È possibile pensare la filosofia alla luce del parto? O meglio, fare filosofia alla luce del parto? Nel suo Partorire con il corpo e con la mente Francesca Rigotti tenta di tracciare e individuare i rapporti tra maternità e filosofia. Ricorda come la filosofia è stata (e forse ancora è) in gran parte cosa da uomini proprio perché le donne sono sì in grado di partorire, ma più che idee, le donne partoriscono figli. Naturalmente ci si dimentica come la stessa metafora del ‘partorire idee’ venga dal parto della carne, tuttavia l’azione di partorire diventa nobile, e dunque degna degli uomini, nel momento in cui il prodotto del concepimento (‘concepire un’idea’, un ‘concetto’ appunto) è il risultato di una ‘gestazione’ intellettuale. Sembrerebbe che la storia ci dica che filosofia e maternità (partorire figli, prendersi cura dei figli, perché la possibilità della paternità non è negata ai filosofi) non sono un binomio. Eppure l’autrice porta l’esempio della filosofa Elizabeth Anscombe, madre di sette figli, la quale ‘mette in pratica un agire condotto pensando ai nostri figli al fatto di sentirsi responsabili di fronte ad essi, di voler e dover dare un esempio di moralità e di rispetto dei valori, domestici come politici, in famiglia e nella società’. Non ne condivide alcune posizioni, tuttavia ne riconosce la straordinaria combattività sul piano etico. Rigotti ipotizza un parallelismo tra ‘stili di vita e stili di pensiero’, proponendo un ‘sapere materno, nel quale le caratteristiche di attenzione e amore, vincolo, legame e vicinanza possano diventare simboli di esperienza e conoscenza’.
Importantissimo è notare che Rigotti non ha alcuna intenzione di scivolare in un banale essenzialismo (ovvero ‘rispecchiare una presunta natura femminil-materna à la Edith Stein’), piuttosto sottolinea come appellarsi al pensiero materno non significhi altro che constatare come ‘le pratiche nelle quali le madri sono impegnate sollecitano determinate facoltà e danno luogo a particolari stili di vita e di pensiero che è possibile riconoscere e adottare anche in assenza dell’esperienza diretta’. Nella testa delle madri quindi, citando Ruddik, oltre alla virtù dell’amore e della cura per l’altro (questo non ci sorprende), troviamo anche ‘l’attenzione’ ossia una ‘solida impalcatura di sostegno e controllo, una capacità di pensiero di organizzare e di gestire, del fare molte cose in una volta’. È necessario sottolineare come l’esercizio del ‘pensiero materno’ non deriva necessariamente dall’aver fatto esperienza della maternità.
Ma la filosofia è affare di uomini liberi, non di donne né di schiavi, come sostiene Platone, di persone il cui lavoro e pensiero vivono il lusso della non interruzione, di fatto e in potenza. E così Socrate, Seneca, Wittgenstein e Sloterdijk ci ricordano come la filosofia sia un’attività che richiede, fondamentalmente, tempo. Ininterrotto, possibilmente. La madre ha fretta. Ha fretta perché deve provvedere ai suoi figli, ne ha di più se vuole (com’è suo diritto) trovare il tempo per pensare e lavorare. Ma in realtà, sostiene Rigotti, la filosofia richiede solo impegno e fatica. Esattamente come la condizione di essere madri. Interessante è la visione dell’autrice sul tema della creatività in relazione a quello della maternità. ‘L’uomo concepisce l’idea nel cervello, la donna concepisce il bambino nell’utero’. La creatività porta qualcosa di nuovo al mondo, è quel processo che porta l’ente dove prima c’era il niente. Storicamente la creatività intellettuale è del tutto maschile, nonostante non si sia mai preteso che l’uomo rinunciasse a una concomitante paternità, mentre è della donna la creatività procreativa. Ma non quella intellettuale. Eppure Rigotti fa notare come il processo creativo mentale venga frequentemente spiegato con metafore materne. Ecco il ‘furto della maternità’, o ‘paradosso di Arianna’ o anche ‘furto della creatività’. Non esiste atto intellettuale più creativo come quello di generare un’idea originale, non esiste atto fisico più creativo come quello di avere un figlio.
Secondo George Steiner il motivo per cui, innegabilmente, la produzione artistica letteraria femminile è una ristrettissima minoranza rispetto al totale, potrebbe essere ricondotto a un presunto pieno appagamento della donna nel mero ‘fare figli’, nell’azione di un soggetto (madre) alla produzione di un soggetto altro da sé (figlio) che ne rimane indipendente. Rigotti argomenta che anche questa posizione rischia di scivolare nell’essenzialismo, e che rimane dubbio poter affermare una presunta inferiorità (letteraria) femminile in conformità a questa supposizione.
In questo quadro che definisce la capacità di generare ‘figli di carne’ come esclusione della possibilità di generare ‘figli di carta’, Rigotti passa a un’analisi della maternità dal punto di vista delle religioni e delle mitologie. La ‘seconda nascita’ sarebbe quell’avvenimento necessario alla purificazione dalla nascita materna, dalla nascita della carne dalla carne. Tentando paradossalmente di ignorare il ruolo della donna, che a quanto pare darebbe un’impronta negativa a tutto ciò in cui è coinvolta, nel parto carnale che avviene nella sporcizia e porta in un mondo finito, è tramite il battesimo che si è purificati dalla sporcizia della nascita di cui è la madre a essere responsabile. Si arriva addirittura a escludere Maria dalla Trinità, nonostante ci si sia premurati di renderla perfetta, priva di peccato originale e vergine ‘prima, durante e dopo il parto’. Questa ‘nascita sostitutiva’, o ‘seconda nascita’, sarebbe l’equivalente di matrice maschile, e la versione ultima, ma soprattutto valida, della nascita spirituale che garantirà al nuovo nato un posto nella vita eterna. Rigotti vuole pensare una maternità non esclusiva, una maternità che non solo includa in sé la possibilità di produrre anche i ‘figli di carta’, ma che sia il punto di partenza di un particolare tipo di creatività che necessita di ‘attenzione e attesa’, le stesse necessarie a fare e allevare i figli. Ponendo sempre attenzione a non cadere nell’errore di divinizzare, mitizzare e rendere l’esperienza della maternità essenziale a questa creatività.
Ciò che può sorprendere di questo testo è l’assenza di una riflessione sulla filosofia del parto. Del parto reale, della carne. L’autrice dedica molte pagine al furto della maternità e del parto da un punto di vista metaforico e filosofico, eppure il modo in cui nella nostra società è condotto il parto merita una riflessione. Il furto è avvenuto anche nel parto con il corpo. Ci si potrebbe aspettare da questo libro anche un ragionamento sul saccheggio da parte del ginecologo del sapere ostetrico (storicamente esclusivamente femminile), e di come lo abbia utilizzato e distorto. La donna che partorisce oggi ha perso anche la sua capacità di partorire, convinta di non esserne in grado se non con un aiuto esterno (spesso maschile), espropriata di una conoscenza innata che fino a pochi decenni fa non era mai stata messa in dubbio. Riflessioni su questo aspetto del parto e della saggezza del corpo ormai quasi del tutto dimenticata, sono assenti nel testo di Rigotti.