di Cristiana Pirola
Qualche giorno fa, ascoltando un’intervista a Carla Fracci, mi sono soffermata su due parole chiave del suo racconto, ma anche della sua vita: corpo e bellezza. Per quel principio harawaiano di storie che raccontano storie, mi è tornato in mente Kalos kai agathòs: un tuffo nel passato, ma anche un balzo nel presente. Secondo la filosofia ellenistica la bellezza è un dono divino dal quale discende la bontà; nelle parole della Fracci il senso è ribaltato: la bellezza interiore diviene bontà e bellezza esteriore nel gesto, nel movimento; si tratta di una sorta di transfer, di “trasfigurazione”, quello che si dice succedesse a Nijinsky, quando saliva sul palco.
Poco prima dell’esplosione della pandemia, avevo terminato il Master in Studi e Politiche di Genere dell’Università di Roma Tre, redigendo una tesi che partiva da una riflessione sul corpo attraverso lo studio della danza come dispositivo culturale. La danza è stata uno strumento attraverso il quale sono riuscita a superare le sovrastrutture culturali che appesantivano il corpo e attraverso cui ho preso coscienza di ciò che veramente lo attraversa: fasce di muscoli in movimento, sensazioni, emozioni che si amplificano e moltiplicano quando entri in connessione. Tutto questo è molto forte nell’improvvisazione: i corpi piano piano si avvicinano, magicamente entrano in relazione tra di loro, disegnando coreografiche inaspettate: man mano si crea una sorta di armonia magica, ci si incontra e scontra, forme transitorie si fanno e disfanno. Un continuo divenire e con-divenire, le forme e il corpo nascono, muoiono e si trasformano nel movimento e nel contatto.
Da questo punto di vista la danza fa esattamente quello che suggerisce Haraway quando consiglia di creare parentele, di con-divenire insieme, per rinascere e superare insieme “il tempo della titubanza”. Nella mia “rinascita”, le teorie femministe hanno aperto nuovi canali e connessioni: mi sono sentita attraversata da un’energia crescente, a poco a poco ero nuovamente centrata su me.
Per riflettere sul corpo e movimento, ma anche sulla sua caducità e finitezza è stato fondamentale il pensiero di Judith Butler. In particolare Gender Trouble mi ha spinto a riflettere nuovamente sula corporeità, sulla sua essenza fintamente biologica e sulla costruzione sociale delle nostre identità sessuali. Ed ecco che questo si lega anche al pensiero di Haraway perché lei, ampliando quello che afferma Butler, ci invita a “stare con il problema”, ed è questo a fare la differenza.
In un momento come quello che stavo vivendo, di pienezza e complessità personale è arrivata la pandemia, uno schiaffo. All’inizio, quando ne sentivo parlare, non potevo fare a meno di pensare ai film apocalittici visti sull’argomento, ai libri di fantascienza che avevo letto: lo scenario pandemico mi sembrava surreale. Immaginavo parassiti che replicando sé stessi, producendo morte e desolazione. Man mano il tempo scorreva, la realtà superava l’immaginazione: non solo pandemia, ma anche assenza, privazione, isolamento. Ci siamo ritrovati circondati dalla paura indottrinata e dall’irrazionale timore dell’altro: una sorta di corto circuito.
Rendersi improvvisamente conto di come siamo legat* a tutto quello che ci circonda e a quanto la distanza, la mancanza di contatto, sinergia e scambio appiattisca il senso della vita dei nostri corpi e delle nostre menti che hanno necessità di essere accolti e di con-dividere e con-divenire per vivere al meglio.
Se è vero che il corpo è destinato a decomporsi, allo stesso modo è anche destinato a ricomporsi, è finito e potenzialmente infinito, connesso in vita come anche quando si trasforma in vite altre.
Nella danza, come nelle complesse coreografie aeree degli stormi, il movimento crea e disfa incessantemente forme e situazioni, ed è in questo continuo di legami transitori e transitorie forme che tutto avviene e si trasforma producendo sempre qualcosa di nuovo e diverso.
Quindi, vivere, ma soprattutto il vivere il qui ed ora della pandemia, ci costringe necessariamente a ricentraci sui corpi, sul loro significato interno, come in quello che, esternamente, tramite essi esprimiamo.
Corpi umani, animali, non umani, postumani sono tanto importanti quanto più noi li rispettiamo e amiamo oggi, come anche nella loro trasformazione e connessione domani. La pandemia ci ha portati verso l’assenza del corpo, delle connessioni, delle relazioni: la nostalgia del contatto ci porta a sperare che presto questo diventi nuovamente veicolo e strumento di connessioni. Per questo Haraway: andiamo oltre, nel postumano, nell’altro che umano, nel compost.
Per rimettere i corpi al centro delle nostre esistenze, per ripensare la nostra vita partendo da qualcosa di reale, finito, animale, biologico che ci permette di comprendere che esso e noi valiamo oltre la nostra essenza; il corpo è uno strumento e, attraverso di esso dobbiamo imparare a viverne l’essenza, ma anche a sentirlo come strumento di connessione, trasformazione, compostaggio.
Per tornare a Carla Fracci, possiamo dire che la bellezza interna trasforma i nostri corpi: quello che coltiviamo dentro, fuori diventa una pianta che cresce, germoglia e muore costantemente. Cosa vuole dire oggi questo per me? Essere femminista vuol dire partire da sé e, a dispetto delle elucubrazioni filosofiche, parto dal fatto che sono una madre, bianca, con una relazione eteronomica, e che sono una donna che lavora e combatte ogni giorno con sé stessa e con il mondo per rivendicare spazio, idee, essere.
Leggere il testo di Donna Haraway è stato illuminante, mi ha portato oltre, in primis oltre il concetto di “famiglia”: la ricerca di “parentele altre”, un legame stretto e collaborativo tra persone scelte e non imposte. E alla base di queste relazioni c’è l’accoglienza, che ci permette di costruire rapporti più sani. I legami “altri” hanno così il sapore della libertà di scegliere e di scegliersi, come anche il condividere; d’altro canto scegliendoci può anche accadere che la connessione finisca, non funzioni, non vada a buon fine. Mio padre sosteneva che gli “amici” non esistono, andava ripetendomi che le persone si legano, sempre opportunisticamente, questo per me era molto destabilizzante e mi rendeva fragile rispetto al mondo delle relazioni e delle connessioni.
Oggi mi chiedo: cosa c’è di male? Mi torna in mente Il piccolo protagonista del romanzo di Romain Gary La vita davanti a sé: per il piccolo “Momo” che non ha mai conosciuto la sua mamma e non sa cosa sia una famiglia, Madame Rosa, la prostituta che lo ha cresciuto sotto pagamento, è l’unica vera “parentela”. Cosa c’è di più naturale e concretamente reale se non “usarsi” a vicenda, anche transitoriamente. Siamo portat* a cucire su questi comportamenti un giudizio morale che, leggendo Haraway, mi sono convinta non abbiano senso.
“Non fare bambini, ma fare parentele”, infine, mi risuona dentro profondamente: il mio fidanzato storico era un’attivista, io cercavo un mio modo di fare politica, assumendo, spesso, un atteggiamento molto critico nei suoi confronti e nel modo in cui esercitava la sua pratica politica. Io volevo dei figli, lui no. Per anni si è trincerato dietro una frase passata alla storia: “c’è la sovrappopolazione”. Era harawayano? Non so, ma quello che so e che mi faceva arrabbiare, mi sembrava una risposta cinica e razionale.
Oggi, dopo tre figlie, paradossalmente, posso capire profondamente il senso di quelle parole: avere figli che siano di tutti, avere una realtà e un mondo connesso e condiviso, non lottare per particolarismi e ottusità, ma tutti per tutti, creare nuovi equilibri, parentele altre non basate sulla consanguineità. Non esiste un modo, ma tanti modi diversi.
Infine, per la collaborazione transpecie ho adottato una coniglietta, da cui cerco di imparare nuovi modi di stare insieme e prendersi cura.
Questo è stata Haraway per me.