MARISA FORCINA
Nei saggi, come nei testi narrativi, la filosofa femminista belga ha invitato a «mettere al mondo un mondo» facendo avvenire eventi e forme non ancora previsti
Dopo, ci si accorgeva che la sua presenza aveva segnato momenti di grande autorità. Era sempre così. Come con i suoi testi. Come con le sue parole. Come con tutto ciò che si muoveva intorno a lei negli eventi culturali. Eppure nei suoi discorsi, come nei suoi libri, non era mai assertiva. Amava, piuttosto porre domande, e si metteva in ascolto, qualche volta brontolava tra sé, e poi continuava con le domande, seguendo un filo che non si interrompeva. Che lei non interrompeva. Non avrebbe interrotto nemmeno stavolta, alla Scuola estiva di filosofia di Lecce cui avrebbe dovuto partecipare fra pochi giorni.
Françoise Collin è morta l’1 settembre a Bruxelles, dove venerdì si terrà la cerimonia ufficiale di commiato. Lì era nata il 18 aprile 1928 e aveva insegnato all’Università di Sain Louis, e poi all’Istituto Superiore di Formazione Sociale. Ma la sua città era Parigi, dove aveva tenuto i suoi seminari al Collège International de Philosophie e dove nel 1985 aveva organizzato un convegno su Hannah Arendt che segnò una svolta nelle letture e studi arendtiani sino ad allora chiusi nell’orizzonte di un limitato liberalismo politico.
Filosofa, femminista, autrice anche di racconti e romanzi, Collin si era interrogata sul senso della letteratura impegnata e sul rapporto tra scrivere e agire, sostenendo che la scrittura ha la funzione di vegliare su ciò che il discorso dominante dimentica o preclude, perché là dove l’agire è impossibile, scrivere lo condensa. Reticente di fronte alla nozione di «scrittura femminile», con cui spesso si pretende di definire ciò che veramente appartiene alle donne, Collin era in posizione critica rispetto a ogni forma di idealismo, a cominciare da quelle della cultura egemonizzata da Derrida, come pure rispetto alle derive essenzialiste di altre interpretazioni. Preferiva sottolineare che il femminismo non è né un’ontologia né una metafisica che definirebbe l’essere donna, ma un movimento politico e poetico che spinge le donne e ogni donna «a essere, senza pregiudicare ciò che sarà o dovrà essere questo essere, senza definire le identità». In questa direzione, anche la questione del corpo e della corporeità era sempre da lei posta non come un dato, ma come un rapporto, che si significa nel linguaggio e nel dispiegarsi del senso.
Nel 1973 aveva fondato e diretto Les Cahiers du Grif, la prima rivista femminista in lingua francese, che continuò a dirigere sino al 1993. I suoi testi avevano affrontato i nodi teorici e i problemi politici della questione femminile e della differenza tra i sessi. Ma il suo percorso e impegno intellettuale era nella ricerca di un punto d’incontro e di scontro tra sé e gli altri, le altre, che era poi il punto di incontro e di tensione tra sè e la realtà, e questo non per portarvi improbabili e superficiali o dialettiche conciliazioni o determinazioni, ma per trovare una misura di autenticità. Era il suo modo di fare, di essere, era la sua politica. Perché, come aveva scritto giocando con le parole: «Essere qualcuno è essere non-uno». Cioè riconoscersi nella pluralità. Una pluralità che non dissolve le singolarità, ma senza farne un’icona vittoriosa segna solo l’irriducibile singolarità di ciascuno, nella differenza, che ha il suo inizio costitutivo nella differenza dei sessi, ovvero nella prima forma di pluralità.
In tutti i suoi scritti Collin ha insistito nel chiarire che quella della differenza non è una questione teorica, ma una prassi. Una prassi però completamente diversa da quella marxiana che si richiama costantemente alla produzione di oggetti o di beni economici. Lei ci ha insegnato a riconoscere la differenza come materia e fonte di ogni inizio, come dato incontrovertibile, che si radica nella nascita, troppo frettolosamente liquidata come ri-produzione. Citando Hannah Arendt e, ancora una volta giocando con le parole, mostrava che questo modo di intendere la prassi non ha nulla di ontologico, non fa nessun richiamo all’essere o all’essenza. Anzi ne è la negazione:
«Le naître, come le n’être, è la fonte della libertà, perché coincide con la capacità che ognuno ha, nascendo, di essere un nuovo cominciamento»
In questa direzione la sua filosofia politica esprime un interessante tentativo di rifondazione del mondo comune, che sostituisce alla ripetizione, causata dalla convinzione della pluralità dei medesimi, una pluralità di differenti tesi alla valorizzazione della singolarità e dell’impegno. Ognuno, essendo chiamato a giudicare e prendere delle decisioni, dà così corpo alla politica e alla cittadinanza.
Le letture sia di Arendt sia di Maurice Blanchot hanno nutrito il pensiero di Françoise Collin. Di Blanchot aveva evidenziato e fatto proprio il rifiuto del sistema e delle costruzioni che sviluppano progetti e programmi, a favore di una attenzione per la modulazione dei toni, in una prospettiva in cui il tutto è sempre meno grande delle parti. Questo l’aveva portata al rifiuto dell’unità sistematica che però lasciava posto a un’altra concezione di unità, aperta e relazionale, senza chiusure, ma «polifonica» e «plurale» come amava dire con due termini che le erano cari. Polifonia e pluralità che ritornano nel suo pensiero interrogativo e critico, facendo emergere il tema della libertà legato a quello della nascita. Perché la nascita, scriveva, non è la condizione per cominciare, ma è iniziativa, e l’iniziativa è nascita di qualcosa, è condizione di un nuovo cominciamento.
Come della nascita, anche della differenza ha voluto sempre evitare ogni interpretazione ontologica o naturalista, che porterebbe ad assegnare alle donne e agli uomini una definizione precostituita. C’è una differenza dei sessi, ed è inscritta nel sociale e nel simbolico, ma questa differenza non si colloca in qualcosa o qualche luogo, si déplace. Si spiazza e spiazza, come la dualità iniziale dei sessi, come l’agire, che è sempre plurale, e che consente la trasformazione delle posizioni. Anche di quelle del femminismo. Un agire, dunque che si distingue dal fabbricare perché non ha alcun modello.
La sua lezione resterà quella che ci invita a «mettere al mondo un mondo», mettendo noi stesse al mondo e facendo avvenire eventi e forme non ancora previsti. Infatti i modelli secolari non sono più veramente pertinenti, anche se fanno parte delle nostre eredità, dei nostri vissuti e del nostro immaginario; diventeranno nutrimento se sapremo allontanarcene. E tuttavia la prassi non fa mai tabula rasa, ma riceve e trasforma, è sempre un tra, tra passato e avvenire.