Secondo incontro – I miti – Intervento aggiuntivo sul funzionamento del mito – di Ilaria Coccia

La parola e la memoria. Sono questi gli unici strumenti a disposizione dei poeti.
Elaborazioni orali della cultura materiale, dei miti, della lingua e dell’epos sono riconducibili in sostanza all’epoca micenea, che sebbene non si possa definire pienamente orale è di sicuro una cultura ad oralità prevalente, ma anche ai secoli bui o  “medioevo ellenico” dominati da analfabetismo, impoverimento culturale, semplificazione delle forme di vita e di produzione, invasioni selvagge dal nord e dal mare, conseguenti migrazioni e infine dal tracollo della florida civiltà micenea, intorno al XII secolo a.C.
L’esecuzione poetica voleva essere insegnamento del sapere tradizionale e il poeta orale, tramite rapporti di discepolato, apprendeva il modello poetico nella cornice generale, per poi essere in grado di tramandare il prezioso patrimonio culturale, connesso alle tecniche compositive, fino a padroneggiare perfettamente il racconto e da ampliarne la narrazione. Il canovaccio dell’intreccio, elaborato e trasmesso nel corso delle generazioni, era noto a tutto l’uditorio e grazie all’utilizzo del formulario fisso il cantore poteva riassumere alcuni elementi secondari oppure introdurre elementi nuovi a seconda delle aspettative o reazioni del suo pubblico. Un racconto d’occasione, efficacia che si rimetteva a conferma  di volta in volta e quindi mutevole, mai statica.
La mutevolezza della composizione poetica è bene evidente quando, ad esempio  nei poemi omerici, si incontrano passaggi incongruenti, che tradiscono l’origine orale dell’elaborato e della trasmissione, sempre in equilibrio tra patrimonio tradizionale e innovazioni individuali. Da un lato il repertorio consolidato era sempre  teso verso il processo creativo del nuovo cantore, dall’altro i moduli poetici vivevano in una costante tensione conflittuale tra conservazione e intuizione innovativa. Il racconto del cantore quindi rappresenta la forma di insegnamento e di diffusione di quelle conoscenze sedimentate nel corso delle generazioni, tutto quello che aveva rilevanza sociale trova spazio nel mito. Mito che diventa espressione di un bagaglio culturale accettato, condiviso e trasmesso all’interno della società che lo elabora. L’etica dell’eroe nella società aristocratica greca era palesemente espressa sia dall’eroe stesso, penso ad Achille e al suo discorso di fronte ai compagni, spinto da testardo desiderio di gloria che lo condurrà in guerra affinché il suo nome non venga dimenticato, pur consapevole che avrebbe trovato la morte, sia personificata dai protagonisti stessi, penso a Penelope, ideale di moglie che deve essere fedele.
Con “mito” si intende una forma di racconto chiuso, unico nella sua sostanza e forma, che non dialoga né con le riflessioni filosofiche o con ragionamenti scientifici né con la storia, non ha alcun contatto con il genere del fantastico e dell’invenzione. Per i greci non si pone la domanda “esistono gli eroi, le divinità?” : “mito” non equivale a racconto allegorico.  Le forme diverse, i contesti specifici in cui si presenta il mito, lo rendono sicuramente realtà polimorfa, una realtà varia con diverse funzioni e particolari aspetti, tutti però riconducibili ad una matrice comune che ritroviamo in tutta l’area del Mediterraneo. L’area geografica del Mediterraneo è certamente organismo unitario, dove è ben evidente la condivisa matrice culturale e l’espansione autonoma di singole civiltà non deve trarre in inganno dato che tutte queste appaiono legate da istituzioni sociali comuni (la sacralità dell’ospite), forme letterarie simili e non da ultimo racconti mitici somiglianti. L’epos infatti, è uno perché riflette una visione unitaria della realtà e non separa la sfera del divino da quella dell’umano,  ne è felice testimone la compresenza in varie civiltà del mediterraneo di strette analogie tra i miti. Ho già accennato al mito inteso come memoria collettiva, in cui tutta la comunità dominante o una parte di essa, si riconosce e tramite cui reitera, convalidando il patrimonio tradizionale, le conoscenze accumulate, ma rappresenta anche esempio paradigmatico e al contempo giustificazione di comportamenti sociali.
Il mito assolve anche alla funzione di raccontare un rituale, molte narrazioni infatti sono descrizioni inalterate di realtà religiose, come i riti legati al raccolto, alla fertilità e ai riti di passaggio; è un linguaggio che descrive e interpreta la realtà e i fenomeni di importanza collettiva. Ogni mito è manifestazione unica che fonde contenuti diversi, ecco perché c’è un continuo rapporto allusivo con altre storie mitiche, accomunate da un percorso ideale che si riallacciano alle origini del mondo e sfumando nei contorni reali diventano miti. Un doppio filo quindi: la storia che attraverso il canto si fa mito e il mito che dà alla storia nuova linfa vitale.
Col trascorrere delle generazioni il passato eroico narrato dai miti aveva perso contatto con il presente fino ad essere percepito come un’epoca mitica, indefinita. L’età eroica era dunque storia concreta, ma finita, collocata in un passato ormai chiuso, grosso modo coincidente con la caduta di Troia. È da questo momento in poi che la fase creativa del racconto mitico si chiude per lasciar posto a una diversa apertura: lo spazio storico.
Nel mondo del mito, evocato sempre come passato irripetibile, rimane sempre un’eco degli intrecci che caratterizzeranno la tragedia attica del V sec. a. C., il mito ne costituirà la base e ne sarà lo sfondo irrinunciabile. Verrà certamente rivisitato, ripensato alla luce di nuovi ragionamenti e valori da parte dei tre tragediografi, Eschilo, Sofocle ed Euripide che portano in scena riflessioni nuove, problematizzano i personaggi noti dei poemi epici e mostrano le variazioni politiche della polis, il cambiamento delle concezioni religiose tradizionali e le agitazioni etico-morali della polis del V sec, che sconfigge il pericolo dell’impero persiano e si trova a rifondare e ad estendere la sua egemonia culturale e politica in tutta la Grecia.
In un periodo di forte crescita collettiva si avverte la necessità di rivedere il proprio passato, specialmente il passato mitico carico di significati e simboli, per trarne insegnamento e orientare il presente, con uno sguardo lungimirante al futuro e allora appare chiaro come la reinterpretazione del mito da parte del poeta sia tutta indirizzata verso una valutazione critica dell’agire eroico.
Così, se nell’epos antico, l’etica del coraggio e della virtù era centrale nella presentazione del personaggio e più in generale ci trovavamo di fronte a quella che comunemente viene definita la “società della vergogna”, nei secoli successivi si ha una modificazione netta della percezione pubblica del personaggio, che tende a diventare sempre meno schematico, non mira ad accrescere la sua potenza individuale né elevarsi al di sopra di tutti. Il mito nella tragedia mostra una cesura tra l’interesse del singolo e l’interesse della collettività e nello spazio privato rende chiara la distinzione tra beni materiali con cui si dava la misura della grandezza di un personaggio e le virtù morali da seguire per raggiungere la vera saggezza.
Anche nel rapporto con la tradizione e la religione non ci si sottrae al cambiamento di prospettiva, tant’è che se nell’Iliade vediamo il paradigma dell’eroe irriducibile, che accetta il destino imposto dagli dei e convinto che tutto il mondo sia dominato dalla volontà divina, addirittura Zeus non può nulla contro il fato, d’altro canto assistiamo, nel V sec., ad un ribaltamento di queste concezioni arcaiche, anche grazie all’influenza del ragionamento filosofico dei sofisti, poiché si pone l’accento sulla responsabilità individuale dell’agire umano, si afferma un’autonomia dotata di grande forza di volontà e quindi non si poteva non ricalibrare il profilo stesso dell’eroe.
Come ho detto prima, il mito serve a consolidare valori etici, stili di vita e di pensiero, in una società in cui la collettività tutta si riconosce nei valori espressi nel racconto, perpetuandoli; è dunque ragionevole pensare che con la trasformazione della società greca si siano modificate anche le sensibilità collettive e singole che hanno portato a delineare nuovi profili eroici e forse sarebbe più corretto abbandonare l’espressione “eroe” quando si parla della cultura attica del V sec., o comunque bisognerebbe tener presente la risematizzazione del termine, perché la nuova concezione di vita non è più somigliante a quella del passato eroico e irripetibile, che si riscontra nell’epos arcaico e che ha fatto la storia. La nuova epoca, modificando profondamente il significato che le imprese e gli episodi del mito avevano avuto nella concezione tradizionale, non abbandona il glorioso passato, lo problematizza.
La rivisitazione del personaggio, sotto la lente del “nuovo” fa apparire un eroe turbato, profondamente scosso e in costante tensione dialettica tra colpa e punizione, un gioco incentrato sulla causa scatenante e conseguente reazione. Quello dell’eroe è un conoscere turbato in quanto si rapporta a situazioni di patimento o di contrasto o in quanto può adattarsi a stati d’animo in cui l’analisi dell’esistente emerge mediante l’angoscia e il timore. Inoltre la consapevolezza tragica può presupporre profondità remote, collegate al mondo arcaico-primitivo evocato attraverso il mito.
La domanda da porci è: come può la creazione religiosa/mitica diventare un patrimonio per l’umanità, dopo che per diversi millenni è stata utilizzata da una parte ben precisa, dalla parte maschile, quindi autoritaria, come arma di schiavitù? Ogni mito è presentato come una sinergia tra due fattori: la volontà attiva e l’esecuzione passiva. Tutto il mondo greco, così come rappresentato dal mito, è immagine viva del rapporto autorità-subordinazione. La religione immette l’uomo nel compiuto modello autoritario, gli assegna un ruolo, una posizione definita nel suo sistema. Al vertice c’è un’autorità, la divinità, che stabilisce delle relazioni pericolose, tali sono le relazioni religiose e al cui fianco vediamo una serie di subordinati, i semidei, accompagnati da sentimenti di timore e passività, caratteristiche di un’ideologia autoritaria. L’eroe dunque, quando agisce, agisce nel nome del padre.
Bibliografia
Di Benedetto V., Euripide: Teatro e società, 1971, Einaudi, Torino 1992.
Ferrari A., Dizionario di mitologia greca e latina, UTET, 1999.
Detienne M. (a cura di), Il mito. Guida storica e critica, Laterza, Bari 1975.

 

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