di Ilaria Nassa
La pandemia da Covid-19 mi ha portata, più che a rimettere in discussione legami e l’affettività con le persone a me consanguinee e non, a riflettere sulla morte e sul modo che abbiamo di celebrarla.
Nella nostra tradizione cattolica e cristiana è previsto che il corpo della persona morta venga riposta in una bara di legno dopo aver provveduto a effettuare la veglia notturna. Il corpo nella bara viene portato in una chiesa per la celebrazione del prete e infine il corteo, adornato di fiori recisi, si sposta verso il cimitero. È qui che la bara viene riposta in una nicchia di cemento, dove si trovano i componenti della famiglia del padre. Si viene riposti dove giace il nostro cognome. Essendo le nostre famiglie patriarcali e patrilineari, veniamo ripost* seguendo questo principio.
I fiori recisi verranno poi buttati e ne verranno tagliati altri per adornare la tomba della persona morta. Il corpo si decomporrà all’interno del cemento e col tempo verranno lavate le ossa e riposte dentro una cricca con altre ossa. Si andrà a trovare la persona morta nel cimitero dove giace con costanza o almeno una volta l’anno, il 1 Novembre. Quando ci si reca al cimitero, si dice che si “va a trovare” i parenti o i cari morti, come se effettivamente questi potessero essere capaci di accoglierci nelle loro nuove case.
Questa conservazione ostinata del corpo, mi disgusta e mi spaventa allo stesso tempo. Sento come se non accettassimo la caducità della vita e il nostro essere mera parte organica del pianeta, che si biodegrada nell’ambiente, seguendo il ciclo della Natura, della Vita.
A prescindere dal credo religioso, oggi è quasi impossibile sottrarsi a questo rito della morte. La cremazione, oltretutto, non è l’alternativa in tal senso: il corpo bruciato risiederebbe comunque all’interno delle pareti di ceramica dell’urna e non avrebbe modo di toccare direttamente alcun terreno.
Mi pare che ci sia una tendenza a non voler pensare alla vita umana come materia organica, a dare lo stesso valore agli esseri viventi di questo Pianeta. Sento che sarà necessario in futuro ripensare ai riti della morte in una mentalità di nutrimento degli esseri viventi della Terra e di trasformazione del corpo umano in qualcosa di nuovo. Sento che è necessario pensare al nostro corpo morto, come un contenitore utile per concimare la terra. Sento che il modo migliore per onorare la morte sia non di conservare a tutti i costi il corpo nell’atto di volerlo far rimanere immortale (usanza che serve più a chi rimane in vita che a chi ne è privo), ma sia di accettarsi come esseri mortali che vivono perché in connessione con altri esseri mortali non-umani.
Vorrei che il corpo venisse visto come compost della terra. Vorrei che il mio corpo-compost diventasse nutrimento per un albero. I testamenti dovrebbero allora contenere l’albero che si sceglie di diventare una volta diventati compost: e i riti di morte diverrebbero dei riti di compostaggio della terra, di cura dell’albero, in senso comunitario.
Credo che questo sia anche l’unico modo per sfuggire a questo rito della morte che ci costringe a tornare alla “casa del padre” a causa del nostro cognome. Diventare compost, diventare un albero, romperebbe tutti i vincoli patriarcali e patrilineari della morte.
Questa immagine mi rimanda al mito di Apollo e Dafne. Apollo voleva stuprare Dafne, una ninfa. Questa scappò da lui e pregò gli dei e le dee di salvarla. Gli dei e le dee dell’Olimpo, avendo pietà di lei, accolsero le sue preghiere di sfuggire ad Apollo, dio della luce, e la trasformarono in un albero d’alloro.
Essere compost e diventare un albero porterebbe alla consapevolezza di essere mortali, di avere un certo tempo su questo Pianeta, a ragionare sulla nostra impronta, a sfuggire alle dinamiche patriarcali anche dopo la morte.
Se dovessi scegliere un albero che si nutra del mio compost, sceglierei il fico sicomoro, un albero particolare, che cresce nelle regioni mediorientali.
Merlin Stone ne fa accenno nel suo Quando Dio era una Donna, ipotizzando che molto prima dell’avvento del patriarcato, ci fossero delle società matriarcali e matrilineari che adoravano una Dea, il cui animale sacro fosse il serpente e il cui albero sacro fosse il fico sicomoro. Il fico ha frutti tondi a grappoli e molto rossi. Merlin Stone ipotizza nel suo saggio che il frutto proibito dell’albero della conoscenza, che nella Genesi Dio ammonì Adamo ed Eva di non mangiare, fosse proprio il fico di quell’albero.
Ho realizzato questa immagine ricalcando la mia mano e disegnando man mano i rami e i frutti del fico sicomoro, cercando di rimanere il più fedele possibile ai colori e alle forme dell’albero effettivo. Mi sono ispirata al gruppo scultoreo Apollo e Dafne di Gian Lorenzo Bernini.