di Maria Lucia Guglielmi
Situata, tra le mura di una casa che non conosco, in una città grande, lontana dalle vedute degli ultimi anni di folli domande dis-organizzate sul futuro.
La paura dell’insicurezza, dell’incertezza, della fissità, della noia, della paranoia.
Mi manca l’aria.
Non scrivo da troppo tempo e l’ultima volta che ho scritto ero in una biblioteca incredibilmente luminosa, con i soffitti dipinti nella città dei portici. Oggi sono in questa casa, tra queste mura che ho imparato a conoscere, dove ho appeso i quadri delle illustratrici che preferisco, in una città grande che attraverso da un capo all’altro su mezzi di trasporto con gli ammortizzatori consumati, che sfrecciano su strade sfondate. Sono tra i corpi, con i corpi metallici delle cuffie che porto nelle orecchie e i vagoni dei tram.
Mentre attraverso la città dopo mesi di isolamento domestico, sono circondata da alti e robusti alberi, le cui radici fanno breccia tra l’asfalto. Faccio un balzo, scivolo sul sedile, cambio canzone. Gli alberi sono tantissimi, diventano fitti e ci sono strade in cui mi sembra di stare sotto portici verdi, che cantano con il vento, mi fanno da corona. Mi hanno detto a lavoro che questa è la zona dei parchi, ma anche dell’immondizia, infatti mi domando quanto ci sia di vero in quelle colline che osservo dal finestrino. Ogni giorno nell’autobus c’è una vespa che ha perso la sua rotta e si scontra, sempre, ripetutamente, sul vetro. Oggi una signora, con fare lesto, l’ha presa e l’ha scaraventata per terra. La vedo muoversi, forse è morta. La signora sorride, io la guardo e mi chiedo, perché abbiamo paura degli insetti? Quando ero piccola anche io avevo paura, forse anche ora. Poi, una volta, a Diyarbakır un ragno grosso e peloso ha camminato sul mio petto senza che me ne accorgessi, ha anche ascoltato il pessimo inglese che parlavo. È corso via. La paura è arrivata dopo, ma il ragno già non c’era più. Però ho sentito le sue zampe correre sulla pelle.
Ho cambiato di nuovo canzone.
Non so più se c’è il distanziamento sociale, però indosso la mascherina come se fosse facile con il caldo afoso e caotico di Roma. Sono passati mesi, Marzo sembra lontano, ma nella mia mente il trasferimento da Bologna a Roma è vicino.
A Gennaio ho portato la mia roba in una casa, tra quattro mura, in cui vive mia sorella da anni. A Febbraio ho avuto una violenta febbre, sono stata sola per una settimana, ho pianto, sono dimagrita, ho sentito le ossa sui fianchi farsi spazio. A Marzo mi hanno detto che non potevo più andare a lavoro, “hanno chiuso le scuole, allora anche gli spazi educativi sono chiusi.” Sono rimasta a casa, senza lavoro, senza persone, tra quattro mura che non erano le mie, in un corpo che non sentivo più, che si trasformava e si ammalava seguendo le notizie che andavano veloci al telegiornale.
Scollegata, sconnessa, non situata, vagante. Ovunque e in nessun luogo, ma in una casa che è diventato il luogo della riluttanza, in questa casa che mi aveva accolto e che non riconoscevo.
Presto, molte voci che arrivavano dall’altra parte dello schermo, hanno cominciato, lentamente e sinuosamente, a farsi spazio in questo non-luogo, che è diventato il luogo di una personale battaglia contro mille mostri che hanno preso la forma di un unico virus chiamato Covid-19. bell hooks, in un’altra storia, lo definirebbe un sito di resistenza.
E io r-esisto?
R-esisto con il lavoro telematico, con le lezioni online, con la panificazione sfrenata e le serie tv. R-esisto, in un corpo che si fa tecnologico, ma r-esisto nel mondo là fuori? Tutto, fuori da queste quattro mura, è fermo, lento, tace. Le macchine, i treni, gli aerei non riempiono più le strade, i binari, il cielo. C’è silenzio, ed è terribilmente bello.
Tutto è fermo e la primavera arriva, non aspetta mica la fine del confinamento. Sento il profumo della florescenza che pervade tutto intorno a questo blocco di cemento. Ogni tanto esco, duecento metri non di più, o forse sì. Qualche volta ne ho fatti più di duecento, perché il quartiere che abito è sito di resistenza storica e io voglio scoprirlo. Allora vado alla ricerca di storie passate, che corrono i passi del presente, dove i papaveri crescono forti tra le crepe del muro di casette rovinate e delicate. Tutto intorno pare fatto di cristallo. Scopro le strade del quartiere, belle e mai viste, con graffiti e murales incredibili e pareti di fiori rosa mai visti prima d’ora: sembrano piccole campane, il vento le muove. Sono bellissime, vogliono prendermene cura. Gli alberi stanno ramificando ovunque, si allungano sotto l’asfalto e creano onde sinuose che mi fanno inciampare quando non sono attenta. Il profumo è denso, lo vedo quasi, è fatto di spirali, le stesse che seguono le api: ma quante sono, quest’anno le api sono tantissime. Una ha persino scelto di venire a vivere a casa con me.
Ci torno spesso, quasi tutti i giorni.
Anna ed io ci sentiamo bene quando ci andiamo, ci siamo scattate anche delle foto e, come sempre, addosso abbiamo la stessa felpa consumata. Mi sento aggrovigliata: questa sensazione la riconosco, l’ho sempre sentita addosso, cucita con punti fermi sulla pelle. Essa si dipana e si attorciglia. É la stessa che sento appena penso al mare, ai pesci, alle onde e alla schiuma, al movimento vorticoso di un tuffo sott’acqua con la testa che va giù e poi a spirale tutto il corpo segue la cima dei capelli. Sento che l’unica cosa che può salvarmi è il mare o passeggiare tra quei fiori che, in un giorno solo, la pioggia ha fatto cadere e ha colorato l’asfalto grigio topo.
L’altra sera mi sono svegliata con i fiori tra i piedi e il mare negli occhi.
Sono tra i corpi tutti diversi, figurazioni di linee, contorni, sostanze non-umane che mi accompagnano sempre, anche quando mancano le persone.
Maldestramente, mi sono lasciata guidare dalle parole di Donna J. Haraway, in un flusso di coscienza di un periodo poco semplice di questa esistenza. La filosofia mi è sempre stata di supporto, la sua sta già lasciando impronte importanti.