Negli ultimi trent’anni sono cambiati sia sistemi produttivi che di previdenza sociale ed è conseguentemente cambiato sia il lavoro (pagato e non) che il ruolo che riveste nella realizzazione personale ed economica. Le categorie occupazionali diventano sempre piu’ importanti nel definire diritti e ruoli, mentre le priorita’ di politica pubblica si vanno orientando verso definizioni meno materialistiche del concetto di benessere, proprio mentre vanno togliendo sicurezza nella spesa sociale. Nella presentazione si discuterà dei ruoli di uomini e donne nel sistema attuale e di come questi si riflettano nel loro benessere e nel modo in cui lo definiscono, concentrandosi sulle diverse responsabilità e uso del tempo e discutendo del ruolo delle norme sociali nelle scelte individuali e collettive, della loro persistenza nel tempo, e delle difficoltà di realizzare un modello di famiglia in cui sia uomini che donne condividano e apprezzino sia lavoro pagato che lavoro di cura.
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Nel corso degli ultimi trent’anni l’ineguaglianza tra ricchi e poveri e’ andata aumentando nella maggior parte dei paesi industrializzati (www.inequality.org).
Questo e’ dovuto all’effetto combinato di una serie di fattori: la riorganizzazione delle catene produttive grazie alla liberalizzazione dei mercati; la diffusione di mercati in cui il vincitore prende tutto che ha creato una elite transnazionale che beneficia soprattutto di spropositate rendite da capitale da fonti non sempre lecite e in gran maggioranza esentasse; e infine la progressiva rinuncia da parte di molti governi occidentali al progetto di redistribuzione del reddito che era stato fondamentale per la creazione dello stato sociale e che non e’ sopravvissuto alle crisi petrolifere e all’avvento dell’ideologia liberista degli anni ottanta (Stiglitz, Globalization and its discontents; Frank and Cook, The Winner-Take All Society; Heine and Thakur, The Dark Side of Globalisation; Neckerman, Social Inequality; Razin and Sadka,The Decline of the Welfare State).
I sistemi di sicurezza sociale, che erano stati ‘disegnati’ sulla base di una divisione in classi di lavoratori che andava progressivamente scomparendo, hanno anche dovuto far fronte al radicale cambiamento nei rischi per i quali dovevano provvedere una assicurazione sociale: i lavoratori che erano tradizionalmente sottoposti a rischi contingenti e idiosincatici (stress occupazionali o malattia) sono risultati invece sempre piu’ esposti a rischi di tipo sistemico (crisi finanziarie, cambiamenti strutturali dell’economia) (Standing, Work After Globalization).
Per quanto riguarda il lavoro, Guy Standing sostiene che il modello globalizzato significhi che l’occupazione (pagata o non pagata) sia sempre più importante nel definire sia l’identità che la cittadinanza.
Simultaneamente le relazioni di lavoro sono sempre più commodificate (incluse quelle all’interno della famiglia e nell’istruzione) e questo consiste per molti nella progressiva perdita della parte del lavoro che consiste nella realizzazione di ambizioni sociali ed etiche a favore di una visione del lavoro come fonte di reddito e, dove possibile, status.
Sulla base dei dati dell’ ILO Standing individua quattro categorie di lavoratori pagati, alle quali si devono naturalmente aggiungere i lavoratori del settore informale e coloro che non vengono retribuiti per il proprio lavoro (categoria cui appartengono soprattutto donne sia nei paesi in via di sviluppo che, proporzionalmente di più, in quelli industrializzati):
– l’elite globale, staccata dai sistemi regolatori e di previdenza nazionali, a bassa o nulla contribuzione fiscale e con poco attaccamento psicologico e investimento nel mantenimento dei sistemi di previdenza sociale;
– il salariato, categoria privilegiata con lavoro stabile e meno commodificato e previdenza (dipendenti statali, parastatali, impiegati in multinazionali);
– il salariato, categoria privilegiata con lavoro stabile e meno commodificato e previdenza (dipendenti statali, parastatali, impiegati in multinazionali);
– i proficiani, gruppo di lavoratori istruiti indipendenti (contractors e consulenti);
– la classe operaia, sempre piu’ ristretta in numero;
– il precariato, che comprende il maggior numero di lavoratori in assoluto e soffre sia di basse retribuzioni che impiego incerto.
– il precariato, che comprende il maggior numero di lavoratori in assoluto e soffre sia di basse retribuzioni che impiego incerto.
I dati sull’uso del tempo e il mercato del lavoro indicano che nei paesi industrializzati le ore di lavoro sono aumentate per gli uomini più pagati e diminute per quelli pagati meno. Anche le donne che partecipano sempre più alla forza lavoro (tranne qualche sorprendente caso di regresso…) lavorano piu’ ore, indipendentemente dal reddito. Studi condotti in Inghilterra da Tania Burchardt alla London School of Economics ilustrano come il 66 per cento dei bambini viva in famiglie che sono povere di reddito, di tempo o di entrambe le cose simultaneamente. Studi attitudinali condotti con studenti delle scuole medie e superiori indicano che i maschi sono piu’ interessati a soldi e carriera che ai figli fin dall’adolescenza, ma anche loro dichiarano di soffrire per la scarsita’ di tempo trascorso in famiglia. Le donne invece desiderano una divisione del tempo piu’ bilanciata ma faticano ad ottenerla date le pressioni combinate del mercato del lavoro e delle ristrette opzioni per la cura dei figli, cosicché il comportamento tipico è una uscita dal mercato del lavoro mentre i figli sono in eta’ prescolare e un progressivo reinserimento successivo spesso in lavori meno qualificati che danno non solo meno soddisfazione e reddito, ma anche pensione.
La ricerca sul benessere mostra una caduta progressiva nei livelli di felicita’ delle donne dei paesi industrializzati dagli anni 70 in poi (Betsey Stevenson and Justin Wolfers, 2009), sia in termini assoluti che relativamente agli uomini. E’ possibile che questo sia risultato di una serie di fattori: un aumento delle aspirazioni in varie aree (alcune delle quali confliggenti), un cambiamento dei gruppi di riferimento rispetto ai quali le donne si confrontano (colleghi maschi e magari mamme casalinghe simultaneamente); e fattori sociali piu’ generali quali il declino nella coesione sociale, l’aumento di ansie e neurosi documentato dall’organizzazione mondiale della sanita’, e l’aumentato rischio di disgregazione familiare.
Le economiste femministe sono di solito molto scettiche rispetto all’uso degli indicatori di felicita’ per misurare il benessere, e non senza ragione: come ben discusso da Amartya Sen e’ del tutto possibile che le donne si adattino alle proprie circostanze e si dichiarino felici anche in assenza delle piu’ elementari forme di diritti, risorse e capacita’ di agire. Occorre pero’ considerare sia le capacita’ ma anche il risultato cui portano: donne con molte risorse ma molto infelici non possono essere un obiettivo di una agenda che ne vuole accrescere il benessere, e le loro voci vanno ascoltate!
Inoltre visto l’impeto crescente per l’inclusione di queste misure nei conti nazionali (commissione Stiglitz in Francia, nuovi indicatori raccolti anche dall’ISTAT) sembra molto importante contribuire unaprospettiva femminista a questo tipo di analisi, soprattutto vista la possibilita’ che indicatori di felicita’ vengano usati per giustificare interventi di politica sociale. I risultati di uno studio sulla felicita’ condotto in Inghilterra (riassunti qui) indicano che uomini e donne sono influenzati da fattori diversi e anche che hanno diversi concetti di felicita’, dando diverso peso alle stesse componenti della vita (lavoro, reddito, casa, amici, salute, e famiglia).
Venendo all’uso del tempo piu’ in generale, uno sguardo ai dati sul lavoro non retribuito in Italia (volontariato, lavoro di cura di figli e anziani, lavoro domestico, shopping) mette le donne italiane nella poco invidiabile posizione di coloro che fanno di più sia in assoluto (per quanto in particolare riguarda il lavoro domestico) che relativamente agli uomini in tutta l’OCSE, fatta eccezione per il Portogallo.
La partecipazione femminile al lavoro pagato in Italia e’ tra le piu’ basse tra i paesi sviluppati e per converso sia la quantita’ complessiva che la proporzione di lavoro domestico tra le piu’ elevate. Questo ha ovviamente implicazioni sia per la produttivita’ che per la crescita del paese, e certo non da’ aspirazioni e ambizioni professionali e di autonomia alle piu’ giovani (ad eccezione della ormai diffusissima ambizione a emigrare).
L’indagine OCSE presenta un riassunto internazionale del tempo speso in lavoro pagato e non pagato da uomini e donne, analizzando sia le quantita’ totali che la relazione che esiste tra partecipazione femminile nel lavoro retribuito e la proporzione di lavoro domestico svolta da uomini e donne.
I dati mostrano un fatto noto tra coloro che si occupano di genere, uso del tempo e mercati del lavoro: la partecipazione femminile alla forza lavoro retribuita e’ associata ad un calo del lavoro femminile non retribuito ed un aumento, anche se non direttamente proporzionale, di quello maschile. Paesi con piu’ alto livello di impiego femminile hanno una divisione piu’ equa del tempo tra uomini e donne.
Osservando l’andamento dei redditi da lavoro nelle coppie in vari paesi del mondo si riscontra inoltre l’ effetto importante del differenziale salariale: più lei guadagna quanto lui, meno fa in casa e ciò che lei non va viene fatto in parte da lui e in parte da servizi esterni alla coppia che vengono acquistati o forniti dallo stato (come illustrato dall’articolo pubblicato da James Feyrer, Bruno Sacerdote e Ariel Dora Stern del Darmouth College nel New Hampshire).
Come si spiega questo fenomeno? I lavori di economia della famiglia fanno uso del concetto di potere contrattuale nella coppia per spiegare questo risultato: man mano che le donne aumentano il loro potere economico aumentano anche il loro potere contrattuale nella divisione del lavoro non pagato che avviene in ogni famiglia e che nei sistemi tradizionali e’ appannaggio esclusivo e non retribuito delle donne.
E fin qui la spiegazione delle cause della ripartizione del lavoro non pagato: l’Italia purtroppo anziché progredire negli indicatori di sviluppo di genere negli ultimi anni e’ andata peggiorando, e la partecipazione femminile alla forza lavoro pagata non fa eccezione a questo trend.
Ma veniamo alla quantità di lavoro domestico che in Italia risulta anche complessivamente molto alta rispetto a paesi di simile livello di sviluppo economico. Perché le donne Italiane fanno così tanto più degli uomini ma anche così tanto in generale?
E qui torna in gioco la struttura del potere contrattuale che nella famiglia tradizionale veniva esercitato dalle donne controllando la sfera privata e che, forse perché spinte fuori da quella pubblica, le donne italiane hanno ripreso a esercitare riversando la propria ambizione nell’essere supermamme e supercasalinghe. Cosi’ le donne italiane lavorano si’ molte ore, ma non in compiti che accrescono la loro indipendenza economica o complessiva, e il paese va a ritroso (pulitissimo, pero’).
E qui entrano in gioco le norme sociali e la pressione che suggeriscono alle donne italiane (complici una serie di modelli culturali riproposti dai media e dalla politica retrivi eppure resistenti, si vedano le infinite pubblicità infarcite di casalinghe e mamme perfette proposte dalla televisione italiana), capaci e motivate quanto le loro corrispondenti straniere di riversare le loro ambizioni ed energie preziose in attività che non servono ad accrescere il loro potere complessivo ne’ il loro controllo sull’unica risorsa che e’ uguale per tutti: il tempo.
Le norme sociali hanno elevata persistenza: studi sull’evoluzione delle norme condotti in vari paesi suggeriscono che ci vogliono generazioni a cambiarle (Blau dimostra come negli Stati Uniti il comportamento delle donne nel mercato del lavoro e persino la loro fertilita’ siano influenzati significativamente dalla cultura dei loro genitori immigrati, a parita’ di livello di istruzione). Forse e’ qui che le donne dovrebbero concentrare sforzi maggiori dato che sono ancora, volenti o nolenti, responsabili per la cosiddetta ‘socializzazione primaria’, a maggior ragione in paesi in cui sono spesso le nonne ad occuparsi dei bambini data la scarsa diffusione di strutture pubbliche o private con personale qualificato (e magari piu’ giovane).