di Valentina Ferritti
È una stanza lo spazio che mi circonda.
La stanza è il salone di un piccolo appartamento bolognese.
Una finestra permette al mondo FUORI di entrare.
Quel .FUORI – DA – ME. è assemblato nelle fattezze di un albero. E’ l’inizio della storia e ancora quel FUORI si finge fuori – da – me.
L’albero è il rifugio di una famiglia (?) di Gazze.
Perché scegliere la parola famiglia? Perché trasporre il mio umano su di loro? Perché prestare loro voce e corpo secondo le mie categorie di pensiero?
Me lo sono chiesta più volte durante l’ossessivo esercizio di osservazione spalmato sul tempo diffratto. Mi sono risposta, solo poi, che famiglia non familistica erano loro per me, scintilla di una forza generatrice di parentele innovative.
Sono loro a confermarmi il perdurare della vita libera in un mondo malato.
Sono loro i miei partner non-umani capaci di guarire il luogo di reclusione fisico e interiore.
Sono loro a rendere il mio rifugio, fin troppo umano, abitabile. A loro la mia reclusione è legata con fili collanti.
Fili di una parentela innovativa in cui non c’è umano e, in effetti, nemmeno non – umano, non c’è specie, né sangue né riproduzione.
«I rapporti di parentela si possono formare in ogni momento della vita, aggiungendo o inventando genitori e altri tipi di parenti durante i momenti di transizione più significativi. Queste relazioni creano impegni forti e diversi tipi di doveri che li accompagnano per tutta la vita […] Ma generare parentele e riequilibrare il numero degli esseri umani è un processo che deve avvenire attraverso connessioni rischiose con luoghi, corridoi ecologici, posizioni storiche e lotte decoloniali e postcoloniali continue, e non in astratto, né per decreto esterno».
Forse, mi chiedo, abito per la prima volta l’humusità, forse per la prima volta la sperimento e la esperisco non più come parola lontana, oscura e incomprensibile ma come possibilità concreta e cangiante.
FUORI dalla stanza e DENTRO la stanza, FUORI da me e DENTRO di me perdono di significato.
Vivo ed esperisco IN quegli animali non – umani e CON quegli animali non umani.
Il principio di auto-sufficienza si scardina.
Il mio umano sovra natura si decompone, lascia spazio.
Nuove forme di con-vivenza e con-divenire placano le mie paure.
«Il potere più prezioso riconosciuto alla persona umana di qualunque genere che porta avanti la gravidanza è il diritto e l’obbligo di scegliere un simbionte animale per il nuovo bambino. Tutti i nuovi nati all’interno della comunità che decide collettivamente vengono al mondo come simbionti delle creature di alcune specie a rischio, e quindi entrano in simbiosi con tutto il tessuto del vivere e del morire di queste creature e dei loro consociati, per i quali la possibilità stessa di avere un futuro sembra particolarmente a rischio. I bambini umani nati da scelte riproduttive individuali non diventano simbionti biologici, ma vivono e partecipano ad altre forme di simpoiesi con le creature umane e non-umane».
Non umanizzo il non-umano, non dis-umanizzo me stessa.
«I bambini del compost hanno imparato a percepire la loro specie condivisa come humus, più che come umana o non-umana. […] Nutrire il simbionte animale significa anche essere nutriti a propria volta, oltre che inventare pratiche di cura per i sé simbiotici che si ramificano. I simbionti animali e umani fanno sì che la trasmissione della vita mortale vada avanti, ereditando e inventando pratiche di recupero, sopravvivenza e prosperità».