Il pensiero femminista muove dai corpi, che coniuga al plurale senza cercarne una sintesi. E’ su questa acquisizione che si innestano le riflessioni di Angela Putino. I corpi non sono dunque un mero e indistinto dato biologico, né quell'”essere comune” sul quale si fonda la politica: “sono sessuati oltre la biologia perché toccati dal senso, in lotta”. Questo il punto di rottura del femminismo: aver proposto una politica dei corpi nell’epoca in cui la vera posta in gioco del potere è la governamentalità del vivente.
Recensione di Nicoletta Stellino
L’insieme dei saggi di Angela Putino raccolti in Corpi di mezzo, edito nell’ottobre 2011 a cura di Tristana Dini, si concentra attorno all’analisi del concetto di biopolitica posizionato all’interno di uno schema evolutivo che pone nella nascita il momento in cui il patrimonio genetico di un individuo prende forma, determinando così in maniera decisiva quelle informazioni genetiche con cui non solo egli vive, ma con le quali si inserisce nei processi sociali e politici. Tale prospettiva è una delle tante contaminazioni che l’autrice deriva dal pensiero di Foucault, che rielabora in alcune sue parti fino a ritrovare in questo molti punti di contatto con il pensiero della differenza. Tutte le intersezioni e contaminazioni di pensiero che l’autrice mette in atto vengono fatte vivere in un nuovo insieme di relazioni senza forzature di alcun tipo.
Nel discorso biopolitico, morale e biologia si intrecciano indissolubilmente, come se l’una fosse il parametro determinante dell’altra e viceversa, per approdare ad una definizione di “sanità”, non solo in campo medico ma anche sul piano sociale, che valga per un’intera specie. La misurazione biologica diviene, infatti, parametro che certifica la competenza o l’incompetenza su tutti i fronti.
In questo contesto la sessualità acquista una rilevanza come atto del generare, soggetto a condanna come atto moralmente illecito quando con esso si dà luogo ad una generazione che devia da quella che viene intesa come normalità e che porta a ciò che viene abbassato a difetto genetico, patologia e malattia endemica.
La sessualità, in questo contesto, è sostanzialmente un fenomeno riproduttivo: le operazioni di controllo e di investimento dei dispositivi di potere hanno l’esigenza di individuare la differenza tra i sessi per rispondere ad una domanda di procreazione specifica ed esigenze definite di “salute”. I corpi delle donne diventano materiali su cui applicare tecniche che, sospendendo la sessualità e il desideri di ciascuno di loro, utilizzano il sesso femminile come mero fornitore di prodotti. Per esempio, se tra Ottocento e Novecento la sessualità veniva regolata perché con questa avvieniva la selezione, con Hitler il patrimonio genetico diviene addirittura la ricchezza di una nazione.
La biologia, in particolare la teoria evolutiva, secondo le interpretazioni foucaultiane, fornisce concetti utili ad una ideologia biopolitica come quello di adattamento: in questa ottica, solo se l’individuo sarà in grado di adattarsi alle variabili dell’ambiente in cui vive sarà possibile l’accesso a mondo degli inclusi. Putino nota come, in una tale prospettiva evolutiva, l’intento non è quello di proporre e individuare una cura, se davvero ce ne fosse bisogno, ma quello di ostacolare un eventuale contagio tra individui di dignità diverse e preservare quella “sanità” che garantisce il miglior sviluppo della specie. Logica conseguenza è la creazione di un sistema di inclusione-esclusione, visto che non a tutti è data la possibilità di essere dei sani portatori, e controllo e disciplina divengono il necessario metodo di governo. La disciplina dei corpi, infatti, viene destinata alla realizzazione di una sana specie umana.
I corpi di mezzo, dunque, sono proprio quei corpi informi che non trovano collocazione in qualsiasi definizione perché incapaci di adeguarsi, sono i corpi dei folli di cui parla Foucault o i corpi massacrati dall’ideologia nazista: sono corpi senza cittadinanza. La biopolitica diventa, in questo senso, potenziamento di mezzi e metodi di governamentalità, non tanto di repressione, ma tecnologie che incentivano un unico modello di vita.
Inoltre il linguaggio biologico, in una concezione biopolitica della realtà, si intreccia con quello economico che parla di profitti e che si muove secondo la logica dell’utile.
L’intento è ora, secondo Putino, quello di svincolarsi da una struttura che definisce a priori le norme che regolano l’inclusione e l’esclusione da una vita ritenuta degna, decostruendo un impianto fatto di forme già date e precondizionate e dando spazio ad aperture che, dirigendosi verso l’esterno, riescano a liberarsi da definizioni e schemi rigidi che posizionano i corpi fuori o dentro di esse per trovare loro un senso.
In questa direzione si inserisce anche il discorso psicoanalitico in cui, con Foucault, si individua il primo superamento del determinismo evoluzionista.
Dunque bisogna mettere i corpi in relazione, senza mai definirli: è proprio nelle relazioni che essi prendono vita. Quello che secondo Putino è necessario fare è partire dai propri corpi, dai propri modi per “espellere”, dice l’autrice, la propria interiorità; così che essi possano diventare “corpi fuori”, spazi aperti.
La realtà di oggi ci offrirebbe la possibilità di uno spazio in cui verrebbe meno il senso del corpo, inteso come unico e definito, attraverso un insieme di interconnessioni in cui i corpi vengono messi in relazione in una rete di rapporti di vicinanza, esposizione, movimento; ma ciò non accade perché vi è una tale velocità e impossibilità di relazioni, tali in quanto di numero sproporzionato, che i corpi si trasformano in una sovrapposizione che confonde tutto. I corpi sono, in questo caso, il “tra”: ciò che sta in mezzo affinché siano “trasmettitori indifferenti”.
Oggi, inoltre, sulla questione della procreazione il dibattito è caldo: lo scontro con il femminismo in tema di aborto si spiega proprio perché esso insiste sulle singole coscienze, mentre la biopolitica tende a creare un unico sentire condannando le decisioni singolari come fonti di deviazione e offuscamento.
Aver cura di sé significa ripartire da sé, dai propri corpi senza indossare una forma che ci viene imposta dal potere. Significa resistere vanificando il potere, rendendolo inattivo. É qui che Putino intreccia il pensiero di Foucault con le pratiche delle donne: il femminismo mette in scacco quel progetto politico secondo cui la vera posta in gioco del potere è la governamentalità del vivente.
Concepire i corpi come uno e considerarlo come “incarnazione del senso globale” significa incastrarli in un’unica definizione che non esiste; significa regolarli e controllarli. I corpi, invece, dice Putino, sono sessuati “oltre la biologia”, perché è nell’esperienza che hanno un loro senso, a prescindere dai loro ruoli e dalle loro identità. I corpi sessuati sono corpi “di esperienza” che non hanno bisogno di localizzazioni o di forme precostituite che diano loro un senso, ma necessitano di spazi aperti.
Oggi il potere va intercettato non più nelle istituzioni che lo impongono dall’alto, ma deve essere ricercato nei meccanismi che provengono dal basso e si diffondono lasciando credere che siano normali, necessari e qualcosa da cui sia impossibile prescindere.
Se la biopolitica definisce cos’è il vivente, resistere significa essere in grado di dire la verità della propria vita, partendo da sé, parlando in prima persona: la cura di sé è un atto di resistenza contro l’imposizione.
I corpi non possono essere qualcosa che ci predetermina, ma essi devono essere lo spazio dei nostri desideri, delle nostre resistenze e dalla nostra esperienza. In questo modo è necessario parlare di una molteplicità di sensi, come è necessario parlare di corpi e non di corpo; parlare di corpi significa partire proprio dall’esperienza di ciascuno di essi, cioè parlare di corpi che siano, in questo senso, sessuati.