Il Manifesto, 12 giugno 2012
La voce della filosofa, della militante, dell’intellettuale in lotta contro il conformismo imperante Lo spettro ritornante degli anni di piombo, un passato scongiurato per essere evocato e viceversa
Capita a volte che il momento più giusto, per un gesto politico, coincida con quello più scomodo. Capita, in particolare, quando il gesto politico in questione prende di mira il conformismo imperante, attaccandolo in un punto sensibile. Capita, nella fattispecie, all’ultimo saggio di Luisa Muraro, un «gransasso» Nottetempo intitolato Dio è violent, che piomba per l’appunto come un sasso nelle acque stagnanti del dibattito politico, attaccandone il conformismo nel punto sensibile, irritato e irritante, della violenza (e della nonviolenza).
Mossa imprevista, da parte di una pensatrice femminista: non ci ha abituate, l’ordine del discorso dominante – e anche l’ordine dominante del discorso femminista – a mettere gli uomini dalla parte della violenza, e le donne, che della violenza maschile sono l’oggetto prediletto, dalla parte della nonviolenza? Non è un fatto assodato che l’ordinamento democratico escluda la violenza e sia anzi teso a neutralizzarla ogni volta che compare, e che a questo comandamento democratico si sia infine piegata,«senza se e senza ma», anche tutta la sinistra erede di una tradizione novecentesca che dalla violenza non era stata esente? C’è qualcosa da scompaginare, e che cosa, in questo quadro assodato e tranquillizzante?
Qualcosa c’è, e in verità si è scompaginato da solo: l’ordine del discorso non dice più la realtà delle cose. Nella realtà delle cose, gli ordinamenti democratici vanno a braccetto con guerre illegali violentissime ma definite «giuste» e «umanitarie», con un uso sempre più cinicamente violento di alcuni poteri (per primo quello economico-finanziario), con una governamentalità biopolitica che con una violenza sempre più subdola fa presa sui corpi e sulle anime dei governati, con un’esplosione di micro e macroviolenza quotidiana insensata ed efferata contro gli altri (dal cosiddetto femminicidio alle bombe di Brindisi) e contro se stessi (i suicidi da disperazione economica). Un’esplosione che sembra peraltro inversamente proporzionale alla scomparsa della violenza «politica», e direttamente proporzionale alla foga con cui il discorso democratico non smette di evocarla per esorcizzarla e viceversa (la chiacchiera continua sul «ritorno» possibile degli anni di piombo), secondo quella pratica della hantise con cui, Derrida insegna, si tengono a bada gli spettri e si conculca il rimosso. Guardare in faccia lo spettro è allora la prima cosa da fare, se si vuole davvero interrompere il suo eterno ritorno. La seconda, è provare a ridisegnarne il profilo: riparlare del problema violenza, nome, concetto, implicazioni e risignificazioni possibili, avendo chiaro in testa che riparlarne serve precisamente non a incoraggiare ma a evitare il suo acting out in gesti e pratiche devastanti.
Muraro ha di fronte questo quadro disassestato del presente quando individua nella violenza «l’incrinatura maggiore e il crinale decisivo nei rapporti politici oggi», e lo completa con due fattori storici determinanti. Il primo, di lungo periodo, è la consumazione del contratto sociale moderno, notoriamente basato sulla cessione della violenza dei singoli al monopolio statale dell’uso della forza, e corroborato dalla promessa (mancata) del progresso e della progressiva vittoria del diritto sull’abuso e dei diritti sulle ineguaglianze. Il secondo, di (non più tanto) breve periodo, è la catena di errori e confusioni fatali che si sono consumati nel passaggio di secolo da un lato sul confine fra i sogni di violenza rivoluzionaria e la lotta armata «che ne fu la tomba», dall’altro all’incrocio fra la contestazione del potere globale, la violenza poliziesca dispiegata per tacitarla, il terrorismo internazionale intervenuto a confondere le carte e la ritorsione conseguente (la congiuntura Genova – 11 settembre 2001 – guerre in Afghanistan e Iraq). In mezzo, altri due elementi del quadro, meno eclatanti ma altrettanto decisivi. Per un verso, il depotenziamento e la banalizzazione della retorica della nonviolenza, che da pratica di traduzione della rabbia sociale in forza simbolica, alla Gandhi o alla Luther King, rischia di trasformarsi in «una predicazione che favorisce l’abdicazione ad agire, se necessario, con tutta la forza necessaria». Per l’altro verso, l’emergere, grazie al femminismo, della posizione asimmetrica delle donne nel contratto sociale moderno, che le include solo sottoponendole contemporaneamente a un contratto sessuale secondo il quale la violenza, a onta della sua cessione al monopolio statale nella sfera pubblica, resta saldamente in mano agli uomini e viene esercitata contro le donne nella sfera privata.
È in questa posizione asimmetrica che Muraro vede l’origine della «competenza simbolica» femminile a rideclinare il problema della violenza «per sollevarlo pubblicamente con la radicalità che oggi si impone»: sia perché della violenza (maschile) le donne fanno esperienza quotidiana e minuta, e dunque sanno di che si parla e di quali trucchi, spesso seduttivi, essa si ammanta; sia perché delle false promesse del contratto sociale hanno un’esperienza storica, che rende la loro vista più acuta sulla sua attuale agonia. Non si tratta tuttavia solo di «approfittare della differenza» – antica e sempre valida formula di Carla Lonzi – per ribaltare in vantaggio uno storico svantaggio femminile. Cruciale è, nell’argomentazione di Muraro, l’osservazione di un dato diffuso della psicologia e del comportamento femminile, in cui il giusto rifiuto della violenza troppo spesso comporta la rinuncia all’uso e perfino alla consapevolezza della propria forza. Un dato che se da una parte dimostra quale depotenziamento di energia comporti il sentirsi perennemente esposte alla violenza altrui, dall’altra segnala come il confine fra forza e violenza sia spesso incerto e labile, al di là dei tentativi di definizione concettuale dell’uno e dell’altro termine. Su questo incerto confine lavora e si posiziona la proposta di Muraro, che consiste per l’essenziale nell’invito a non rinunciare alla propria forza di fronte all’uso violento del potere, e anzi a usarla tutta intera efficacemente, senza arretrare di fronte al fatto che lo sconfinamento fra forza e violenza – sovente inconscia, come insegna la psicoanalisi – è talvolta possibile, e sapendo che va dosato: «quanto basta per combattere senza odiare, quanto serve per disfare senza distruggere».
Questa formula conclusiva (di matrice culinaria: q.b., come il sale nelle ricette) dovrebbe bastare a immunizzare il libro dal rischio di interpretazioni rovesciate rispetto alle sue intenzioni: dal rischio di leggerci l’autorizzazione a un acting out di violenza femminile, o un’operazione di revisionismo (anti)femminista, o peggio ancora una mossa di sfida simmetrica alla matrice fallica della violenza. Non di questo si tratta bensì del tentativo, opposto, di tradurre la violenza latente e impotente generata dal potere in forza simbolica – e dunque in primo luogo in consapevolezza e parola – diretta efficacemente contro il potere.
Tanto denso quanto, in alcuni punti, ellittico, il ragionamento di Muraro apre un ventaglio di questioni – ne cito solo alcune: il vissuto femminile della forza e della violenza; la necessità di decostruire le posizioni fisse della vittima e del carnefice cui è inchiodata la rappresentazione canonica del femminile e del maschile; la posizione di lotta da «decidere» rispetto al rischio oggi sempre più reale di diventare, tutte e tutti, ostaggi della legge del più forte; la postura politica da assumere di fronte al dissolvimento del patto sociale moderno, con tutte le sue conseguenze sulla liquefazione della politica contemporanea; il ripensamento del rapporto fra forza e violenza nella tradizione rivoluzionaria – che sono già oggetto di confronto nel dibattito aperto sul libro dalla rivista Via Dogana, e che il dibattito teorico-politico sulle sorti della democrazia reale contemporanea farebbe bene a registrare e rilanciare. Come sempre nella scrittura di Muraro si intrecciano più voci: quella della teologa, come suggeriscono il titolo e l’evocazione del divino «per scavalcare certe divisioni fissate dal razionalismo borghese» (lascio alla lettura la scoperta del perché di quel violent senza desinenza di genere); la voce della filosofa della politica, attenta tanto alla parabola storica del patto sociale moderno quanto alle colpevoli omissioni del pensiero politico odierno, come quella sulla distinzione fra legalità e giustizia; la voce della militante pressata dall’urgenza di trovare forme e pratiche di contrasto della configurazione attuale del potere; la voce dell’intellettuale in lotta contro il conformismo del discorso dominante, di qualunque colore politico esso sia.
Fa parte di questa lotta da sempre, per Muraro, il lavoro di decostruzione e risignificazione del significato «ovvio», e come tale sospetto, che le categorie politiche tendono ad assumere quando la politica non vigila sul loro significato. Si tratta sempre di un lavoro a rischio: fu così, per citare un precedente, già anni fa con la categoria di autorità, piegata dal pensiero della differenza nel senso dell’autorevolezza simbolica nello stesso momento in cui il senso comune politico la piegava nel senso dell’autoritarismo. Senza questo lavoro e senza questo rischio, niente può bucare la bolla del discorso conforme e conformato che minaccia, scrive Muraro e ha ragione, la nostra intelligenza delle cose.