Il 17 Dicembre del 1706 nasceva a Parigi la marchesa Gabrielle Émilie le Tonnelier de Breteuil du Châtelet-Lomont, filosofa, fisica e matematica, un’importante e indipendente pensatrice illuminista. La sua traduzione, nonché il commento, della Philosophiae naturalis principia mathematica di Newton rimasero a lungo gli unici disponibili in Francia e contribuirono a rendere il paradigma newtoniano parte integrante dell’Illuminismo francese (Waithe 1991:135). Du Châtelet lavorò ad una fondazione metafisica della scienza che giocasse insieme le scoperte newtoniane e la filosofia di Leibniz; difese la necessità di indagare i principi e le leggi che possono essere compresi come fondamenti a priori della scienza, però concepì sempre la scienza come un processo anche e soprattutto sperimentale (Hagengruber 2012:53). Il suo nome, insieme a quello di tante altre donne filosofe, non compare mai nei manuali tradizionali di storia della filosofia. Scrivere di lei significa quindi affrontare, a partire da un caso specifico, questa sistematica cancellazione delle donne nel Canone della filosofia occidentale. Se ci è possibile scrivere di lei è grazie al lavoro di tante studiose che l’hanno strappata all’oblio, e in particolare è grazie al lavoro appassionato del Center for History of Women Philosophers and Scientists di Paderborn che io ho avuto modo di conoscere e rimanere affascita dalla figura di Émilie du Châtelet.
La marchesa era una nobile esponente dell’aristocrazia francese illuminata. Figlia del Baron de Breteuil e poi moglie del Marchese e leader militare Florent-Claude du Châtelet-Lomont, passò dall’essere vicina alla corte di Versailles all’età di sedici anni ad uno status sociale anche più elevato ai 19, grazie al suo matrimonio (Musielak 2014: 2). In quanto ospite abituale alla corte di Versailles, nel 1730 fu coinvolta in una storia d’amore con il duca de Richelieu, pronipote del Cardinale Richelieu. Tramite il duca incontrò, alcuni anni dopo, il famoso e controverso Francois-Marie Arouet, meglio conosciuto col suo nom de plume: Voltaire. Tra i due iniziò un’appassionata amicizia. All’epoca Voltaire aveva appena fatto ritorno dall’esilio in Inghilterra (1726-29) e le sue Lettres anglaises erano proibite in Francia. Émilie du Châtelet lo invitò a prendere residenza presso lo chateau di Châtelet-Lomont a Cirey, dove lei lo avrebbe raggiunto in poco tempo, e cioè tra il 1733 e il 1734, dopo aver dato alla luce il suo terzo bambino; con quest’ultima gravidanza la marchesa poté considerare concluse le sue responsabilità matrimoniali. Lo chateau a Cirey aveva una libreria molto ampia, un teatro, laboratori scientifici. Diventò un famoso centro studi, destinazione di spicco per matematici, scrittori e filosofi da tutta Europa (Waithe 1991:127).
Émilie du Châtelet ebbe un’eccellente istruzione primaria, comparabile a quella a cui avevano accesso gli uomini del suo rango. Lesse i classici dal latino e dal greco, parlava inglese, italiano, spagnolo e tedesco dall’età di 12 anni, già a 17 il suo interesse per la filosofia la portò a familiarizzare con l’empirismo di John Locke. Tracce delle sue critiche al rifiuto di Locke delle idee e innate e dei principi a priori si possono trovare infatti sin dalla sua traduzione e commento della Favola delle api di Mandeville (1735). Le sue critiche sono mosse anche contro la difesa di Locke da parte di Voltaire. Il suo approccio alla filosofia è ancorato infatti fin dall’inizio alla questione della metafisica, mostrando in ciò un’ampiezza di vedute differente, a volte inconciliabile, con quella di Voltaire (Hagengruber 2012:8-10). La differenza intellettuale cruciale tra i due stava però nella propensione di du Châtelet alla fisica e alla matematica. Il suo tutorage iniziò proprio in quegli anni, dopo essersi interessata al dibattito accademico suscitato dalle memorie del matematico svizzero Johann Bernoulli, pubblicazione che infiammò l’Académie intorno al 1724-26-. Il suo primo tutor, Maupertuis, fu discepolo proprio di Johann Bernoulli ed era uno dei più riconosciuti scienziati newtoniani a Parigi, naturalmente era vicino anche a Voltaire. Terrall (1995) descrive l’accordo che du Châtelet fece con Maupertuis – a che replicherà poi con Samuel König- come un patronage, letteralmente una forma di legame sociale aristocratico che nel 1730.non prescriveva però più nessuno status specifico. Era stato molto comune fino a quel momento, consistendo in un “accordo domestico tra un’aristocratica e un tutor, il cui posto nell’ambiente domestico poteva portare a ulteriori e più vantaggiose posizioni”. Le relazioni di potere non erano però più così stabili, “gli esperti che avrebbero potuto esserle utili non avevano più bisogno del patronage aristocratico” perché vivevano in un contesto accademico vivido, le loro posizioni entro l’Académie des Sciences erano già stabili (Terrall 1995:286-287). Dalle loro lettere si può perciò più oltre dedurre che la Marchesa avesse una relazione molto stretta con Maupertuis, che non intendeva come per nulla limitata alla stima intellettuale.
Riscrivere la storia dell’importanza di du Châtelet nel XVIII secolo ha significato per secoli leggere i suoi contributi solo in relazione agli amici di Cirey e in particolare a Voltaire, alcuni schiacciando la sua influenza sul suo pensiero altri enfatizzando la dipendenza del suo ritratto sul suo punto di vista. ‘Madame Pompon-Newton’ era infatti il nomignolo che Voltaire le diede per mettere insieme il suo interesse giovanile per le frivolezze, quelle relative alla bellezza e alla vita pubblica come salonnière a Parigi, e il suo studio di argomenti tradizionalmente maschili come la fisica e la matematica. Non sorprende che fosse considerata anticonvenzionale dai suoi contemporanei perché consapevolmente oltrepassava i confini del ruolo di spettatrice dei dibattiti accademici sistematicamente riservato alle donne; al massimo le si accettava infatti come mediatrici o autrici di secondaria importanza e solo di letteratura o poesia. Lei sfruttò a pieno le sue possibilità come femme savante, intervenendo in molte controversie del suo tempo: sfidò non solo i ruoli di genere ma anche le avversioni nazionali e lo status della filosofia nei riguardi della scienza, i confini tra queste non erano infatti fino al 1740 così netti o dati per acquisiti come oggi essi si pongono. Era promotrice di un punto di vista originale e le sue analisi si spingono molto vicino alle premesse da cui partirà poi Kant: cercò cioè una fondazione filosofica per l’universalità della fisica newtoniana e sospettò che essa potesse essere trovata nella metafisica di Leibniz e nella riformulazione del metodo cartesiano, tutto ciò però senza mai abbandonare le questioni etiche e teologiche come il libero arbitrio (Waithe 1991:136). Nel rimettere in fila questi elementi noi non possiamo però non interrogarci su cosa comporti questo nostro stesso lavoro di riscrittura. Quali elementi chiamiamo in causa? Quali problemi comporta strappare una storia dall’oblio? Hagengruber (2015) suggerisce che la sfida di riscrittura della storia della filosofia si pone di fronte ad un doppio paradosso:
“How can there be women philosophers with their own philosophical standing, when the interpretational claim allows them only to come to the fore as excluded and marginalized? And the second: How can we, as feminists historians of philosophy, claim that the gender-aware (feminist) philosophy has the right to be regarded as of universal validity, when we criticize the (male) philosophy within the canon as being merely the expression of a specifically male concern? (…) these two paradoxes – the ‘inclusion of the excluded’ and the ‘gendering of the
universal’ – (…) I see at the heart of contemporary philosophical self-reflection.” (Hagengruber 2015:36)
Significativamente l’epiteto di femme savante fu usato per Du Châtelet dal Journal Universel dopo la sua elezione all’Accademia di Bologna, che era un contesto piuttosto liberale in cui i suoi testi furono usati da Laura Bassi per istruire le sue letture di Newton, sicché lì l’insegnamento non era proibito alle donne. Voltaire invece lodò la marchesa, il suo amore di una vita, come una grande mente, sostenendo, dopo la sua morte prematura, che la sua sola colpa fosse stata ‘essere una donna’. Lungo questa linea descrittiva, un aneddoto riferisce della sua strategia di “draggarsi” con abiti maschili per essere ammessa al Café Grandot a Parigi e incontrare i suoi amici come Maupertuis (Waithe 1991:128). Sembrava consapevole che la sua posizione come donna fosse debole e negativa per influenzare il dibattito accademico, ma è fuorviante credere che le sue strategie per superare questi ostacoli fossero singolari o straordinari. La Marchesa percepiva sé stessa come parte di una tradizione di donne che avevano dedicato le loro vite allo studio, in particolare a quello della filosofia e della scienza, donne come Elisabetta di Boemia e Cristina di Svezia. Tracce di ciò possono essere lette nelle sue lettere e nelle Institutions (Hagengruber 2012:2). Zinsser (2009:12) evidenza invece come lei non si identificasse come una donna non solo perché non voleva che i suoi lavori fossero ignorati o respinti semplicemente a causa del sesso dell’autore, ma anche perché credeva che le ‘verità’ che presentava erano più importanti. Tuttavia, nella sua Prefazione del traduttore della Favola delle api, scrive:
“I feel the full weight of prejudice that excludes us [women] so universally from the sciences, this being one of the contradictions of this world which has always astonished me, as there are great countries whose laws allow us to decide their destiny, but none where we are brought up to think. (…) Let us reflect briefly on why for so many centuries, not one good tragedy, one good poem, one esteemed history, one beautiful painting, one good book of physics, has come from the hands of women. Why do these creatures whose understanding appears in all things equal to that of men, seem, for all that, to be stopped by an invincible force on this side of a barrier; let
someone give me some explanation, if there is one. I leave it to naturalists to find a physical explanation, but until that happens, women will be entitled to protest against their education.” (du Châtelet in Zinsser 2009:48)
Come concepiva sé stessa e il suo lavoro Mme du Châtelet? Ella concepì i suoi testi, incluse le traduzioni, sempre come interpretazioni filosofiche, giacché intendevano sollevare questioni filosofiche; significativamente articolava la cosiddetta Querelle des femmes combinandola con la legge di non-contraddizione, che sarebbe stata la base della sua filosofia della scienza nelle Institutions (Hagengruber 2012:10). E cioè du Châtelet sosteneva: non c’è ragione sufficiente per l’esclusione delle donne dal piacere e dalla gioia dello studio e dalla conoscenza a cui questi portano. Al netto del richiamo al diritto universale delle donne nell’accesso ai saperi, è bene chiarire, a scanso di equivoci, che non ci sono pretesti però per dipingerla come una femminista ante litteram.
Le Institutions de Physique di du Châtelet possono essere considerati il nucleo della crescita della sua reputazione accademica. Pubblicato nel 1740, apparve in seconda edizione nel 1742 e fu tradotto in tedesco e in italiano. Ciò indica che il testo[1] fu letto non solo in Francia ma anzi esso ebbe un ruolo cruciale nella diffusione della fisica newtoniana tra gli intellettuali dell’Illuminismo Europeo. Questa influenza culminerà nella pubblicazione postuma dei suoi Principia di Newton. Du Châtelet considerava le sue Institutions come un testo innovativo per la fisica, nonostante infatti ci fossero numerosi libri di fisica in francese essa li considerava come carenti in sistematicità, a meno di non considerare lavori più vecchi di autori interamente cartesiani (Hath 1992: 200). Era quindi orgogliosa del suo lavoro e consapevole dei rischi e delle responsabilità che comportava. Inviò copie delle Institutions ai più famosi studiosi dell’epoca, come de Mairan, e a uomini potenti come Federico II Re di Prussia, la cui corte era frequentata da alcuni dei suoi amici più vicini come Maupertuis, Voltaire e Algarotti. Federico II la ridicolizzò. In una delle lettere a Federico II troviamo però anche la testimonianza forse più interessante della consapevolezza di du Châtelet di sé stessa e del suo valore filosofico, anche se minimizzato da un ripetuto tono di modestia usato nei confronti dei suoi amici maschi:
“There may be metaphysicians, and philosophers whose knowledge is greater than mine. I haven’t met them yet” (Hagengruber 2015:37)
Qual era però il modello di caricatura di femme savante che Federico II usò per ridicolizzare il suo lavoro? La matrice si può rintracciare forse proprio nel sopra citato Francesco Algarotti (1712-1764), uno scrittore italiano cosmopolita che visitò du Châtelet e Voltaire a Cirey mentre scriveva il suo Il Newtonianismo per le dame. Egli modellò infatti la sua nobildonna di finzione, quella a cui cioè il testo era indirizzato, sulla Marchesa du Châtelet. La Marchesa di Algarotti tuttavia era una caricatura di du Châtelet e anche se a Cirey “newtonizzarono” insieme, du Châtelet non è mai stata convertita al partito del Newtonianesimo nè da lui, nè da Voltaire. È più probabile che fosse stata lei ad influenzare Voltaire e ad istruirlo sulla fisica newtoniano, come egli esplicitamente ammise, almeno nella prima edizione dei suoi Éléments De La Philosophie De Newton. “Minerva dettava, e io scrivevo” è il famoso epiteto che Voltaire infatti usò dedicandolo a du Châtelet. Lui riconosceva così in qualche modo il suo contributo ma mettendo la Marchesa su un piedistallo come una musa (Waithe 1991:133). La caricatura di Algarotti fa la stessa operazione ma con una torsione diversa, essa investe le sue stesse lettrici, che si aspetta siano spettatrici incapaci di raggiungere le verità profonde riservate alle élite maschile. Madame du Châtelet ridicolizzò quindi a sua volta questo approccio di Algarotti attraverso almeno due strategie. In primis, bollò il suo libro come ‘frivolo’ in virtù della povertà di argomenti e calcoli, un testo che può piacere ma non istruire; ironicamente poi lei fa a pezzi il libro come un rappresentante proprio di quell’audience femminile stereotipata a cui pretendeva di rivolgersi e lo fa con gli aggettivi comunemente usati per delegittimare le donne. In secondo luogo, du Châtelet impostò anche le sue Istitutions come un lavoro pedagogico, indirizzandolo direttamente ad uno studente-lettore, come inizialmente lo fu suo figlio, poi estendendo l’ottica alla “materna preoccupazione della rieducazione dei seguaci dogmatici sia di Descartes che di Newton” (Terrall 1995:293).
Du Châtelet iniziò ad interessarsi della filosofia naturale leggendo dalla geometria analitica di Descartes all’astronomia di Galileo, ai testi di Newton. Sin dal 1736 iniziò a essere più familiare con le idee di Lebiniz, studiando la traduzione francese che proprio Federico II di Prussia inviò loro. Sin dal 1717 era disponibile grazia a Carolina di Ansback, principessa del Galles, il dibattito Leibniz-Clarke, che può essere considerato anche in realtà come un dibattito Leibniz-Newton. Samuel Clarke era infatti un importante filosofo inglese vicino ai circoli newtoniani. Du Châtelet considerava la filosofia di Leibniz come uno strumento valido ed era critica nei confronti dell’applicazione di Clarke del newtonianesimo alla filosofia di Descartes, ciò al netto della mancanza di riferimenti diretti al dibattito Leibniz-Clarke nelle sue Institutions. Dopo tutto, le Institutions esplicitamente intendono evitare, come specificato nella Prefazione, ogni abbondanza di riferimenti esterni per rendersi quanto più accessibile possibile per coloro i quali non fossero a conoscenza dei dibattiti dell’Accademia. Inoltre, lei si schierò contro il principio di autorità, una critica destinata a diventare il simbolo cruciale dell’Illuminismo europeo:
This is one of the reasons why I have not filled this book with citations, I did not want to seduce you with authorities; and more, there would have been too many. I am very far from believing myself capable of writing a book of physics without consulting any book (…) The greatest philosopher may well add new discoveries to those of others, but once a truth has been found, he has to follow it; for example, M. Newton had to begin by establishing Kepler’s two analogies when he wanted to explain the course of the planets, without which he would never have arrived at the beautiful discovery of the gravitation of the celestial bodies. Physics is an immense building that surpasses the powers of a single man. (Du Châtelet in Zensser 2009:122)
E sulla stessa linea metaforica:
“We rise to the knowledge of the truth, like those giants who climbed up to the skies by standing on the shoulders of one another. (…) Today the systems of Descartes and Newton divide the thinking world (…) Guard yourself, my son, whichever side you take in this dispute among the philosophers, against the inevitable obstinacy to which the spirit of partisanship carries one: this frame of mind is dangerous on all occasions of life; but it is ridiculous in physics. The search for truth is the only thing in which the love of your country must not prevail, and it is surely very unfortunate that the opinions of Newton and of Descartes have become a sort of national affair.” (Du Châtelet in Zinsser 2009:119)
Lei intendeva aprire un dialogo tra il razionalismo cartesiano e la metafisica di Leibniz e le scoperte di Newton. Quale ruolo concepisce per la metafisica di Leibniz, tenendo conto della disputa tra Descartes e Newton? Per comprendere il suo punto di vista che vuole mettere insieme fisica e metafisica, è necessario esaminare il contesto dei primi decenni del XVIII secolo come uno scenario mobile e non già fisso: la metafisica cartesiana e la sua meccanica avevano dominato l’Accademia e gli intellettuali stavano piano piano abbandonando questo partito in favore della fisica sperimentale newtoniana. Tuttavia, stabilire una stretta divisione tra Descartes, Leibniz e Newton, come se essi potessero essere considerati a quel tempo come paradigmi filosofici opposti alle evidenze scientifiche, significa misconoscere sia il peso della filosofia naturale come campo di studio, sia l’importanza di du Châtelet in essa solo in virtù del suo oblio. “Du Châtelet sought to bring together Descartes Leibniz and Newton into a systematic whole, investigating whether, through drawing from each, a viable philosophical approach to physical science could be found” (Brading 2015:23) Non possiamo guardare alla ricerca di una fondazione metafisica della scienza di du Châtelet come ad un approccio irrilevante. Lei criticava l’uso scorretto dei cartesiani dei principi e delle ipotesi così come il rifiuto dei newtoniani di queste e la loro volontà di fermarsi alla descrizione matematica dei fenomeni (Hagengruber 2012:17). La sua mossa filosofica evitava entrambi questi estremi, perciò non cambia mai semplicemente partito. Spiega il suo uso filosofico di Leibniz nella Prefazione alle Institutions, basandola sull’elaborazione di Wolff, cosa che la rese molto apprezzata e finanche influente negli ambienti tedeschi dell’illuminismo:
“it seems to me that with the principle of sufficient reason, he [Leibniz] has provided a compass capable of leading us in the moving sands of this science. The obscurities in which some parts of metaphysics are still shrouded serve as pretext for the laziness of the majority of men not to study it. They persuade themselves that because not everything is known, nothing can be. Yet, there certainly are points of metaphysics susceptible to demonstrations as rigorous as geometric demonstrations, although they are of another type. We lack a system of calculation for metaphysics similar to that which has been found for mathematics, by means of which, with the aid of certain givens, one arrives at knowledge of unknowns.” (du Châtelet in Zinsser 2009:123).
Il suo sistema unitario può essere esemplificato dalla già citata metafora dell’edificio in costruzione. La fondazione deve essere metafisica perché solo la metafisica può assumere il problema che la nostra conoscenza del mondo è limitata, e così sarà sempre.
Physics is an immense building that surpasses the powers of a single person. Some lay a stone there, while others build whole wings, but all must work on the solid foundations that have been laid for this edifice in the last century, by means of geometry and observations; still other survey the plan of the building, and I am among them.” (du Châtelet in Zinsser 1995:122).
Tripodi
(2015) sostiene che per disarticolare l’androcentrismo che colpisco anche
oggigiorno la scienza, ogni approccio femminista deve considerare il criterio
della responsabilità come obbligatorio per la scienza. È utile fare richiamo a
questi spunti in conclusione per far interagire l’approccio di du Châtelet con i problemi attuali della
filosofia della scienza. Parafrasando le sue parole: la pratica scientifica non
dovrebbe sfruttare, opprimere o umiliare nessuno. Piuttosto, esso dovrebbe contrastare
ogni forma gerarchica di potere (anche quella che rende la scienza una pratica
dominante) e promuovere più che possibile la partecipazione e l’emancipazione
di ognuno nella produzione della conoscenza (Tripodi 2015:34).
BIBLIOGRAFIA
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Source online link:
Du Châtelet, E.
(1740) Emilie Du Châtelet: Selected Philosophical and Scientific Writings. Selected and edited by Judith P. Zinsser. Translated by Isabelle Bour and Judith P. Zinsser. Chicago: University of Press. (2009)
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Brading, K. (2015) Émilie du Châtelet and the foundation of physical science. [Pre-printed]
Source online link: http://philsci-archive.pitt.edu/11610/
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Source online link: https://doi.org/10.1093/monist/onu005
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Terrall, M. (1995) Émilie du Châtelet and the gendering of Science. Published in History of Science Vol 33, Issue 3, pp. 283 – 310.
Source online link: https://doi.org/10.1177/007327539503300302
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Winter, U. (2012) From
Translation to Philosophical Discourse. Émilie du Châtelet’s Commentaries on
Newton and Leibniz. Published in Émilie du Châtelet between Leibniz and
Newton, 157-172. Archives Internationales d’Histoire des idées,
Springer Science, Dordrecht
[1] Ci basiamo sulla prima edizione come riportata da Zinsser (2009), e sulla traduzione in italiano della seconda edizione intitolata Istituzioni di fisica di madama la marchesa Du Chastellet indiritte a suo figliuolo. Traduzione dal linguaggio francese nel toscano, accresciuta con la Dissertazione sopra le forze motrici di M. de Mairan (1743).