Stridori modali

Stridori modali

di Francesca Scapinello

Seguono riecheggi, disfunzionali e tutti sospesi, ctoni di compost regalati e scartati, delle Nora tarantolate, della coralità dialogica tra Donna Haraway, Ludwig Wittgenstein, Stanley Cavell e Toril Moi, di scarti visivi, di gomitoli con asole, di interrogazioni timide e impaurite, di sollievi nell’essere ragno, cavalla, quercia e affluente:

rantoliamo e ci rovesciamo dalle pieghe di tessuti soffocanti, lasciatə esprimerci solo per espellere una morsa che si compiace guardandoci contorcere;
rianimiamo relazioni perennemente – e sbadatamente – rotte da sguardi oggettivanti che bollano – e creano – l’isteria e l’esagerazione;
il telaio è nostro per noi e i fili che intrecciamo sono corde vocali, le cui radici però diffrangono e vociamo – agendo – di concerto;

esistiamo perché aggrovigliatə in intrecci ariosi – e quindi sfumati – dove sappiamo di doverci muovere rispondendoci e lasciandoci spazi;
la cassetta degli attrezzi ha
Arti per raggiungerci – e per essere raggiuntə;
occhi retrospettivi e prospettivi;
rasoi per gli assoluti;
aghi per la misura;
limo per le vesti;
intercapedini disposizionali in costellazioni fluttuanti di libere variazioni fantastiche che non giungono al centro perché corrono e camminano ovunque;

non siamo più specchi di narcisismi simmetrici, sappiamo di rifrangerci, infrangerci e di danzare su cartoline di parentela e di archi-tracce;
i sentieri originari sono disparati e abbiamo risacche – ereditate – piene di tutto che ce li ricordano;
non abbiamo ancora deciso – e/o capito [e capito/deciso se si debba prima decidere/capire] – come portarle, trascinarle, lanciarle, assimilarle con noi;
ascoltiamo i nodi tesi sulle nostre schiene e li interroghiamo a proposito di quali domande ci servano;
componiamo compost compositi di rifiuti (agiti e subiti) che urlano in voragini intestinali fameliche; 
a volte mosto, a volte vino, dondoliamo barcollanti tra noi con-locate e connesse e tra le semi-noi e le non-noi, alle quali non diamo subito nomi perché ci accorpiamo nel tempo;
ci è offuscata l’immagine di noi mentre impegniamo radici nella sterilità e per poi portarci, per mano, verso boschi diversi, di neve e sole, ma solo quando ci piace;

germiniamo in tantə a latere della roccia di rottura di vanga
e feriamo proli che rimandano alle buone intenzioni non immaginando la violenza delle conseguenze;
non neghiamo la nostra fine, ma la ricamiamo insieme a quella di tuttə e non rinunciamo a costanti parentesi che rinnovano, ricolorando, il nostro sguardo;
siamo le mani e il respiro che soccorrono l’inquietudine del dubbio, non offriamo però permanenze, lasciamo che la difficoltà sia modulata sulla capacità di ascolto di ciascunə;
lavoriamo per la meraviglia della resilienza, ma solo accostando le parzialità che si consumano man mano in uno sfondo di libere possibilità rappresentative da tradurre in pratiche;

questo è metodo, manca(no) molto(ə) altr(ə)

* immagine in evidenza: La culla di Gustav Klimt

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Isabella Pinto
Isabella Pinto

Isabella Pinto, si occupa di narrazione, letteratura, scrittura&lettura diffrattiva e di ecologia politica trans/femminista/queer/multispecie. Attivista dei movimenti studenteschi e sociali, dei movimenti per il diritto all’abitare, del Teatro (...) Maggiori informazioni