di Elisabetta Codutti
Era una mattina primaverile.
Una di quelle mattine in cui la pelle del tuo corpo è accarezzata da una leggera brezza che ti solletica i capelli, riscaldato dal calore dei primi raggi solari.
Intorno a me il silenzio.
Un silenzio assordante, incomprensibile ai più abituati al frastuono della frenetica vita metropolitana.
Un silenzio pauroso come può esserlo la solitudine involontaria.
Un silenzio che era stato sottratto alla specie umana per secoli, da generazione a generazione.
L’infinito rumore meccanico dello sfruttamento capitalistico aveva incredibilmente cessato di muoversi. Ogni macchina produttiva e riproduttiva giaceva inerme.
E quel silenzio aveva finito per ingoiare perfino il vociferare umano, ora non più percepibile.
Così, contro ogni aspettativa, il nostro pianeta era stato immerso da un velo di calma e tranquillità. Quel silenzio era stato preceduto da un urlo.
Un urlo straziante e atroce.
Un urlo pieno di rabbia e dolore.
Un urlo potente.
Un urlo di resistenza.
All’inizio era stato percepito come un bisbiglio, appena distinguibile oltre il frastuono meccanico dell’attività umana.
Ma quel sussurro che sembrava potesse essere sottomesso e controllato dalla ratio dell’uomo finì per predominare.
Quell’urlo all’improvviso sopraffece l’artificioso sistema di produzione e di accumulazione.
La Terra per troppo tempo aveva sopportato l’incessante sfruttamento dell’essere umano che seguiva ciecamente un profitto che riteneva infinito.
Un urlo viscerale di Colei che troppo a lungo era stata sfruttata, usata senza scrupoli, calpestata, bruciata, trivellata, riscaldata, derisa, distrutta, privata delle sue ricchezze organiche e inorganiche, e che ora aveva deciso di opporsi.
Ora da quel dolore si sollevava, urlando la sua ribellione.
La Terra insieme alle specie vegetali e animali, agli esseri organici e inorganici, alla natura tutta, aveva urlato la sua rivoluzione.
La Natura si stava ribellando contro il suo oppressore, il suo sfruttatore, il suo colonizzatore, contro colui che aveva creduto di poterla controllare e dominare.
Un urlo espresso attraverso uno degli organismi più piccoli, all’apparenza innocuo, ma che in realtà era risultato mortale.
L’essere umano si trovava quindi costretto alla reclusione e all’isolamento per sopravvivere.
La natura aveva privato gli uomini occidentali, neoliberisti e colonizzatori del bene che ritenevano più prezioso: la loro libertà.
Ora, quella libertà veniva restituita ad altre specie, a specie non umane, che riconquistavano il ‘privilegio’ di essere libere, di muoversi liberamente, senza confini.
Il potere del capitale si trovava plasmato dalla potenza organica.
Il mio corpo, avvolto dal calore solare, poggiava sul terreno umido, bagnato dalla rugiada, giacendo spoglio e indifeso, abbandonato al suolo terrestre.
I nostri corpi non sono stati creati per essere soli.
Non so per quanto tempo rimase fermo, immobile, fino a quando percepii qualcosa che cambiava.
Il mio corpo iniziò lentamente a mutare, a trasformarsi sotto la spinta di forze a me estranee, che non potevo influenzare poiché sfuggivano al mio controllo.
Iniziai a percepire l’eco di quell’urlo che giungeva a me, circondandomi e sopraffacendomi.
Un urlo che mi chiedeva di unirmi a quella resistenza.
Una resistenza di opposizione per non lasciarmi invadere, occupare, assalire e distruggere da quel sistema.
In quell’urlo percepii il bisogno di un corpo diverso, mutante, un corpo che sarebbe stato il mio luogo di resistenza.
Un corpo che doveva essere guarito da sé stesso per poter recuperare la sua integrità e poter imparare a vedere con chiarezza altri luoghi di opposizione.
Iniziai a sentire i polmoni riempirsi di un’aria nuova, rigenerata, non più tossica e pesante, ma fresca e leggera.
Sotto il peso del corpo i miei piedi premevano contro il terreno sottostante.
Un dolore appuntito spingeva contro le dita, fino a quando da esse fuoriuscirono radici che iniziarono a intrecciarsi con il suolo, trovando spazio fertile per dare al corpo fondamento e nutrimento.
Dalle punte dei piedi il mio corpo cominciò a trasformarsi per tornare humus, rifarsi compost, linfa vitale per esseri vegetali.
Il corpo premeva per ricongiungersi alla natura, a quello che doveva essere il suo habitat originario. La pelle delle gambe si tramutò in corteccia da cui sbocciarono Lecanthemum vulgari, Primule, Matricaria chamomilla, Trifolium, Taraxacum, Campanule officinale, Muscari neglectum e ancora altre specie a me sconosciute.
Presto si aggiunsero anche specie animali attratte dal loro profumo che si irradiava nell’aria limitrofa, come un’essenza preziosa e stregata.
Dalla testa, la quale era ormai abituata a rispecchiarsi solo nello schermo di un computer, imprigionata in un monitor, corpo estraneo al mio, si irradiò un’altra forza, un’energia differente ma con uguale potenza trascinandomi in una trasformazione nella trasformazione.
Iniziai quindi a percepirmi cyborg.
Al molle muscolo del cervello si sostituirono complesse ramificazioni di ingranaggi meccanici.
Alla cornea e al cristallino si sostituirono lenti artificiali che mi permettevano di vedere ciò che prima mi era oscuro.
Le mie mani si stavano trasformando in lunghi artigli perfettamente disposti, capaci di creare coreografie attraverso una successione di movimenti armonici ed eleganti.
Incastri e ingranaggi tenevano uniti i miei artigli a braccia robotiche, capaci di coordinare gesta e movimenti per sedurre altre tecnologie per la produzione di resistenza.
Ciò che all’inizio percepivo come forze opposte, al loro incontro iniziarono a intrecciarsi fino a fondersi sul mio petto con un moto circolare.
Il mio corpo umano di donna veniva lentamente soppiantato da un corpo bio-cyborg (o cyborg-naturale).
Il mio corpo si era trasformato nel luogo sicuro che a lungo avevo cercato, il luogo che mi permette di guarire le mie ferite e di recuperare l’integrità, dove i confini dicotomici su cui si è strutturata la cultura dominate Occidentale che a lungo ha strutturato quel corpo di donna scompaiono, dove le sottili linee che reggevano i dualismi si offuscano, permettendo di fondersi creando nuovi spazi e realtà.
Il mio refugia è stato quel corpo.
Un corpo cyborg, un corpo trans, un corpo mostruoso, un corpo erotico, un corpo naturale, un corpo queer, un corpo fertile, un corpo mortifero, un copro tossico, un corpo vulnerabile, un corpo disomogeneo, un corpo mobile, un corpo freddo, un corpo ferito, un corpo virale, un corpo sieropositivo, un corpo post-umano, un corpo oltre-canone, un corpo poetico, un corpo ribelle, un corpo rivoluzionario.
Un corpo imperfetto, in disequilibrio, ma quel corpo era tutto ciò che possedevo e tutto ciò di cui avevo bisogno in quel momento.