maria Capua Vetere, Spartaco 2004.

6 Elisabeth G. Sledziewski, Rivoluzione e rapporto fra i sessi. La svolta francese, in Georges Duby e Michelle Perrot (a cura di), Storia delle donne, cit., pp. 36-37, 40-41 e 60-61.

7 Eric J. Hobsbawm, L’eta della rivoluzione 1789-1848, Rizzoli, Milano 1999, pp. 71 e 86.

8 Joan W. Scott, La donna lavoratrice nel XIX secolo, in Georges Duby e Michelle Perrot (a cura di), Storia delle donne, cit., pp. 355-358.

9 Angela Groppi, Lavoro e proprietà delle donne in età moderna, in Ead. (a cura di), Il lavoro delle donne, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 127-130.

10 Karl Marx, Forme che precedono la produzione capitalistica, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 19.

11 Joan W. Scott, La donna lavoratrice nel XIX secolo, cit., pp. 360 e 363.

12 Elisabeth G. Sledziewski, Rivoluzione e rapporto fra i sessi, cit., pp. 69 e ss.

13 Alessandra Pescarolo, Il lavoro e le risorse delle donne in età contemporanea, in Angela Groppi (a cura di), Il lavoro delle donne, cit., p. 300.

14 Maurice Dobb, I salari, Einaudi, Torino 1966, pp. 156-161.

15 Angela Groppi, Introduzione a Ead. (a cura di), Il lavoro delle donne, cit. pp. VI-VII.

16 Joan W. Scott, La donna lavoratrice nel XIX secolo, cit., pp. 365 e 374.

17 Ministero Agricoltura Industria e Commercio (MAIC), Direzione Generale della Statistica (DGS), Statistica degli scioperi avvenuti nell’industria e nell’agricoltura durante l’anno 1901, Bertero, Roma 1904, pp. 69-75 e 280-291.

18 Angela Davis, Donne, razza e classe, Alegre, Roma 2018, pp. 89-90, 181-182 e 133.

19 Cfr., Joan W. Scott, La donna lavoratrice nel XIX secolo, cit., pp. 365 e 374-376.

20 Cfr., Tomaso Bruno, La Federazione del Libro nei suoi primi cinquant’anni di vita, Mareggiani, Bologna 1925, p. 41.

21 MAIC, DGS, Statistica delle società di mutuo soccorso [Anno 1873], Regia tipografia, Roma 1975, pp. VIII e XV.

22 MAIC, DGS, Statistica delle società di mutuo soccorso e delle società cooperative annesse alle medesime. Anno 1885, Metastasio, Roma 1888, pp. XI-XII.

23 Joan W. Scott, La donna lavoratrice nel XIX secolo, cit., p. 375.

24 Ralph Darlington, Syndicalism and the Transition to Communism. An International Comparative Analysis, Ashgate, USA 2008, pp. 109-110.

25 Anne-Marie Käppeli, Scenari del femminismo, in Georges Duby e Michelle Perrot (a cura di), Storia delle donne, cit., pp. 483, 492-494 e 508-510. Sul caso italiano, Anna Maria Mozzoni, La donna e i suoi rapporti sociali. In occasione della revisione del Codice civile italiano, Tipografia Sociale, Milano 1864. Sulla Russia, Martina Guerrini, Le cospiratrici. Rivoluzionarie russe di fine Ottocento. Lettere e memorie di Olimpia Kutuzova Cafiero, Bfs, Pisa 2016.

26 John Stuart Mill, Sulla servitù delle donne, Bur, Roma 2007, pp. 50 e 82.

27 Elena Bignami, «Le schiave degli schiavi». La “questione femminile” dal socialismo utopistico all’anarchismo italiano (1825-1917), Clueb, Bologna 2011, pp. 44-51, 53, 56-58 e 65-72.

28 Flora Tristan, Femminismo e socialismo. L’unione operaia, Guaraldi, Firenze 1976, pp. 119-123, 128 e 130

29 Cfr., Elena Bignami, «Le schiave degli schiavi», cit., pp. 79-83; Maurizio Maddalena, La condizione della donna nei dibattiti della I Internazionale, in «Movimento operaio e socialista», 2-3, 1974, p. 162.

30 Cit. in Elena Bignami, «Le schiave degli schiavi», cit., p. 89.

31 Marcello Musto (a cura di), Prima Internazionale. Indirizzi, Risoluzioni, Discorsi e documenti, Donzelli, Roma 2014, pp. 53-54; Maurizio Maddalena, La condizione della donna nei dibattiti della I Internazionale, cit., pp. 165-169.

32 Cit. in Éduard Dolléans, Storia del movimento operaio (1830-1871), vol. I, Sansoni, Firenze 1977, p. 279.

33 Elena Bignami, «Le schiave degli schiavi», cit., pp. 83-87.

34 Marcello Musto (a cura di), Prima Internazionale, cit. p. 66.

35 Françoise Navailh, Il modello sovietico, in Georges Duby e Michelle Perrot (a cura di), Storia delle donne in Occidente. Il Novecento, Laterzam Roma-Bari 1992, pp. 273-274.

36 Elena Bignami, «Le schiave degli schiavi», cit., pp. 27-28.

37 Cinzia Arruzza, Il genere del capitale. Introduzione al femminismo marxista, in Stefano Petrucciani (a cura di), Storia del marxismo vol. III, Economia politica, cultura: Marx oggi, Carocci, Roma 2015, p. 71.

38 Fredrich Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Ed. Riuniti, Roma 1993, pp. 93, 207, 99, 101, 103, 193, 190 e 109 (corsivi miei).

39 Angela Davis, Donne, razza e classe, cit., pp. 195-197 e 55.

40 Anne-Marie Käppeli, Scenari del femminismo, cit., pp. 510-511. Sull’Italia, anche, Maria Casalini, Femminismo e socialismo in Anna Kuliscioff (1890-1907), in «Italia Contemporanea», n. 143, 1981.

41 Joan W. Scott, La donna lavoratrice nel XIX secolo, cit., p. 375. Il programma di Gotha è consultabile in rete: https://ia801406.us.archive.org/34/items/GothaProgramme/726_socWrkrsParty_gothaProgram_231.pdf (ultima consultazione, 26 settembre 2018).

42 Cfr., Mechthild Merfeld, L’emancipazione della donna e la morale sessuale nella teoria socialista, Feltrinelli, Milano 1974, p. 117n. e 118-119

43 Edward H. Carr, Storia della Russia sovietica. Il socialismo in un paese solo. La politica interna 1924-1926, vol. III/1, Einaudi, Torino 1968. p. 28; Françoise Navailh, Il modello sovietico, cit., p. 273-277 e 31 e ss.

44 Elena Bignami, «Le schiave degli schiavi», cit., p. 18.

45 Pierre-Joseph Proudhon, Sistema delle contraddizioni economiche. Filosofia della miseria, Edizioni Anarchismo, Catania 1976 (1846), p. 425.

46 Id., La giustizia nella rivoluzione e nella chiesa, Tipografia Torinese, Torino 1968 (1858), pp. 104, 108, 183, 704 e 734.

47 Massimo La Torre, Nostra legge è la libertà. Anarchismo dei moderni, DeriveApprodi, Roma 2017, pp. 24, 29, 111 e 247. Sull’incontro tra Sand e Bakunin, Edward H. Carr, Bakunin, Mondadori, Milano 1977, pp. 111 e ss.

48 Michail Bakunin, Organizzazione anarchica e lotta armata (lettera a uno svedese), la Fiaccola, Ragusa 1978, p. 71, 56 e 94.

49 Id., Stato e anarchia, Feltrinelli, Milano 1996, p. 245.

50 Elena Bignami, «Le schiave degli schiavi», cit., p. 136.

51 Manifesto a tutte le operaie d’Italia, pubblicato su «La Plebe», 16 ottobre 1876, cit., ivi, p. 161.

52 Ivi, pp. 183-184.

53 Errico Malatesta, Fra contadini, RL, Pistoia 1948, p. 7.

54 Francesco S. Merlino, Le grandi questioni, Auria, Napoli 1891, pp. 19-22.

55 Luigi Fabbri, Lettere a una donna sull’anarchia, Samizdat, Chieti 1997, pp. 118-119.

56 Elena Bignami, «Le schiave degli schiavi», cit., pp. 240-247.

57 Maxine Molyneux, Ni dios, ni patrón, ni marido. Feminismo anarquista en la Argentina del siglo XIX, Presentación a, ‘La Vox de la Mujer’. Periódico comunista-anárquico, Universidad Nacional de Quilmes, Buenos Aires 2002, p. 19.

58 Bruna Bianchi, Il pensiero anarcofemminista di Emma Goldman, in Emma Goldman, Femminismo e anarchia, Bfs, Pisa 2009, pp. 12 e 21.

 

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