Federica Giardini e Annarosa Buttarelli
incontro organizzato dall’associazione “Femminile Plurale” di Vicenza
8 febbraio 2013
Libreria Galla caffè
appunti e parziale trascrizione a cura di Alessandra De Perini
FEDERICA GIARDINI
RAPPORTO TRA GENERAZIONI
Donne di generazioni diverse, nel senso di quanta memoria si ha nel vivere lo stesso presente, messe a fuoco diverse. Ragiono in termini di pratiche della forza, dell’efficacia, del potenziamento di chi sta in relazione. Vari modi per intendere l’esercizio della forza.
Una giovane donna del mio gruppo, quella che nel gruppo svolge il ruolo della “peste”, che rompe gli assetti pacificati, dice che la parola “femminile” non la fa sentire a suo agio, non è nemmeno certa che le piaccia. Che si fa di fronte ad una asserzione del genere? Una giovane donna che dice ad una femminista il suo disagio. Meglio prendere per buona questa obiezione, come un campo aperto da esplorare, considerarla il rifiuto dell’assunzione immediata di stare dalla parte del femminile. Quella obiezione radicale assomiglia alla spinta che ispirò all’inizio il femminismo che appunto respingeva i significati attribuiti dal potere costituito, la divisione dei ruoli. In realtà quel rifiuto è un desiderio di avventura sui significati da guadagnare per sé. Io non sono intervenuta in senso ortopedico su quella obiezione. Non mi sono messa in atteggiamento correttivo, mi era stato chiaro che la forza della rottura femminista c’era, non si trattava di negazione, smentita parziale, non c’era fallimento
Assumere una situazione che si presenta come forma di indebolimento (“non mi dire che sono una donna”) e rendersi conto che, in virtù di una fiducia nella propria forza, si riesce a riconoscere il potenziale di una situazione che disorienta.
Forza e debolezza si intrecciano costantemente. Per accettare debolezza e disorientamento è necessario nutrire una fiducia di fondo. Non è necessario ribadire in ogni momento che il femminismo ha ragione, che ha detto le parole giuste, che non si sta tradendo, non si sta perdendo, vanificando il suo messaggio. Questa è una pratica di relazione con donne più giovani: riconoscere che il loro è un percorso di rifiuto dei significati attribuiti, già dati. Con le giovani donne che fanno riferimento al pensiero Queer è più difficile. Lì vedo il rifiuto di farsi colonizzare dalle identità prestabilite, funzionali all’ordine sociale.
DELUSIONE FECONDA
La lettura del manuale L’arte della guerra per donne di Ching Ning Chu, testo utilissimo e anticipatore del “fattore D” (le donne e l’economia, la civiltà va avanti con il successo delle donne) è stata una delusione: un testo per donne in carriera che non si interroga su che cosa si intende per “successo”. Di qui la necessità di ristabilire le condizioni entro cui pensare che cosa si considera per sé un avanzamento, uno sviluppo, un guadagno, non lasciarlo dire dalle retoriche circolanti. Questa è una questione che oggi ci riguarda tutte. Abbiamo narrazioni potentissime che dicono quanto sia positiva la partecipazione delle donne. Un altro punto di forza è riprendersi in mano le condizioni con cui giudicare che cosa è potenziante e che cosa non lo è. Forse si tratta di un altro modo per dire “sovranità”. Le condizioni sono già stabilite: il debito, la crescita, riparare il tessuto sociale lacerato e il contesto politico corrotto e lì dentro si dice qual è il valore delle donne. Mettersi in una posizione “biografica”, nel senso di attingere all’esperienza diretta per stabilire i criteri di vero e falso, di potenziamento e depotenziamento, ciascuna per sé.
CONNESSIONE CON IL LIBRO DI MURARO (Dio è violent)
I saperi orientali della forza non la riducono a forza muscolare.
Ciascun contesto deve trovare per sé la giusta misura di questa forza. Interessantissimo e ulteriore elemento che compone una pratica della forza da parte delle donne è l’elemento della singolarità: la forza si può sviluppare sempre soltanto se attinge alle risorse specifiche, irripetibili di ciascuna. Nessuna può fare lezione all’altra sulla forza, perché la forza è ciò che ciascuna sviluppa, in una conoscenza – osservazione del gioco che ha una mappatura singolare, determinata dalle biografie.
Nella politica c’è sempre in agguato il pericolo del costituirsi di una egemonia, una parte pensante che porge contenuti che poi diventano materia di ripetizione, di ripresa e invece – lo dico vedendolo funzionare nei luoghi di movimento – c’è tanta più forza quanto più viene guadagnata singolarmente nei percorsi di ciascuno/a. Questa forza rideclinata nelle biografie singolari è una “fonte” che produce in continuazione, si alimenta delle circostanze, delle sensibilità, delle competenze. Guadagnarsi singolarmente il proprio percorso, la propria elaborazione di questo gioco di debolezza e forza ha un effetto moltiplicatore. Contro i ripiegamenti soggettivistici intimistici, elogio della singolarità. Sì, ma dentro situazioni di esperienze intense, nei luoghi dove accade qualcosa, nel fare insieme. Questi luoghi sono spesso ad alto tasso di litigiosità, per quanto ci sia una rete: ci sono i malumori, le opzioni, le azioni diverse, per cui si va allo scontro. Un’altra scoperta che ho fatto è che conviene tenere lo scontro, il diverbio violento in superficie: si dice tutto lì subito, in modo che non ci sia ristagno (l’umorismo aiuta molto, dire cose terribili ridendo e facendo ridere), perché il ristagno è ciò che poi costruisce degli affondamenti tra parti. Io sono nuova alla politica dei movimenti misti, mi sono formata nella politica delle donne e certe volte vedo degli odi che nascono dal nulla o da cose umorali. Al teatro Valle di Roma hanno questo rapporto più ravvicinato con l’arte, la capacità di mettere tutto fuori, di esplicitare lo scontro, il motivo dello scontento per impedire che covi. Il che significa anche la grazia di accettare che la propria linea non passa, quel segmento della propria linea, e questo non è una ferita.
Altro punto molto istruttivo, a proposito di accettare la propria debolezza, la materia su cui si sviluppa un sapere della forza: finché si sta in difensiva, tutto il gioco è falsato, non si sviluppa energia. Ci vuole un po’ di forza, di fiducia in sé per vedere i propri difetti e non morirne. C’è un tratto che vedo ricorrente in me e in altre donne che è di segno opposto, una sorta di “sequestro” sotto l’idea della perfezione (forse da collegare al rapporto con la madre). Però questo sequestro, per cui o ciò che si fa è perfetto o è la fine del mondo, fa sì che in realtà ci sia una paralisi dell’azione, ma anche dell’avventura, della scoperta. Questa fantasia di perfezione non diventa aspirazione al “di più”. Rosa Luxemburg voleva la rivoluzione, ma proprio perché la voleva stava esattamente a ciò che c’era di disponibile sul momento. Il suo era un desiderio di radicalità che potenziava l’uso di ciò che c’era effettivamente a disposizione. A volte c’è questa fantasia di perfezione e di radicalità che tende a paralizzare l’uso potente delle circostanze. C’è questo bisogno del controllo, da cui possiamo tirare fuori un elemento di conoscenza in più. Noi siamo tirate indietro da questo bisogno di controllo, che non ci consente di sbagliare, di lasciarci andare alle circostanze. La nostra libertà, invece, è legata alle circostanze, è più di un semplice effetto di volontà individuale.
A noi viene trasmessa l’idea della forza morale e agli uomini la forza bruta. Se dici “non voglio solo la forza morale”, immediatamente emerge l’idea che essere forti ha a che vedere con la disciplina, intesa come intelligenza esercizio intelligente della propria forza. Sono impegnata a costruire una “grammatica” di pratiche, di nominazione della forza femminile. Il criterio dell’esercizio intelligente della forza è che, se io non riesco a tirare fuori lì per lì con brio o con vitalità la protesta, significa che non è nemmeno chiaro che l’altra mi ha fatto un torto. In genere sto zitta, mi assumo la mia parte di confusione, di opacità. Però le volte in cui si guadagna con l’esperienza non è solo una questione di durata temporale ma di moltiplicazione delle esperienze, di familiarità con le situazioni che si ripetono e io comincio di tanto in tanto a riuscire a reagire in modo immediato, perché so riconoscere dove c’è qualcosa che non mi sta bene. Non sono confusa con quello che mi offende e allora lì non solo la protesta viene chiara, disciplinata, con una sua intelligenza, ma a volte anche con la capacità di dirlo in modo umoristico.
Per le donne c’è il rischio dell’illimitato, ma in un altro modo rispetto agli uomini. Secondo me per una donna il rischio dell’illimitato è potentissimo come fantasma. In realtà, di donne che frequentano l’illimitato, ma quante ne conosciamo, a cominciare da noi stesse? Perché temiamo di essere prepotenti con una donna che ci è cara, vicina e non pensiamo invece di esercitare la forza con altri, il capo per esempio, il docente? Lì, di fatto, non abbiamo il problema dell’illimitato, ma se mai di tirare fuori perfino la voce! La forza femminile, corpo e mente insieme, ha un “tappo” anche per via che l’idea che ne abbiamo passa attraverso fantasie o fantasmi. Vorrei togliere l’autorità femminile da certe derive. Invece che pensare a relazioni di autorità, penso a relazioni di potenziamento, di aumento della forza.
Costruire una narrazione collettiva sull’azione politica che implica l’uso della forza. Ho scoperto che c’è una cultura, una intelligenza finissima in chi compie, per esempio, un’effrazione per occupare uno spazio. L’atto di forza non è sregolato, ha le sue “regole” e “misure”.
ANNAROSA BUTTARELLI
Il “colpo di rabbia” è un punto di discussione tra me e Luisa Muraro. Il colpo di rabbia ha delle ascendenze notevoli nella storia dell’esercizio della forza, ha un posto reso esemplare da varie parabole, compresa quella famosa evangelica del colpo di rabbia di Cristo davanti ai mercanti nel tempio. Questa forma di espressione della forza presenta una serie di problemi, sicuramente una relativa praticabilità per il motivo che va nell’illimitato molto facilmente. Il colpo di rabbia porterebbe in quell’area dell’illimitato che a noi donne interessa tenere d’occhio, perché è la tentazione e il pericolo che la stessa Simone Weil, ma anche Zambrano, pone di fronte a qualsiasi azione umana. Tutte le pensatrici della forza ce l’hanno davanti questa questione dell’illimitato. Dall’altro lato, il colpo di rabbia è necessario nel momento in cui si tratta di interrompere qualcosa. Ci sono situazioni, forme di mancata relazione o di aggressione che, se si può, vanno interrotte subito con il colpo di rabbia. Il colpo di rabbia ha questo valore, una forma di stop, per cui io sono del parere che vada salvato, con però la consapevolezza che non se ne può fare una pratica e questo lo rende problematico dal punto di vista politico, per quella scienza della forza che non è ancora fatta nella storia delle varie culture e nemmeno noi donne l’abbiamo ancora fatta questa scienza della forza. Simone Weil ha dato un contributo che è preziosissimo, ma va ancora molto studiato, perché è molto complesso, richiama una sapienza della materia di cui siamo fatti. La materia, intesa nel senso della nostra carnalità immersa in un cosmo altrettanto carnale, ha un modo di funzionare che noi rispecchiamo inconsapevolmente. C’è molta inconsapevolezza in tante cose che facciamo in relazione al fatto che non esiste ancora ripensata oggi da noi donne una scienza della forza. Questo tema, forza – violenza – pratiche della forza, è stato portato avanti da Federica Giardini e dal gruppo con cui lei ha lavorato per Sensibili guerriere e da me e Luisa Muraro che, prima che Luisa scrivesse il suo ultimo libro, convinte dell’urgenza di questo tema, abbiamo provato a porlo alla discussione delle compagne di Diotima nei nostri incontri mensili, ma questa cosa non è passata, incredibilmente non ci siamo riuscite. Prima della pubblicazione di Dio è violent, abbiamo discusso io e Federica sulla questione della forza e questo mi ha portato a pensare che tutti e due i poli, sia quello delle giovani donne, più ancora dei giovani uomini, sia quello di generazioni come la mia, e prima ancora di generazioni come quelle di Luisa evidentemente hanno questa urgenza e inquietudine, quanto più si mescolano o tentano di mescolarsi con le sofferenze del mondo contemporaneo, di non sapere quali sono le pratiche della forza nel momento in cui non è più possibile evitare di usarla per poter continuare la politica a cui abbiamo dedicato e stiamo dedicando la vita intera. Allora la questione è certamente quella dell’efficacia e soprattutto quella delle forme dell’agire.
Alle fondatrici del femminismo italiano della differenza comincia a sfuggire di mano la questione del come si agisce oggi in un contesto in cui evidentemente occorrono delle pratiche che generano un nuovo tipo di forza, perché la forza dell’autorità delle parole, della genealogia femminile va di nuovo ripensata, come se nella forma del nostro dire ci fosse qualche cosa che va effettivamente o riguadagnato o reinventato.
Se pensate a ciò che capita giorno per giorno intorno a noi e nei contesti in cui viviamo e vi chiedete quali siano le forme efficaci dell’agire, che cosa significhi efficacia e che cosa significhi agire, cambiare le forme dell’agire in contesto, state ponendo una questione molto importante. D’accordo il “quanto basta”, ma perché si arrivi a quel Q. B. (nome casalingo dell’efficacia dell’agire) occorre saper valutare l’efficacia, trovare in ogni contesto ciò che lo trasforma, la forza che è in grado di trasformarlo. Allora una delle cose che sembra sfuggire un po’ dalla capacità di lettura generale è quello che io penso come la capacità di individuare chi fa del male, chi porta del male nei vari contesti. La lezione della scrittrice Flannery O’ Connor che, come Simone Weil, aveva una sapienza della forza e del come si agisce per contrastare la violenza sanguinaria e per ritrovare le radici di una forza anche violenta, ma che comunque ha con sé un’efficacia trasformatrice e non distruttrice. Una delle prime lezioni che si prendono da questa autrice è che bisogna sempre individuare il “chi”, bisogna ritrovare il chi porta malessere, distruzione, negatività a vari livelli, chi toglie vita alle varie situazioni e in qualche modo lì verso quella o quello dirigere la valutazione dell’efficacia dell’azione, compreso il colpo di rabbia. Questa mi sembra una forma di consapevolezza e di capacità di lettura che non è a portata di mano. Trovare chi agisce in modo distruttivo nei contesti della vita delle relazioni è diventato molto difficile perché il buonismo imperante all’interno della sinistra o dell’umanitarismo ha spazzato via la capacità di fare questa lettura. Comunque è già una indicazione che si può tenere presente per ragionare su come agire efficacemente. Qui stiamo parlando del “come” e io ho pensato che, per arrivare al come, bisogna fare questo primo passaggio, senza contare che per agire efficacemente occorre una sapienza che è tutta da recuperare, si tratta di una trasformazione della propria forma mentis che ha suscitato la ricerca sia di queste giovani sia di altre che si sono impegnate a discutere intorno a questo argomento, su sollecitazione dei due testi di cui stiamo qui parlando (Sensibili guerriere e Dio è violent), la forma mentis che serve per poter valutare la forma e l’efficacia dell’azione, oltre che lo studio, la riflessione sulle esperienze che si sono dimostrate efficaci. Ecco per prelevare insegnamenti dalle esperienze ci vuole un cambiamento di forma mentis. Questo è anche l’insegnamento delle pratiche della mistica. I “combattenti” di un tempo erano i mistici. Sono loro che possono insegnare queste cose o figure al limite come Rosa Luxemburg che sfiora una forma di tipica del pensiero femminile in cui troviamo traccia di una forma mentis che sfiora la conformazione mistica, il porsi in un punto in cui si è in grado di leggere le forze in campo. Quando si dice “le forze in campo”, non si può fare solo una lettura di chi detiene il potere o chi non lo detiene, ma è necessario cogliere le dinamiche delle relazioni, ci vuole una disposizione di lettura per la quale occorre entrare in una forma di disciplina. La questione ci coinvolge tutte e tutti e riguarda lo studio delle forme di autorità femminile, gira intorno al problema e al mistero e alle forme dell’autorità femminile, perché quelle sono state efficaci nella storia ed è qui il punto non raggirabile, la forza e le pratiche che stiamo cercando passano di lì: un ripensamento dell’autorità femminile, compresa la violenza che comporta esercitarla.
Avere delle pratiche significa tenere insieme quello che si dice e quello che si fa, mostrare che c’è una continuità tra pensiero e comportamento politico pubblico. Questo interessa alle donne consapevoli della differenza: che quello che io dico si veda in quello che io faccio. Questo alle donne sembra possibile più che agli uomini: tenere insieme i vari livelli, non separare l’esperienza dal pensiero. Noi donne abbiamo il problema di esercitare la forza, proprio quando bisogna intervenire “con tutta la forza necessaria” perché c’è un problema di disordine simbolico. La forza che a volte manca alle donne è quella che serve per confliggere, per interrompere.
L’unica cosa che Luisa Muraro propone nel suo libro, di fatto, è il colpo di rabbia. Il colpo di rabbia, però, non crea e nemmeno stabilisce ordine simbolico.
Perché non usiamo la forza? È davvero un mistero. Siamo molto indignate, ma non basta, perché non diamo delle sberle, quando è il momento? Ci ritroveremo intorno a questo nodo del ripensamento dell’autorità delle donne oggi. La questione è l’autorità perché le donne non sanno come cominciare a fare questo.