Forme impreviste di abitabilità

Forme impreviste di abitabilità

di Alessandra Liccardo

Il concetto di refugia che emerge in Chthulucene consente di rileggere la propria esperienza di sopravvivenza come un collocarsi all’interno di un mondo complesso e interrelato.

In uno dei capitoli del testo, Il pensiero tentacolare, Donna Haraway fa riferimento alla necessità di tastare il terreno, tentare di modellare nuovi possibili mondi, possibili narrazioni.
Cogliendo la teoria della «sporta del narratore», trasmessa da Ursula Le Guin, Haraway parla delle tante storie da raccogliere e tramandare come critica al racconto fallico e aggressivo dell’eroe, dell’Uomo nella Storia.
A differenza delle scintillanti armi dell’eroe, che infliggono morte al suo passaggio, la sporta del narratore, o conchiglia, reticella, umile oggetto utile a contenere e a sostenere, consente al racconto del mondo di non finire, di non compiersi, e al narratore di proseguire la sua ricerca.
«È con una certa urgenza, dunque, che vado in cerca della natura, del soggetto, delle parole dell’altra storia, quella ancora non narrata, la storia della vita», scrive Le Guin, citata da Haraway.
La narrazione è una ricerca, un lavoro di raccolta, una composizione senza fine, come lo è la costruzione di un mondo comune a abitabile. Haraway scrive che «un mondo comune e abitabile va composto un pezzetto alla volta, oppure non si compone affatto».

È possibile pensare i refugia come pezzetti di mondo abitabile, un mondo in composizione e affollato da creature che con-dividono lo spazio e con-divengono, rendendosi capaci di affrontare la crisi a vicenda, trasformandosi, interagendo e intra-agendo.
I refugia possono essere immaginati anche come sporte, recipienti, vuoti in cui trovare spazio e tenersi insieme, raccogliersi.
Figurati come pezzetti o come concavità, i refugia assumono un carattere di parzialità, frammentarietà e incompletezza, aperta a nuove possibilità.

Questi aspetti possono essere messi in relazione con un altro concetto harawayano rintracciabile in Chtulucene, quello di integrità.

L’integrità terrena a cui fa riferimento Haraway non ha a che fare tanto con la completezza, quanto con l’accettazione della finitezza, della precarietà e dei limiti, con il sommarsi alle altre creature e con la necessità di un ridimensionamento da parte della specie umana, chiamata a coltivare la propria responso-abilità «per il bene di una libertà maggiore e più inclusiva e di una qualità della vita migliore».
Il rifugio può essere pensato come un luogo in cui ritrovare la propria integrità, un luogo delimitato utile a ripensarsi e ridefinirsi, dove coltivare le relazioni che consentono la sopravvivenza, convivere con le proprie fragilità e sentirsi al sicuro.

Nel testo Casa, un sito di resistenza, bell hooks parla di un rifugio in cui risanare le proprie ferite per «tornare interi», dell’ householding come possibilità di cura reciproca.
La casa di bell hooks è un luogo indispensabile per costruirsi, per imparare ad amare e a rispettare sé stesse/i, condividendo una storia di sopravvivenza e resistenza. Tornare interi è possibile attraverso uno «stare con», una convivenza.
Durante il lockdown, quelle che, riprendendo le parole di Haraway, potrebbero essere chiamate «semantiche dell’invasione» hanno tracciato nette contrapposizioni tra la domesticità, lo spazio chiuso, privato e sicuro, e l’esterno, il territorio nemico e intransitabile, luogo dell’avanzata del virus.
Trovare spazi di abitabilità ha significato modificare i propri percorsi, rifunzionalizzare ambienti e stringere legami e alleanze inaspettate.

Nei giorni della quarantena, la ricerca di una condizione abitabile, fuori dalle pareti domestiche, mi ha spinta a percorrere una fuga lunga poche rampe di scale, verso un nuovo perimetro, il terrazzo condominiale.
Lo spazio naturalculturale del terrazzo racchiude tracce di diversi attraversamenti e forme di vita.
La rete dei tubi dell’acqua, che corre intorno al vecchio lavatoio, si interseca a una crepa sottile che attraversa la superficie del pavimento.
Un gruppo di formiche abita la crepa, modificandone l’andamento con la costruzione di un formicaio. Al suo centro, un fondo scuro come un cratere accoglie le formiche che entrano ed escono, seguendo le loro traiettorie.
La crepa ospita anche una pianta, un alberello di fico, che forse l’ha originata, spaccando gradualmente il cemento e attorcigliandosi ai tubi dell’acqua. Il seme deve aver ricavato il proprio spazio vitale all’interno dell’increspatura, per poi allargarla, insinuando le sue radici.
Ricorda gli alberi che spuntano fuori dalle case diroccate che si trovano a volte nei campi, le chiome come tetto, alcuni rami che sporgono dalle finestre.
Il davanzale del terrazzo si affaccia sul groviglio delle strade. È una zona, come le soglie delle case, adatta ad essere occupata dal corpo. Ci si può appoggiare per stabilire un contatto con il fuori, restando dentro, ai margini della casa.
Sulle altre terrazze altre persone trascorrono il tempo, parlano, si salutano, fanno ginnastica. Un gatto, su un palazzo più alto, percorre un cornicione, esce da una finestra per rientrare in un’altra.

Si ferma oltre i vetri e cerco di stabilire un contatto visivo.

In Le promesse dei mostri, Donna Haraway parla dell’inappropriabilità della natura, che non è un luogo fisico in cui recarsi, che preesiste in attesa di essere visitato, scoperto o decifrato. Haraway scrive che è necessario escogitare modi di relazionarsi alla natura che vadano oltre la sua reificazione, perché ci troviamo già, da esseri umani, con i nostri corpi, all’interno di spazi naturalculturali, nodi in una rete di relazioni.
Nella co-costruzione della natura siamo implicate/i, come nel gioco delle figure di filo e nella trasmissione delle storie che raccogliamo.