Perché una giornata di studio promossa dalla redazione Iaph Italia sui temi del lavoro? Perché ce lo dettano il contesto di crisi, economico-finanziaria, democratica, di cittadinanza e la politica nazionale ed europea? Non solo. Perché pensare al lavoro a partire dalla filosofia (vedi Federica Giardini) significa prendere le distanze dalle urgenze e dalle emergenze del presente, significa prendersi il tempo di pensare al rapporto tra donne e lavoro al di là delle retoriche contemporanee sull’inclusione, al di là del gioco di avanzamenti e arretramenti di cui le donne sono protagoniste nel nostro tempo, valorizzando le pratiche e le lotte che ci vedono “vive” nella politica del quotidiano. Un pensiero filosofico sul lavoro irrompe e scardina la prospettiva economico-produttiva, permette di pensare a nuove categorie e nuovi paradigmi e di nominare gli spazi di libertà di quelle pratiche che già esistono ma sono invisibili, perché poco interrogate e quasi mai nominate, e che parlano di un nuovo modo di stare al mondo, di una nuova cittadinanza. Tenendoci a debita distanza dalla trappola della crisi che impone un pensiero del possibile distraendo forze ed energie dal pensare l’impensato, costruire immaginario.
Partiamo da qui oggi, per cercare di fissare dei punti fermi, ma soprattutto per aprire interrogativi e spazi di azione che coinvolgano altre e altri, per rintracciare “i nuovi paradigmi della cittadinanza”, tutta da pensare e costruire, insieme.
PREGRESSO
Nel 1997, in una raccolta di saggi intitolata “La rivoluzione inattesa”, Lia Cigarini parlava di “coincidenza tra femminilizzazione e trasformazione del lavoro”, rintracciandone elementi positivi, sia in termini quantitativi: l’ingresso massiccio delle donne nel mercato del lavoro e in tutti i settori dell’economia; sia in termini di simbolico: l’occupazione dello spazio pubblico di cui il lavoro è vista come un’articolazione fondamentale; sia in termini qualitativi: la tendenza a leggere il lavoro senza più escludere le donne e la loro esperienza, parlando il loro linguaggio e usando categorie e immagini prese dal mondo tipicamente femminile. Capovolgendo quindi l’impostazione che considerava il lavoro come mera risorsa delle imprese e del mercato, affermando al contrario che l’impresa e il mercato fossero risorse per il lavoro.
Ma i sospetti di questo modo di vedere la femminilizzazione erano già dichiarati. Iaia Vantaggiato scriveva, ancora in quella raccolta: “E’ il “modo femminile di lavorare” ciò che – tout court – viene assimilato al lavoro. E questo desta sospetti: la cosiddetta crisi della società del lavoro (o società fordista) sembra potersi risolvere con il ricorso alle donne. Resta da vedere quanto la propagandata “femminilizzazione del lavoro” significhi l’esperienza (e i desideri) delle donne reali ovvero quanto il sistema capitalistico si serva di questa nuova astrazione per riprodurre se stesso” (AA.VV., La rivoluzione inattesa, Pratiche, 1997, p. 44).
TESI – PROBLEMATIZZAZIONE
Sospetti fondati ci sembra, tant’è che “il divenire donna del lavoro”, quello che doveva essere il progressivo adattamento dei lavori alle competenze, alle capacità tipicamente femminili, si è trasformato nel rischio costante di addomesticamento delle donne ai lavori. L’innamoramento al lavoro, prospettato da Cigarini, si è tramutato nella messa a profitto delle soggettività, delle nostre capacità di mettersi in relazione, del nostro cuore, delle nostre emozioni, dell’attitudine a costruire ordine simbolico. In cambio di cosa? Se le donne hanno portato tutto al mercato, competenze, capacità, intelligenze, cura, il sistema ha restituito alle donne inclusione, ma di dubbio vantaggio. E’ rimasta del tutto aperta la questione dell’autodeterminazione femminile nel lavoro, lavoro che mantiene salde le sue fondamenta patriarcali, pur cambiandone velocemente il contorno: si è passati infatti dal lavoro, come l’abbiamo conosciuto in epoca fordista, ai “lavori”, protagonisti del postfordismo, con le proprie caratteristiche di precarietà, frammentazione e contaminazione tra tempi di vita e tempi di lavoro di cui le donne sono ancora quelle “ in perdita”. Il mercato ci ha inghiottite, per poi vomitarci a pezzettini. Nel tentativo reiterato di sterilizzare corpi e desideri, di soffocare il conflitto.
1° SPOSTAMENTO – RILETTURA DELLA FEMMINILIZZAZIONE
Ecco allora un primo spostamento da attuare: ribaltare la lettura della femminilizzazione del lavoro. Se questa ha significato nuovi modi di produzione che tengono conto delle esigenze e dei desideri femminili di far parte di un contesto produttivo senza separarlo da quello riproduttivo, portare tutto al mercato, quando il mercato è a tempo determinato, frammentato, precario, instabile, si traduce in espropriazione e isolamento, perché un mercato che ci vuole solo se competitive, individualiste, sempre disponibili e sorridenti, mai malate, mai incinta, è un mercato che ci rapisce e ci libera in base al pagamento del riscatto. Il riscatto è la perdita di diritti, l’impossibilità di costruire un futuro, la difficoltà a vivere il presente, il perdere di vista il desiderio di ciascuna e ciascuno, la rinuncia a pensare secondo giustizia.
All’inclusione rispondiamo con l’autodeterminazione. Domandiamoci dove e come le donne vogliono giocarsi quel di più, quell’eccedenza, che portata al mercato ha significato messa a produzione da parte del sistema maschile patriarcale. E’ l’eccedenza femminile fatta di altissimi livelli di istruzione e di bagagli di sapere che poi non trovano traducibilità nel sistema dato del lavoro; l’eccedenza di un pensare politicamente che non trova spazio nella politica delle istituzioni, l’eccedenza del saper fare e del progettare, per citare Annarosa Buttarelli, “la predilezione femminile per non separare il sapere fare il pane (e provarne piacere) e il saper fare filosofia, fare simbolico (e provarne piacere)” (Ibidem, p. 102).
2° SPOSTAMENTO – INTERROGARE LE CONDIZIONI
Questa eccedenza femminile si ricolloca a partire dalle condizioni di vita delle donne. Quali sono le condizioni delle donne nel lavoro? Oggi parliamo ancora di discriminazioni, dimissioni in bianco, doppio lavoro, sfruttamento, differenze salariali forti (fordismo) e a questo dobbiamo aggiungere precarietà, disponibilità permanente, riduzione degli spazi e dei tempi della politica, delle relazioni (postfordismo).
Se, come scrive Cristina Morini, “le lavoratrici precarie immateriali fanno esperienza di un elemento particolarmente nuovo e vistoso: la non separazione del corpo dal processo produttivo” (dwf,Diversamente occupate, 2010, p. 64) e di conseguenza l’immissione in tale processo di due elementi: “sessualità e socialità”, la resistenza all’inclusione parte proprio dal corpo indisponibile alle misure del mercato, dall’eccedenza femminile che sfugge alla messa a produzione, che si prende la libertà di parlare e di fare dal margine. Chiediamoci se la libertà che resta ai margini può diventare generatrice di cambiamento. Prendiamoci la libertà di pensare un sistema differente, fondato su misure altre, su una economia oltre la moneta.
Ina Praetorius ci ricorda, nell’ultimo via Dogana, che l’idea originale dell’economia è quella della “teoria della soddisfazione dei bisogni”. Dovremmo quindi partire dai bisogni delle donne e degli uomini e da quali strumenti e quali indicatori si misura la loro soddisfazione (vedi Marina Della Giusta). L’economia del nostro sistema, nazionale e europeo, spostandosi dall’idea originale, ha dimenticato tali bisogni percorrendo strade che parlano di pareggi di bilancio, tagli netti ai servizi, al sociale, alla cultura, alta velocità, costi e sacrifici. Nel quotidiano poi ci sono donne e uomini, corpi e vite differenti. E c’è la crisi, una crisi combattuta con misure anticrisi che hanno prodotto e produrranno sempre più impoverimento, in una logica di riconferma sistematica al sistema che l’ha prodotta.
Qual è la misura adatta per riconoscere i bisogni, per affrontare la crisi e uscirne rigenerate?
Qual è la misura adatta per riconoscere i bisogni, per affrontare la crisi e uscirne rigenerate?
La risposta non può essere, ancora una volta, le donne chiamate a salvare un sistema in disfacimento (come già fatto con la crisi del fordismo) riconfermandone le basi: il tanto declamato fattore D, le donne in posizioni strategiche, quelle chiamate a sbrogliare le matasse e a rimettere ordine, in un sistema non creato e non gestito da donne (oggi ne abbiamo tre sedute al tavolo sulla riforma del mercato del lavoro). La risposta non è chiamare le donne a risollevare le “sorti del mondo”, ma cambiare il mondo a partire dalle donne, da una prospettiva generativa che parla alla società intera; da una radicalità del pensiero femminile che parte dall’esperienza e si fa politica di tutti.
3° SPOSTAMENTO – RI-PENSARE IL LAVORO A PARTIRE DALLA POLITICA
Lo facciamo a partire dal lavoro o no? Le donne non hanno mai schiacciato la loro identità sul lavoro, tant’è che si sono assunte il compito di provvedere all’esistenza stessa del mondo, alla cura dei legami sociali, delle relazioni. Chi crede che la crisi del lavoro si sia tramutata nella crisi del soggetto non parla delle donne, parla di un lutto tutto maschile.
L’altro spostamento è togliere il lavoro dal centro, in un atto che non è di perdita ma di potenziamento del resto.
La questione non è “solo” il lavoro, quanto e come ce n’è, e sappiamo che il momento storico che viviamo dice del lavoro come perdita, di occupazione, di reddito, di senso. Ma la relazione che noi tutte incrociamo con il lavoro e con tutto ciò che a esso si collega. Cos’è che ripaga il mio lavoro? Non è solo il denaro, c’è qualcosa in più: c’è una parte di senso, senso di me e senso del mondo, c’è la relazione e il piacere delle relazioni, c’è il desiderio di “darsi” e “dare” alla società, c’è il riconoscimento di se stesse in uno spazio, anche simbolico, da condividere con altre ed altri. La questione è allora come “rendere politico” questo qualcosa in più che diversamente portiamo al lavoro.
Ripensare il lavoro a partire dalla politica.
Quale è stato nel tempo il rapporto tra la politica del movimento delle donne e il mondo del lavoro? (vedi Pina Nuzzo). Finora le politiche istituzionali (pari opportunità) che hanno messo a tema la questione femminile ponendo le donne come “oggetto” da salvaguardare, ci hanno relegato nella sfera dell’inclusione e delle tutele, in una logica di welfare lavoristico e assistenziale che ha fallito scaricando ancora sulle donne la tenuta, fisica e simbolica, della società (il welfare di questo Paese sono le donne) e lasciandole sole.
E’ necessario oggi pensare un welfare che superi la logica delle tutele e parli di diritti universalistici, sganciati dal lavoro. Continuità di reddito, maternità e paternità, diritto all’abitare, istruzione e formazione, accesso ai saperi e alla cultura. Si tratta di diritti oggi legati all’attività lavorativa di ciascuna e ciascuno o alle condizioni economiche delle famiglie di origine, in un quadro che fa tornare prepotente la categoria di classe. E se tali diritti fossero pensati dalle donne, a partire dalla vita e dalle pratiche delle donne? Se si trattasse di diritti sessuati? Che generano nuova cittadinanza? Serve una trasformazione radicale che parli di un’economia generativa piuttosto che produttiva, che metta in campo pensieri e pratiche politiche di condivisione dei beni.
Queste pratiche già le vediamo e le viviamo, nella politica per parte di donne che si fa politica di tutti: penso alle donne de L’Aquila che hanno reinventano una cittadinanza sospesa dall’emergenza riappropriandosi degli spazi cittadini; le donne di Napoli che autogestiscono la raccolta dei rifiuti, le donne del movimento studentesco, la campagna referendaria per l’acqua bene comune che parte da una risorsa naturale per parlare di un nuovo modo di stare al mondo, lontani dalla speculazione e dalla messa a profitto; l’occupazione del teatro Valle che parla, come dice Federica Giardini nell’ultimo via Dogana, di “restituzione” alla cittadinanza, che “non è un programma che va applicato, accade. Accade per via dell’apertura che consegue alla cura, quando questa si fa atto di forza politica”.
4° SPOSTAMENTO – AGIRE LA CURA COME PRATICA POLITICA
Qui l’ultimo spostamento: agire la cura come pratica politica
La cura del territorio, la cura dei luoghi, la cura delle relazioni, la cura del pensiero e delle pratiche, degli spazi politici, la cura delle attività produttive, materiali e immateriali, cura che, cito Pina Nuzzo, non è manutenzione, ma che va agita come pratica politica, con tutto il bagaglio di conflitto e violenza che porta con sè. Trasferire la cura del pensiero e del fare fuori dall’ambiente domestico e farne pratica comune, di cittadinanza, di condivisione dei beni è la politica da cui possiamo ri-pensare il mondo e il mondo del lavoro.
Tronto nel 1990 definiva la cura “una specie di attività che include tutto ciò che noi facciamo per conservare, continuare e riparare il nostro “mondo” in modo da poterci vivere nel miglior modo possibile”. Qual è questo “mondo”? Per me sono le relazioni, è il mio lavoro, la mia casa, i miei affetti, le mie amicizie, la mia politica, il mio tempo, proprio quella rete complessa di sostegno alla vita che passa per il mio corpo, i miei bisogni, i miei desideri, il senso di ciò che dico e faccio, la politica dell’esperienza. Pina Nuzzo scrive: “La cura richiede impegno e un pensiero costante e attento per qualcuno o per qualcosa. Essa non è solo accudimento, ma attraverso la cura si impara/insegna la relazione con le persone, con il mondo e si apprendono/insegnano i comportamenti. La cura non è lavoro, anche quando è faticosa, essa è la cifra di una relazione” (Libere di lavorare, Anteprima XV Congresso Udi, 2010). E, va ricordato, lo afferma Cristina Morini che: “dietro (dentro) il concetto di cura si celano anche il sudore, il sudiciume, le lacrime, l’oblatività, la noia […] la cura rimanda anche a esperienze non care alle donne. Ruoli imposti, costruzioni sociali, obblighi, norme, “naturalità” innaturali” (Vogliamo altro. Appunti per una critica al concetto di produttività, di lavoro e di cittadinanza, Intervento Macba, Barcellona, 2010).
La cura relegata all’ambiente domestico, come cura di sé, dell’altra/o, è “solo” accudimento, responsabilità, norme, ma per farsi politica deve diventare pratica sociale di tutti, de-naturalizzarsi. Come? La cura non è amore incondizionato, ma è cura delle condizioni. Agire la cura là dov’è il mio desiderio, ri-pensare gli spazi e i tempi non produttivi nel senso capitalistico del termine. Spazi e tempi fertili, di rigenerazione dei corpi, dei saperi, del pensiero, delle relazioni, di politica. Chiudo: possono essere queste le misure “altre” di ricchezza che ci portano a un nuovo paradigma della cittadinanza? Il pensiero e le pratiche delle donne che si fanno politica di tutti?