di Teresa Masini
E poi, d’un tratto, si ferma. Si sistema la giacca, fa un breve inchino. Ricorda, anche in quel momento, dov’è nato. Si stiracchia la pelle, le ossa, le intelaiature di vene che gli ricoprono le braccia e il collo. Saluta – è educato salutare, sempre –, imbraccia lo strumento prediletto e riprende la strada del firmamento (o la strada di un quartiere di periferia, è uguale). Anche lì, riposa soltanto guardando riposare. Non ricorda l’ultima volta che lo ha fatto. I passi sono pesanti forme di circuitazione, sono parametri liquefatti e cimeli da conservare nella tesca del cappotto. Sono, poi, nuvole passeggere, quelle che respirano desideri di piogge, ultimamente di calamità.
Non esiste un posto in cui scappare – quello lo lasciamo alle cose tangibili – ma c’è senz’altro una forma possibile di sparizione. Come procedere, dunque?
Ad un tratto la strada si ferma. Interruzione per inagibilità. Una frattura, un crampo, un eczema. L’aria si fa pesante. Poggia sul lato migliore lo strumento, fa il giro su se stesso un paio di volte. Prova un poco inedito desiderio di ubiquità. Registra a mente il numero di stelle (lo fa con la mano, per non sbagliarsi). Uno, due, tre, quattro, cinque… Il passo riprende da solo. Non c’è una regola dove le regole sono tante. Ricorda (come solo il tempo permette di fare) il momento in cui morirà. Non esibisce volantini (ce ne sono già troppi), non sporca i vetri di grigio (sono già annebbiatori eletti di riflessi), rileva solo le tracce del suo passaggio, rivela le forme sui pavimenti della Grande Sostituzione. “Rifletti”, si dice. Lui preferisce “Sorprenditi”. Non c’è una linea retta tra una porta e una porta. C’è un lago (o un mare) e qualche connessione complicata per raggiungerli o superarli. C’è, poi, un chiavistello o una buca delle lettere o un’entrata più veloce dal retrobottega. Non serve bussare. Tanto spesso non c’è nessuno ad aspettare.
[testo scritto durante la quarantena istituita per la pandemia da COVID-19]