di Benedetta Rossi
Per vivere e morire bene nello Chthulucene è necessario allearsi con le altre creature al fine di ricostruire luoghi di rifugio; solo così sarà possibile ottenere un recupero e una ricostruzione parziale e solida della terra in termini biologici-culturali-politici-tecnologici.1
Mi sbagliavo.
Avevo sempre creduto di essere una buona umana per i miei cani, un’umana giusta. Certo, sapevo bene che, nel nostro con-divenire2, i rapporti di forza fossero inevitabilmente sbilanciati: io costringevo Tania e Artù a una vita in cattività, chiusi con me in un appartamento, io sceglievo di condurli al di fuori di questo spazio legati a un guinzaglio e non liberi di andare e tornare, esplorare luoghi a loro piacimento per poi far ritorno alla nostra tana comune. Però, in questo rapporto, mi sono sempre fregiata di non imporre troppo il mio punto di vista, il mio comportamento umano e dunque, per loro, antropomorfizzante. Rifiutavo e rifiuto ancora pratiche educative troppo costrittive e uso di farmaci in nome di un ammansimento funzionale soltanto alla semplificazione del mio vivere umano, sebbene in alcuni momenti mi sia sembrato di non riuscire a gestire i miei compagni cani.
I miei compagni cani, la mia piccola famiglia queer
i cani […] appartengono a una grande “famiglia” queer, non dedita alla riproduzione in senso tradizionale, nella quale i legami di parentela non dipendono da una medesima genealogia, genetica o ematica, ma emergono piuttosto da storie condivise e dai nodi che si concretizzano nel vissuto comune3
Mi sbagliavo perché, nella costruzione di questo rapporto, non avevo mai lasciato fossero loro, Tania e Artù, a dire davvero qualcosa, a prendere la parola. Finché non è successo. Finché ci siamo trovati dinanzi a una piccola implosione del nostro mondo, a un’emergenza sanitaria di proporzioni globali, finché ci siamo sentiti smarriti e tutto è cambiato o, almeno per un attimo, è sembrato poter cambiare. Mai, come nei giorni del lockdown, ho potuto esperire una nuova dimensione della mia appartenenza a una specie compagna. Mai, come nelle uscite con i miei cani in quei giorni, ho potuto mappare, ridisegnare i confini del mio quartiere, esplorare zone fino allora per me totalmente sconosciute, trovarvi rifugio dalla disperazione, conservare un briciolo di sanità mentale. Ma sono stati i miei cani a condurre me, al contrario di qualunque altro momento della nostra convivenza: ho esplorato coi loro sensi, fiutato con loro, osservato nuove cose grazie ai loro occhi. Il quadrilatero che, vicino alla mia abitazione, si estende per via Sampiero di Bastelica, via Renzo da Ceri, la pista ciclabile di via Prenestina, via Fanfulla da Lodi e le vie afferenti hanno assunto una prospettiva e dimensioni del tutto diverse per me. Molti di questi posti li avevo sempre evitati, correndo ogni giorno a rifugiarmi a casa dopo il lavoro. E, per una sorta di pigrizia, anche durante il lockdown avrei voluto evitarli…ma sono stati Tania e Artù a portarmi, loro a spingermi oltre le mie colonne d’Ercole, per scoprire, conoscere, osservare ciò che in realtà mi era sempre stato accanto. Io, esploratrice umana, in quei giorni ho creato figure di filo facendo il gioco della matassa insieme ai miei cani e agli altri umani, incontrati nelle nostre missioni all’aperto, che sono con-divenuti insieme ai loro cani in questo momento inedito della nostra storia, trasmettendo schemi e possibilità a Terrapolis, nell’ottica di un recupero multispecie, restando a contatto con il problema4, con l’infezione che minacciava di spazzarci via (mi adeguo al gergo guerresco utilizzato dalle nostre autorità).
Siamo legati nel raccontare una storia dopo l’altra solo attraverso i fatti. Ci insegniamo reciprocamente modi di comunicare che comprendiamo a malapena. Siamo, fondamentalmente, specie compagne. Ci creiamo le une con le altre, nella carne. Significativamente altr* per ciascuna delle parti in gioco, con differenze specifiche, significhiamo nella carne un’infezione evolutiva oscena chiamata amore. Questo amore rappresenta un’aberrazione storica e un lascito naturalculturale.5
Sebbene sappia di non aver adempiuto completamente alla contaminazione di cui parla Haraway in questo suo testo – fondamentale per iniziare a capire il rapporto interspecie – sento di aver in parte compiuto un passaggio fondamentale nella mia comprensione del rapporto con le specie insieme alle quali mi trovo a condividere il pianeta. Uno sforzo intellettuale, seppur minimo, ulteriore alla contaminazione di germi e saliva che, spesso per il solo fatto di abitare certi spazi – il Covid ce lo ha dimostrato nella sua brutalità dirompente – mi trovo a performare in maniera più o meno consapevole (consapevolmente lascio che i miei cani lecchino la mia faccia ogni mattina e dunque la loro saliva e la mia diventano un qualcosa di nuovo, plasmano me e loro; meno consapevolmente lascio che un virus faccia lo stesso, ma tant’è).
Sforzo nel quale ho lasciato fossero loro, Tania e Artù, a guidarmi, nella scoperta e nella creazione del mio rifugio.
1D. Haraway, Chthulucene – sopravvivere su un pianeta infetto, NERO, Roma 2019, cit. pag. 146.
2Ivi, pag. 64.
3F. Timeto, Bestiario Haraway – Per un femminismo multispecie, Mimesis, Milano, 2020, cit. pag. 132
4D. Haraway, ivi, cap.1, “Il gioco della matassa con le specie compagne”.
5D. Haraway, When Species Meet, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2008, cit. pag. 16, trad. it. mia.