di Giovanna Senatore
Scrivo di questi giorni trascorsi.
Scrivo di relazioni, aperture, intrecci.
Scrivo navigando tra porti sicuri, dove ormeggiano le mie scrittrici; lì, saltando sui loro battelli ondeggianti dolcemente, ho scavato me stessa senza risparmio.
Scrivo tra insenature agitate da un mare burrascoso che attrae e respinge; un mare dove le onde impetuose sono i racconti, le letture partigiane del mondo, le geografie mentali inattese che, spericolate e appassionate narratrici, in stanze dai confini fluttuanti, hanno costruito con noi/ tra noi, interrogando/ interrogandosi a giocare a mettere in parola il mondo e provare ad architettare uno spazio insolito, dai tetti capovolti e dalle pareti non squadrate, perché la vecchia casa, quella ormai disabitata da tempo, costruita su parole intense che raccontavano di noi e dei nostri giorni, si è sfaldata a poco a poco.
Su che cosa era costruita la casa?
Scrivo, provando a tessere trame, intrecciando parole sedimentate da lungo tempo con nuovi suoni che la mia gola e la mia testa faticosamente assorbono. Parole porose che si lasciano attraversare, ed attendono imperiose un con -pensare.
Ed eccomi cercare un filo con cui annodare le mie serate solitarie immerse nella lettura di testi da scoprire o riscoprire, con le riflessioni tratte dai volti intensi e dalle dense parole condivise su uno schermo/finestra abitato e mosso da noi tutte in un gioco continuo di rimandi.
Donna Haraway torna e ritorna tentacolarmente nelle mie /nostre analisi, con la sua lingua che inventa parole per cercare nuovi varchi in un mondo non più solo umano: parole che a volte suonano arcaiche, misteriche, gommose, vischiose, per invitarci a svelarle, scavarle per impedirle di solidificarsi, permanere in un significato dato per sempre.
Le sue parole si snodano allettanti/respingenti: refugia, responso-abilità, simpoiesi, tempospettiva, con–divenire, trouble, humosità … parole per stare insieme, relazionarci.
Refugia è la parola nodo che mi allaccia, che mi sceglie, che scelgo; mi invita a cercare luoghi di rifugio… ma quali? Luoghi materiali? Simbolici? Disegnati? Sognati?
Il sottoscala buio e profondo di Lila ed Elena, la stanza prigione di Elisa, la stanza spoglia di Offred, i luoghi riattraversati con Tiziana de Rogatis, spalancano aperture impreviste. Mi riportano ai luoghi d’incontro dei collettivi femministi degli anni ’70, alla stanza tutta per noi …luoghi della memoria di cui provo a trovare la chiave di accesso: luoghi intrisi di donne con cui cercare uno stare insieme, gelosamente separato dal maschio
Case, stanze, mura dove accatastare fumo, libri, sciarpe, scarpe, umori, caffè, cibo, risate, pianti. Pareti dove parlare, dicendoci la verità sul calare della sera, per terribile che sia.
Interni borghesi, idee, teste e corpi che ribollono parlando di rivoluzione; tutto si muove in uno spazio dove nulla apparentemente confligge.
Muovevamo le lunghe gonne al vento disincagliando i corpi da corsetti ed orpelli, tutto ci sembrava ancora possibile. Ma, le pareti del mondo iniziavano a schiacciarci: la storia procedeva veloce verso il baratro inghiottendoci.
La stanza pian piano si stringeva su spazi aspri ed irti. Le parole cominciavano a raccontare donne che si incontravano, scontravano, si amavano, si detestavano, costruivano, distruggevano pensiero, affettività, progetti. Lo spazio nato per accogliere e rinviare le parole di tutte, si era rivelato di nuovo una cella: alla presa di parola di poche, sempre le stesse, si opponeva il mutismo delle altre.
Stavamo scoprendo di non essere tutte uguali, di urtare di continuo con l’esistenza dell’altra, accavallandoci senza tregua, incapaci di ascoltare.
Orfane delle nostre pratiche politiche, ondeggiavamo
La stanza rancorosa, ispessita come le pareti di un utero addormentato, era mossa ormai da donne che si disegnavano totalmente in ordine con loro stesse a patto di tagliare via ogni dimensione di fragilità.
Disparità e conflitti cancellati nel silenzio di un totem da adorare.
Il mondo si scollava, precipitosamente gli orli si smarginavano. I luoghi dell’affabulazione si restringevano, divenendo altro, contro luoghi, eterotopie.
La stanza cella si diluiva così come le donne sue abitatrici.
Disperse in stanze non più mie, sceglievamo l’invisibilità, ritornavamo ad abitare un corpo in cui il pensiero deve essere razionato, per impedire che frammenti di esso possano diventare intollerabili perché il pensiero può nuocere. Impossibile riannodare i fili del gomitolo delle nostre vite, trovare nuove radici.
Il tempo intanto scivolava via e le domande, tante, si preferiva seppellirle, cancellarle mentre un deserto affettivo avanzava impietosamente. Le gonne non si gonfiavano più al vento dell’utopia, le parole suonavano stanche.
Ora, qui, nel silenzio della mia stanza cerco di rammendare, ricucire ciò che è stato distrutto: mi chiedo se il mio lento zigzagare tra e con le parole non sia altro che il sogno di tessere una rete leggera eppure resistente tra la memoria e un qui ed ora tutto da reinventare.
Attraverso nodi e maglie, in un gioco di incroci continui, la rete riporta alle stanze, per trovare di nuovo, uno spazio duttile, poroso, condiviso, una stanza carica di fiori e piante da coltivare, di tazze da riempire di caffè, di idee da stendere bene dopo averle impastate con i nostri desideri, con nuove visioni del mondo, di parole cariche di noi, disordini da riordinare, bambole da far riaffiorare dai labirinti profondi per inerpicarci lungo strade e pendii fra libertà e solitudine densa di un noi; stanze dove dimorare senza dimenticare che dietro l’idillio della dimora abitata c’è l’oscuro sempre da affrontare: l’altra identica e diversa, complessa e incompleta.