Nel secondo incontro su Il Secondo Sesso dedicato oggi alla parte relativa ai Saperi, affrontata con notevoli ed interessantissimi spunti di riflessione dalle relazioni di Federica Castelli e Ilaria Coccia, mi son allacciata alle suggestioni offerte dalle osservazioni di Federica Giardini nel valutare l’attualità e l’importanza del Mito, che, lontano dall’essere considerato come qualcosa di non operativo, delinea in realtà quell’immaginario che è alla base della produzione di quei profili collettivi, maschili e femminili, su cui noi tutti e tutte ci orientiamo.
Mi è venuto in mente a tal proposito, trovando risonanza negli insegnamenti di filosofia interculturale contemporanea seguiti presso la Facoltà di Filosofia di Siena, che Raimon Panikkar spiega come i miti siano i mattoni di cui son fatti i simboli e come ognuno e ognuna di noi sia immersa all’interno di un mito culturale che dona senso e fondatezza a tutte le convinzioni che si possiedono.
Secondo Panikkar il rapporto tra Mythos e Logos è un rapporto che fa sì che ad ogni de-mitizzazione segua un processo di ri-mitizzazione, cioè un’apertura che, dopo un primo lavoro di decostruzione, che opera in negativo, facendo nascere la consapevolezza della relatività della propria posizione, possa esser dotata, in modo positivo, di un nuovo senso, lontano però da posizioni risolutive di trionfante unilateralità e lontano da ipostatizzazioni assolutistiche.
Partendo da questa considerazione, durante l’esposizione di Ilaria Coccia, relativa alla produzione delle figure mitiche femminili all’interno del mondo greco, mi è parso che si sia operato, in modo sorprendentemente esaustivo, un movimento di decostruzione dello sguardo dominante maschile imperante nella costruzione delle figure femminili.
A tal proposito son da notare le considerazioni di Valeria Mercandino sull’importanza dei tentativi di riappropriazione positiva delle figure femminili operata da parte di Adriana Cavarero in Nonostante Platone: proprio dopo l’intervento di Valeria che verteva sulla riappropriazione positiva dei miti dal parte del pensiero femminista, e su una sua possibile problematizzazione, mi è venuto in mente il densissimo saggio di Michela Pereira contenuto nel libro “Il femminile tra potenza e potere” e intitolato “La potenza dell’Oggetto. Dicotomia nel Logos e Dualità Trasformatrice nel Pensiero Occidentale.”
Invitando alla lettura integrale del libro e del saggio che, per motivi di spazio, vastità e profondità filosofica, non può essere interamente riportato in questa sede, offro, come spunti di riflessione, le trascrizioni di alcuni illuminanti passaggi (quelli che mi son venuti in mente durante l’incontro) e che ripropongo qua ai fini di una riflessione che possa risuonare anche delle domande che Simone de Beauvoir, con la quale siamo in dialogo in questo seminario, ci ha proposto oggi.
Scrive Michela Pereira, spiegando il movente della sua ricerca, a pag. 13 del libro sopra menzionato:
“Non essendo sparito dalla scena del mondo il potere, sparisce il soggetto – e come potranno le donne, su che base teoretica (se di questa c’è bisogno: certo ce n’è desiderio) fondare la propria consapevole capacità di trasformazione del mondo? Il tentativo di pensare il rapporto con la realtà senza cadere nella fissità della struttura dicotomica di soggetto e oggetto e dell’idea di potere ad essa correlata, ma anche (soprattutto) senza rimuovere né ridurre a mera conflittualità il carattere duale dell’esperienza umana sessuata è ciò che mi ha spinto a questa ricerca.”
E continua a pag. 17:
“Il potere di riproduzione messo in luce nelle indagini di storia delle donne, considerato perlopiù il fondamento di ogni altro potere femminile divenne abbastanza presto, nell’immaginario delle donne, potenza: non saprei dire se questo sia avvenuto attraverso mediazioni che mi sfuggono o senza mediazioni coscienti, per un gioco di assonanza linguistica che segna uno slittamento di significato finora a mio avviso non tematizzato e pertanto carico di una indeterminatezza non priva di ambiguità, come si avverte quando compare in alcune elaborazioni filosofiche alte. Sia Luisa Muraro nell’Ordine simbolico della madre sia Adriana Cavarero in Nonostante Platone assumono infatti questo termine senza discuterne le connotazioni, che nell’insieme risultano essere le seguenti: attributo originario della madre, la potenza legata alla capacità di generare e di sospendere la generazione è «una forza potenzialmente più potente di quella dei suoi oppressori» che si esprime nella relazione fra donne, ma che in qualche modo è stata accessibile ai grandi filosofi (?) come capacità di ascolto della «positività originaria dell’essere» eppure è stata dipinta da loro, e ancora immaginata da molte come «potenza informe». Ora, questo porta ad una inevitabile confusione fra il piano psicologico dell’esperienza individuale e relazionale e quello simbolico del femminile, tanto da portare le due autrici ad affermazioni discutibili, per quanto suggestive, come quella secondo cui la potenza materna si esprime nella relazione madre-figlia (e perché non in quella madre-figlio?) e addirittura che «la physis, lungi dal comandare una generazione cui la madre sarebbe strumento, mostra di essere un tutt’uno con la madre e radicarsi nella scelta di questa», attribuendo ad un soggetto femminile individuale e cosciente il carattere del principio della generazione, il cui volto negativo è «la possibilità del nulla», viene ad essere inscritta nella soggettività femminile individuale cui conferisce l’onnipotenza di qualcosa che è senza limiti, rendendo di fatto invisibile il confine o il passaggio fra la potenza cosmica del generare e le donne; ma è ad esse, non ad un principio cosmico, che rinvia «l’ordine femminile degli sguardi», e solo ad esse pertiene la costruzione di «un ordine simbolico» che sia capacità di tradurre la potenza cosmica dell’archetipo materno in principio regolatore della realtà limitata degli esseri umani. Il paradosso del soggetto che si pensa come oggetto ha prodotto effetti di notevole suggestione, ma fermarsi ad esso significa impedirsi di raggiungere una distinzione che è fondamentale -anche, forse, soprattutto per le possibili ricadute nell’ambito di una politica liberatrice- fra la limitatezza di sé come esseri individuali e il riconoscimento del principio femminile-materno che dev’essere integrato nella coscienza delle donne e degli uomini, dando continuità al processo iniziato col suo irrompere spontaneo nella coscienza collettiva attraverso la passione di molte di noi. Questo per tacere delle conseguenze aberranti legate all’identificazione di «madri» che cristallizza donne reali sullo sfondo dell’ archetipo magnifico e terribile della Madre.”
Michela Pereira si chiede se
“sia possibile mantenere una relazione non inconscia col principio materno, che non lo respinga nella negatività ma che non ne disconosca l’ambivalenza […] una “coscienza femminile” in grado di mantenere il legame con l’origine e di articolarlo senza ricadere in una identificazione inflattiva: la relazione non ruolizzata fra donne e l’attenzione alle tematiche di un passato che non si identifichi con la tradizione dominante del pensiero maschile patriarcale.”
E continua, donando una prospettiva diversa (che mi è tornata in mente durante l’incontro) al mito di Demetra e Persefone:
“Da anni mi accade di chiedermi e chiedere – senza aver ancora trovato una risposta convincente- perché, invece che pensarci come madri e figlie, rischiando di immedesimarci nella mitica Demetra ( che non udì il grido di Kore, mentre essa veniva rapita) non ci pensiamo per quello che siamo, figlie tutte e tutte diverse, cercando di non riprodurre la necessità patriarcale di pensare ogni diversità in termini gerarchici? “
Le domande di Michela Pereira mi sembra che aprano una prospettiva di trasformazione al di là dell’opposizione dicotomica tra soggetto e oggetto, quella dicotomica opposizione che magistralmente è stata rintracciata, registrata e tematizzata da Simone de Beauvoir.
L’immanenza della donna, la sua identificazione con la natura, il dominio maschile ad esse connesso, di cui ci ha parlato ampiamente oggi Federica Castelli, spiega Michela Pereira
“non compare nei testi medievali d’alchimia: l’alchimista infatti trova una terza via fra l’identificarsi con la natura, principio femminile della generazione, e il dominarla riducendola «nella fissità dell’oggetto»: istituisce con essa un rapporto di reciproca trasformazione che mira a cambiare il mondo.”