di Elisa Tremolada
L’orrendo Subotnik mi ha ripulito di tutto il cancro. Mi ha levato i polmoni ormai massacrati dalle metastasi ed è intervenuto sul sistema circolatorio: ha deviato, modificato, ricostruito e mi ha salvato.
Ora vivo in un’enorme vasca, nell’acquario municipale di Berlino. Ho delle bellissime branchie filiformi intorno alla testa che mi permettono di respirare sott’acqua.
Sono tornato al mio primo amore, i pesci, i migliori amici dell’uomo.
Condivido la mia vasca con un branco di delfini. La domenica mi esibisco in uno spettacolo per i turisti. Salto, faccio le capriole, gioco con la palla per qualche aringa. Non si sta male, ve lo assicuro.
Alle volte mi sembra di essere davanti alla televisione, quando vedo i bambini, le mamme, i vecchi che mi guardano da fuori con i loro occhi enormi e distorti, quando poggiano il naso sul vetro. Allora, incerto e turbato mi nascondo nella mia tana, tra gli scogli, a riposare.1
Certo che mia madre è proprio una gran stronza. Il finale mieloso che ha deciso di sovrapporre alla mia vera storia continua a passarmi nel cervello, senza posa.
Non che Adele – mia madre, per chi non se la ricordasse – volesse farmi uno sgarbo; come al solito, pensava di aiutarmi, di elevare in qualche modo il mio inesistente status sociale dipingendomi come un sinuoso delfino residente nella capitale della Germania.
Tutto a posto, se non fosse che quel mucchio di carte, poi scambiato per un romanzo, era il testamento della mia vita umana, brutta e bella copia insieme. Un testamento che adesso mi racconta come un gioioso tursiope che balla per due aringhe. Vaffanculo, ma’.
– Vedi mamma, i pesci non lo conoscono il concetto di “status”. Sto qua da un po’, ormai te lo posso raccontare. L’unica gerarchia che regge qui è quella tra chi mangia e di chi viene mangiato.
Come vorrei poterle parlare. Sbiancherebbe, nonostante la pelle abbronzata dalle tante ore passate nell’orto insieme ai monaci del monte Fuji, e le verrebbe la stessa espressione preoccupata e un po’ stupida che aveva stampata in faccia quando le dissi del cancro.
– Oh Marco! Mi dispiace tanto, non volevo metterti in questa situazione. Chiameremo Djivan e ti faremo inserire in un bel corpo di balena, che così non rischi. Che ne dici?
A questo punto inizierei a sbellicarmi dalle risate. Internamente, ovvio, avete mai visto un pesce che si sganascia? Ma mi sbellicherei proprio a raccontarle in che situazione mi ha ficcato il suo amato orrendo Subotnik, il pentito.
A spiegarle che questo corpo l’ho voluto per paura, e la paura ci è rimasta bloccata dentro come aria viziata in una stanza chiusa.
– Mamma, lo sai che non sono un delfino, vero? Che sono molto più piccolo e brutto? Che non vivo a Berlino e non faccio le capriole? Lo sai o no?
Mi vedo le vene che si gonfiano sul collo che non ho più, un’eredità genetica del corpo che mi madre ha scelto di cambiarsi.
– Marco, certo che lo so, – la voce si calma e diventa docile, suadente. – Ma ti pareva che potessi dire in giro tutto quel che ti era successo, rivelare i segreti di Djivan al mondo senza il suo permesso… è stato meglio così.
Sì mamma, è davvero stato meglio così. Ma tu non saprai mai il perché, e così pure i miei lettori.
Più che altro, è uno spreco divulgativo gigantesco. Avrei potuto raccontare a tutti la storia della mia specie, i Caulophryne jordani, della famiglia dei Caulophrinydae, ordine dei pesci lofiformi2. Mi piacevano pure da umano, queste brutte rane pescatrici che passano la vita a duemila metri di profondità. A differenza delle specie animali più studiate, il dimorfismo sessuale nei lofiformi favorisce la femmina, che misura in media 10 volte il maschio. Ma non è questa la cosa più sorprendente. La cosa più sorprendente è che il maschio – cioè io – si fonde, epidermide tessuti e circolazione compresa, con la femmina durante l’accoppiamento. E lì rimane. Per sempre.
A questo punto mi sto davvero sganasciando dalle risate, anche se è impossibile vederlo. Mi immagino mia madre che discute con me in questa posizione, attaccato, anzi parte ormai del corpo della mia compagna.
Al punto che oramai non c’è più un’articolazione tra me e lei. Non un punto che non sia condiviso. Probabilmente mi sta ascoltando mentre penso, forse se la ride o forse pensa che se potessi staccarmi sarei proprio un padre sciagurato. E chissenefrega, tanto io sono lei e lei è me e queste preoccupazioni hanno perso di senso.
A volte quella parte di cervello che ancora mi appartiene s’impone sul cervello della mia compagna. Oggi è una di quelle volte. E quello che vedo da questi occhi che non sono i miei si presta bene agli scopi della mia materia grigia: sabbia, sempre sabbia, un baluginìo di mare nero e vuoto, e poi ancora sabbia, aspettando il pasto. La noia mi trascina inesorabilmente nei ricordi.
E allora sogno di essere ancora di fronte a Djivan Subotnik, che facendosi improvvisamente piccolo mi confessa il segreto dei suoi trapianti senza rigetto: una proteina che estrae dai pesci lofiformi, come me e lei. Ammazzandone migliaia come ha ammazzato centinaia di indiani innocenti. Sogno di guardarlo in cagnesco, proprio come un cane rabbioso, e di fargli finalmente una richiesta che non può rifiutare.
– Voglio diventare un Caulophryne jordani. Se non riesci a traslarmi nel corpo di un pesce lofiforme, ti apro un buco nella testa, sono stato chiaro?
Ah, dimenticavo. L’infame Subotnik non può rifiutare perché gli sto puntando alla testa una calibro 45, acquistata per “sicurezza personale” dopo i rapimenti in India. Acquistata per puntarla sulla faccia da divo di Djivan Subotnik.
Che infatti non rifiuta. E io mi sottopongo all’operazione consapevole che, dopo un brevissimo periodo d’adattamento, vivrò il resto di questa strana vita riversando sperma dentro una vagina che piano piano diventerà anche la mia.
Sogno Subotnik nudo, accanto a mia madre, ad Adele sarebbe meglio dire, che la guarda con intensità.
– Fidati, Adele, è stato meglio così.
Per una volta l’infame Subotnik e mia madre hanno entrambi ragione. La mia vita non ha alcun senso, sta scomparendo. Tra un po’ di tempo sarò assorbito del tutto e Marco Donati smetterà di esistere.
Intanto, ha già smesso di avere paura di morire. E scusate se è poco.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
1 Ilaria Valenti (2012). “N.Ammaniti – Branchie, gli inizi e nascita de Il momento è delicato (Modena – 17/05/12).MP4”. Consultabile al link: https://www.youtube.com/watch?v=0MZ0IQrBdiw&t=11s
2 Ammaniti, Niccolò (1997). Branchie. Einaudi, 2a edizione. pp. 184-185.
3 Wikipedia, Caulophrynidae, https://it.wikipedia.org/wiki/Caulophrynidae ;
Wikipedia, Lophiiformes, https://it.wikipedia.org/wiki/Lophiiformes
ALTRI MATERIALI UTILIZZATI
Haraway, Donna J. (1992). The Promises of Monsters: A Regenerative Politics for Inappropriate/d Others. Routledge: London.
Ferrari, Gabriele (2020). I pesci abissali che si fondono durante il sesso. Focus.it. Consultabile al link: https://www.focus.it/ambiente/animali/i-pesci-abissali-che-si-fondono-durante-il-sesso#:~:text=I%20lofiformi%20sono%20pesci%20abissali,un%20sistema%20immunitario%20altrettanto%20particolare.&text=I%20lofiformi%20sono%20un%20ordine,esca%20per%20attirare%20
Il lavoro scaturisce, in particolare, da una riflessione personale sulle lezioni di Anna Maria Crispino e di Federica Timeto all’interno del modulo Narrazioni.