Che Potere e Passione siano avvinti in una stretta interrelazione è affermazione che rasenta il luogo comune. Assai più intricata e interessante è, invece, l’esplorazione e l’analisi su che genere, o generi, di relazione intercorrano tra i due. E se il genere, nell’altra accezione del termine, giochi un qualche ruolo nella relazione, o meglio, nella prospettiva con cui si osserva e si interagisce nella relazione stessa.
Riflessioni, queste, che originano dai notevoli contributi proposti negli ultimi mesi da Aung San Suu Kyi, Leader della NLD (National League for Democracy), il maggior Partito di opposizione in Myanmar. Rilasciata un anno fa dalla sua ultima detenzione domiciliare, durata 7 anni , la Lady ha avuto modo di offrire all’ascolto internazionale il risultato delle sue acute e profonde meditazioni politiche. In particolare nell’occasione delle due Reith Lectures trasmesse la scorsa estate sull’emittente radio inglese BBC 4 e di un articolo pubblicato il 2/10/2011 sul New York Times, ha affrontato con originalità di prospettiva e analisi questioni come la Libertà, il Dissenso e, appunto, la relazione tra Passione e Potere.
Rifiutando una lettura meramente astratta e accademica, Suu Kyi vede la “passione” partendo dalla sua personale esperienza nella dissidenza, ovvero nella sua attualizzazione pratica e, soprattutto, politica. Partendo da sé, interrogandosi su cosa abbia non solo spinto, ma soprattutto permesso di continuare strenuamente a fare politica a lei e ai suoi compagni di lotta in condizione di deprivazione inimmaginabile, Suu Kyi chiama in causa Max Weber e le tre qualità che un politico dovrebbe possedere: passione, senso di responsabilità e senso di proporzione. Tra le tre, Suu Kyi decide di soffermarsi sulla prima, come principale motore, cuore pulsante del tipo di politica che lei ed i suoi compagni di lotta hanno scelto di praticare: la politica della dissidenza. Terreno impervio e pericoloso, questo, come la sua stessa vita ha chiaramente dimostrato. Territorio liminale, in cui, usando le sue stesse parole, si decide più o meno dichiaratamente di vivere in un mondo separato da quello degli altri concittadini, un mondo precario, dominato da leggi non scritte. E sulla carnalità, sulla concretezza delle esperienze che contraddistinguono la lotta politica dei suoi compagni la Lady non smette mai di insistere, ricordando come non si tratti di una mera astrazione, ma di carne e sangue, vita che si decide di “sacrificare” per conseguire un’autenticità e dignità umana. Persone, tante, senza un nome celebrato sui media, ma di cui Suu Kyi ricorda volti e sguardi, brillanti, appunto, di passione.
“What is this passion? What is the cause to which we are so passionately dedicated as to forego the comforts of a conventional existence? Going back to Vaclav Havel’s definition of the basic job of dissidents, we are dedicated to the defence of the right of individuals to free and truthful life. In other words, our passion is liberty.”
La passione di cui qui si parla, sottolinea altrove Suu Kyi, non è mera agitazione dello spirito, fiamma di breve durata che caratterizza molte sollevazioni e proteste. Non si tratta di uno sfogo di tensione, per quanto alta, cieca a modalità e fini. Questa passione è Politica, nell’accezione più complessa del termine. Passione che non si contrappone alla razionalità, ma che, al contrario, l’abbraccia, la determina, la rende forte e capace. Passione “intelligente” per dirla con Nussbaum, che si mostra come requisito indispensabile per un’azione, una vita politica. Passione che permette di analizzare le motivazioni di un disagio collettivo in maniera più ampia ed esaustiva perché non dimentica l’empatia, i sentimenti, le relazioni della vita con gli altri e le altre. Passione che si rivolge all’autenticità della vita di ciascun individuo. A tale passione, così declinata, Suu Kyi dà il nome di Libertà. In epoche, come la nostra o quelle da poco trascorse, in cui del termine Libertà – così come di molti altri – si è fatto scempio, mistificandolo, denaturandolo, traviandolo a tal punto da trasformarlo nel suo opposto, l’affermazione della Lady birmana risuona di un senso originale e insperato. Libertà come autenticità di vita.
In tale aspirazione all’autenticità, ovvero nel perseguire la Libertà, la passione, dice Suu Kyi, spesso si traduce in sofferenza: non per atteggiamento masochistico, non per sterile dedizione al sacrificio, ma per scelta oculata circa ciò che è necessario fare, o soffrire, in vista del raggiungimento dell’obbiettivo desiderato. Di nuovo la Lady chiama in causa la totalità dell’essere umano nell’articolazione della scelta morale, etica e politica. La sofferenza come scelta in vista di un fine coinvolge la dimensione fisica, corporea così come quella mentale ed emozionale. Razionalità, nell’analisi della situazione e delle strategie da mettere in atto nonché nella previsione degli esiti e nel giudizio sulla auspicabilità dei risultati; passionalità come energia vitale, dedizione che consente di affrontare anche l’eventuale – anzi certa – sofferenza anche di lunga durata, che segna i corpi con tracce indelebili. E’ a questa totalità sensibile-senziente che la Lady si riferisce ogni qual volta parla di passione politica come libertà che si traduce in sofferenza. Nelle parole di Suu Kyi, infatti, la scelta deliberata della sofferenza va posta sempre in relazione alla libertà, o al perseguimento di essa. In questo la Lady accomuna la dimensione politica a quella religiosa. Per non incorrere in facili fraintendimenti, dovuti a prospettive etnocentriche, occorre calare questa affermazione nel contesto buddhista, o meglio, in quello del cosiddetto Socially Engaged Buddhism.
Nelle sue molte e variegate declinazioni, il cuore del pensiero buddhista si incentra proprio sulla sofferenza, sulla sua realtà, sulla possibilità della sua cessazione e sul modo per conseguirla. Queste sono, infatti, le Quattro Nobili Verità espresse dal Buddha da cui prende le mosse tutta la complessa articolazione delle tradizioni buddhiste. Operando una semplificazione estrema, si può affermare che la sofferenza come dimensione esistenziale (dukkha), che si manifesta in diverso modo in ogni realtà della vita terrena, si superi grazie al “non-attaccamento”, ovvero alla presa di coscienza dell’insostanzialità di ogni “essere” (anatman) e dell’impermanenza di ogni realtà (anitya). Le diverse scuole buddhiste presentano differenti metodi per raggiungere tale consapevolezza, tutti comunque caratterizzati da un complesso di pratiche meditative e psico-fisiche e da una “retta” condotta di vita. Si ritornerà in seguito su questo punto.
La teoria del non-attaccamento sembrerebbe entrare in contrasto stridente con l’interpretazione della politica offerta da Suu Kyi, che prevede un coinvolgimento passionale ardente. Nella realtà dei fatti, la questione della partecipazione politica in ambito buddhista è questione altamente complessa e dibattuta. Semplificando, nuovamente, per fini di brevità, una parte del mondo buddhista, tra cui molti alti esponenti del clero birmano, propendono per l’interpretazione escludente, che vede la partecipazione politica come manifestazione di attaccamento, quindi non conforme ad una pratica che punta alla liberazione ultima (moksha). Da qui, ad esempio, la scelta di non opposizione diretta alla giunta militare birmana. Un’altra parte, invece – tra cui, nella stessa Birmania, i monaci che hanno aderito alle varie proteste, represse talvolta nel sangue – sostiene la necessità di operare attivamente nell’ambito sociale e politico proprio per garantire a tutti gli esseri sensienti – non solo agli esseri umani, dunque – le precondizioni minime (tra cui la libertà in senso politico) per poter intraprendere il sentiero della liberazione ultima. A questa interpretazione si richiama, tra gli altri, il cosiddetto Socially Engaged Buddhism, alle cui teorie e prassi la Lady birmana si ispira esplicitamente. Ad essere più precisi, Suu Kyi è ad oggi considerata una degli esponenti più rappresentativi e significativi di tale orientamento, sia nel contesto locale del Sudest Asiatico, sia al livello globale. Unica donna tra vari leader del Socially Engaged Buddhism asiatico, e per di più laica, la Lady si trova ad incarnare un valore simbolico decisamente dirompente, sia nell’ambito politico che in quello religioso. Basti pensare che i Leader della Giunta Militare birmana – che ha dominato il paese per circa 50 anni e che ancora oggi, all’indomani delle contestate elezioni, rivestono i ruoli politici apicali in Myanmar – omaggiano il clero birmano, composto in larga misura da monaci di genere maschile . Buona parte di esso, a sua volta, non prende posizione di critica attiva nei confronti della leadership birmana proprio in virtù della dottrina del “non-attaccamento”. Come si concilia, dunque, questa teoria con la “passione” come tratto fondamentale della vita politica e religiosa secondo quanto sostiene Suu Kyi?
La risposta, non facile, va trovata nella maniera in cui la “passione” viene concepita.
Chiamando in causa nuovamente una concettualizzazione buddhista – maggiormente utilizzata nell’ambito del Buddhismo Mahayana – si tratterebbe qui di “compassione”, nell’accezione latina di “cum-patior”, ovvero sento-insieme, vengo coinvolto dalla sofferenza e dall’aspirazione alla felicità altrui senza che questo determini “attaccamento”. La passione di cui qui si parla non è, dunque, un’affezione dell’animo passiva, che afferra l’individuo impedendogli di agire “razionalmente”. Bensì una “passione intelligente”, che non prevede opposizione tra moto dell’animo e razionalità, e tra queste e azione pratica. Una passione capace di fornire fuoco all’analisi senza che questa vada in fumo. Nella sua articolazione della “passione”, dedicata ad un pubblico internazionale, la Lady chiama in causa, come precedentemente affermato, non solamente le sopra descritte dottrine buddhiste – a cui allude ma su cui non si sofferma – quanto le teorizzazioni di Max Weber, in particolare quella offerta nella conferenza “La Politica come professione” del 1919, ponendo le due in dialogo implicito. Accanto alla “passione”, le altre due caratteristiche individuate da Weber come fondamentali per un politico sono, come già detto, “senso di responsabilità” e “lungimiranza”. Entrambe queste caratteristiche rimandano ad un pensiero “razionale”, nell’accezione del termine delle tradizioni nordatlantiche. Se il senso di responsabilità è ancora debitore di una qualche forma di sim-patia umana, la lungimiranza ragione in termini di cause ed effetti , di calcoli sull’efficacia e sugli obbiettivi. Le tre caratteristiche del politico secondo Weber coinvolgono le varie dimensioni in cui il pensiero del cosiddetto Occidente ha diviso l’essere umano, che il politico è chiamato ad armonizzare. Mutatis mutandis, la passione secondo Suu Kyi vive già di questa triplice declinazione, affermando implicitamente che la divisione in varie sezioni è surrettizia, che una passione politica incarnata correttamente è già in sé responsabile e razionale. Non solo: è anche fisica. La Lady lo evidenzia non solo, in negativo, ricordando le privazioni che lei e i suoi compagni di lotta hanno lungamente subito, o, in positivo, la capacità di resistenza che hanno dimostrato, ma alludendo anche alle pratiche fisiche quotidiane da lei esercitate durante i lunghi periodi di detenzione, domiciliare e non. “Keeping fit, as fit as possible was, in my opinion, one of the first duties of a political prisoner” afferma incidentalmente nella prima delle Reith Lectures. Mantenere il proprio corpo sano, forte – e sottolineo questo aggettivo – non è solo presentato qui come un modo per trascorrere il tempo della detenzione, ma come un “dovere” di un prigioniero politico, ovvero un atto politico in sé. Non solamente come mera opposizione alla limitazione fisica che viene imposta, come reazione a quei vincoli che, oltre ad impedire un libero movimento, intendono infiacchire, debilitare, rendere innocui. Ma, soprattutto, utilizzando una metafora marziale, come ribaltamento del terreno di lotta. Come insegnano alcune discipline di combattimento cinesi, una forza che sia soltanto oppositiva è destinata a soccombere per sua stessa natura. Per essere vincente, o quantomeno per avere delle concrete possibilità per esserlo, la forza deve trasformarsi in “agente”, ovvero in azione originale, che parte da sé stessi, dalle proprie possibilità e le sa ottimizzare. Per dirlo in altri termini, sceglie il terreno di lotta più congeniale a sé. La condizione di prigioniero non sembra favorire tale possibilità di scelta. Ma la Lady dimostra il contrario. Il tempo “perduto” della detenzione diventa tempo “guadagnato” dell’allenamento alla forza, della propriocezione, della riflessione, dell’ascolto di sé. Diviene occasione di trasformazione. Lo spazio limitato si dilata nell’acquisizione della consapevolezza delle innumerevoli possibilità del proprio corpo. Osservando quanta forza l’esile figura della Lady sia in grado di emanare ci si rende subito conto che la forza in questione è costituita da una complessità di elementi che, nuovamente chiamano in causa l’armonia, la totalità dell’essere umano. Corpo fisico, corpo razionale, corpo passionale, corpo politico. La narrazione di Suu Kyi prosegue ricordando, infatti, come proprio durante i suoi esercizi fisici quotidiani si sia un giorno sorpresa a realizzare una mutazione profonda occorsa in lei, nella consapevolezza di sé. Si rende conto d’un tratto di non essere più “come prima”, un prima in cui avrebbe trascorso il tempo della detenzione a rigirarsi nel letto, piegata dall’ansia, dalla paura per sé e per la sorte dei suoi compagni di lotta. Una nuova, lucida calma prende il posto dell’angoscia, trasforma la prigioniera-vittima in guerriera, le consente di percepire una nuova dimensione di libertà. La rende forte. E questa forza, come si diceva, è complessa e articolata, politica: non si riduce al mero “benessere corporeo” individuale, nell’accezione che l’allenamento fisico sovente riveste alle nostre latitudini. “I felt almost as a physical force the strong bond that linked those of us who had only our inner resources to fall back on when we were most in need of strength and endurance”. Forza di chi non ha più nulla, forza che parte da sé e si estende dal corpo fisico al corpo politico, alla totalità di tutti coloro che si uniscono in vista dell’aspirazione comune alla libertà. Forza passionale, forza della passione.
Anche il concetto di libertà assume una connotazione nuova. La libertà diviene una condizione dello spirito e del corpo, realtà metafisica e politica al contempo.
“Whenever I was asked at the end of each stretch of house arrest how it felt to be free, I would answer that I felt no different because my mind had always been free. I have spoken out often of the inner freedom that comes out from following a course in harmony with one’s conscience.”
Immediatamente dopo, però, la Lady puntualizza, con le parole di Iasiah Berlin, l’importanza e i rischi di una lettura totalmente interiorizzata della libertà. La libertà “spirituale”, così come da lei intesa, non si pone in contrasto con la libertà politica, non diviene un “sostituto” di questa, soffuso di passività e rassegnazione, ma si pone al contempo prerequisito e finalità. Libertà spirituale e libertà politica si coappartengono, si rafforzano reciprocamente nei mezzi, nei fini e nelle pratiche.
“The belief in spiritual freedom does not have to mean an indifference to the practical need for the basic rights and freedoms that are generally seen as necessary that human beings may live like human beings.” Tra questi diritti basilari, quello che la Lady vede come essenziale nella sua esperienza è quello alla libertà dalla paura.
Nuovamente Suu Kyi chiama in causa il pensiero e le prassi buddhiste, ponendole in dialogo con la concezione dei Diritti Umani e dello Stato di Diritto, in consonanza con il Socially Engaged Buddhism. Alla luce di quanto sopra accennato, risulta chiaro come quella invocata da Suu Kyi, così come da molti altri esponenti del movimento, non sia solamente una giustapposizione di stampo neocolonialista di teorie e prassi considerate aprioristicamente “Universali” pur originandosi in seno ad un definito e limitato contesto storico, culturale e politico, bensì di una necessità di una universalizzazione a posteriori, possibile solo attraverso una lettura interculturale e plurivoca di teorie e di norme quali quella, appunto, dei Diritti Umani. Una rilettura su base dialogica che non sia mera “inculturazione” – altra faccia, se pur addolcita, del colonialismo – bensì reinterpretazione di significati, sensi, prassi.
Ritornando all’inizio del discorso qui intrapreso, ci si può rendere conto che nell’interlocuzione con Suu Kyi è emerso un ulteriore – almeno – declinazione del senso politico della passione: Passione come libertà, libertà come liberazione dalla paura, individuale e collettiva. Non sembra pleonastico riflettere, per inciso, sul fatto che gli ultimi decenni della cosiddetta “politica” mondiale siano stati caratterizzati da un incessante utilizzo strumentale del senso di paura, costruita, alimentata, gestita per sdoganare e legittimare azioni che si muovevano ben al di fuori delle norme che sostenevano surrettiziamente di garantire. Estendendo il senso delle parole della Lady al di fuori del contesto birmano, si arriverebbe alla conclusione che il potere, o meglio, i poteri che hanno – e continuano – a governare la maggior parte delle scelte politiche globali siano da considerarsi antipolitici per loro stessa definizione.
E’ la passione come dedizione, dunque, non una “sterile eccitazione” ad aver reso possibile la Primavera Araba, sostiene la Lady. Ma perché la passione possa trasformare le prime scintille in una conflagrazione totale, occorre che un altro “catalizzatore” entri in scena, che consegni efficacia ed effettività: il potere? si domanda. E se così fosse, quale dei tanti modi del potere, o dei tanti poteri: Il potere del popolo, o quello dell’IT, o quello della solidareità democratica internazionale? O l’insieme di tutti questi poteri, caratterizzati dalla capacità aggregativa, di diffusione e di coinvolgimento “passionale”. E se la passione ha bisogno del potere per consolidarsi, il potere, dal suo canto, necessita di una spinta propulsiva iniziale per uscire dallo stato di latenza. L’analisi di Suu Kyi si oppone alla prospettiva che pone passione e potere come naturalmente opposti, o mutualmente escludentisi nella promozione del cambiamento politico, sia esso concepito come processo costituzionale in democrazie consolidate, sia come rivoluzione. E’ in questa chiave che la Lady legge non solo la già citata primavera araba, ma anche le elezioni presidenziali di Barak Obama che, al di là delle eventuali riserve sul tipo di cambiamento che porteranno o meno nel contesto nazionale e globale, rappresentano di per sé una strabiliante conseguenza della causa antirazzista, destinate a modificare la percezione mondiale della questione.
Passione e potere si coappartengono nell’azione politica dei “ribelli” così come di chi tenta di arginare la ribellione. Se anche il potere più autocratico e spietato, dietro la sua “maschera d’acciaio” ha comunque bisogno della carne e del sangue della volontà umana – strettamente affine alla passione nella lettura datane da Suu Kyi – ciò si rende ancor più evidente nelle esperienze di lotta non-violenta, come quella da lei condotta insieme ai suoi compagni. Nella seconda delle Reith Lectures, la Lady insiste nel sottolineare che la sua scelta della non violenza non abbia un “ambiguo” fondamento ideologico, o pragmatico, bensì si basi sulla convinzione politica che occorra arginare la spirale di cambiamento attraverso violenza che attanaglia il suo paese da decenni, e che ha condotto agli esiti catastrofici odierni. Non ideologia, dunque, ma passione intelligente, che guida la politica laddove il ricorso a mezzi pacifici rende assai più complessi e lunghi i tempi e i modi della lotta. Prosegue, infatti, nel contributo al New York Times:
“As a member of a movement that has been engaged in a long struggle to effect change through nonviolent means, I have learned to value above all other attributes in colleagues and supporters disinterested, active commitment. Such commitment is seldom given to pyrotechnic display, but it is always there, and it provides constant assurance that the essential flame that keeps our cause vibrant will not die out. It is passion, not of the sterile breed, but passion that moves hearts and minds and makes history. It is passion that translates into power. When such passion is brought to bear on public issues, it is a potent instrument for political and social change”.
E’ la passione che muove cuori e menti, non astratti sistemi, economici, politici o religiosi. E’ la passione che si fa corpo, anzi corpi, che quando si traduce in potere muove la Storia.
Ma questo processo può muoversi anche nell’altra direzione? Il potere può tradursi in passione? Questa l’ulteriore domanda che si pone la Lady. Per verificare se ciò sia possibile, occorre per prima cosa comprendere che cosa si intenda con potere, o più precisamente in questo contesto, cosa sia il potere che determina il cambiamento politico. La prima riflessione in merito offerta nell’articolo suggerisce che questa declinazione del potere non possa essere definita in sé, come realtà isolata dalle altre forme di potere. Potere dei partiti, potere economico, potere dei media, potere dei gruppi di pressione e molti altri poteri influenzano profondamente le evoluzioni e le rivoluzioni politiche. Ma il Potere sostantivato, ovvero il potere nella forma dell’autorità dei governanti sostenuti dalla forza dello stato, tuttavia, sembra talvolta cristallizzarsi in un ente anti-passionale, che non promuove il cambiamento, ma si arrocca nella sua autocelebrazione. In questo senso, il potere si oppone alla passione, ne diviene l’antitesi. In questa prospettiva sembra riecheggiare la differenziazione tra potere come verbo servile, ovvero potere come possibilità di fare, di agire, come processualità e, all’opposto, potere come sostantivo autoreferenziale. L’impulso di chi tiene le redini del potere statale, dice Suu Kyi, è in genere verso la conservazione, ed è spinto alla trasformazione dalla pressione di poteri-passioni differenti, o dall’insorgere di problemi che ne minino la stabilità. Anche in questo caso, però, la percezione da parte di intelligenti governanti dell’inevitabilità del cambiamento non determina la possibilità che il cambiamento abbia concretamente luogo. Nelle società pluraliste i processi di cambiamento non possono essere determinati unicamente dai governanti: molte altre forme di potere devono partecipare e sostenere la loro realizzazione. Nuovamente la Lady chiama in causa la politica statunitense: ammettendo l’ipotesi che l’attuale potere presidenziale sia mosso da un impeto al cambiamento, tuttavia, per quanto grande, può essere facilmente contrastato e dissipato dagli altri poteri. Il valore aggiunto, l’arma vincente che sbilancia la situazione a favore del cambiamento è da cercarsi altrove, ovvero nella dedizione, nella perseveranza, nell’abilità di conquistare alla causa in questione cuori e menti. In altri termini nella passione. E’, di nuovo, la passione che colma le mancanze quando il solo potere non è sufficiente.
Nel caso di governi autoritari, è più facile per il potere di governo agire indisturbato dagli altri poteri e passioni. Ma anche in questo caso, cosa determina un potere così forte? E’ il potere di chi governa da solo in grado di trasformare l’intera società? Suu Kyi prende il caso di Stalin, ma solo come esempio tra i molti che sarebbero potuti essere addotti. Il regime di terrore imposto dal dittatore ha modificato non solo la scena politica, ma la psiche dell’intera nazione. Per un periodo. Alla morte di Stalin, svegliatisi dall’incubo, i cittadini hanno iniziato a chiedersi cosa gli avesse permesso di esercitare il potere con una tale risoluta brutalità. Anche in questo caso, la Lady trova nella passione, sebbene della peggior risma, la risposta. L’elemento che ha foraggiato inizialmente la sua macchina spietata è la dedizione ad una causa, o forse l’ambizione personale, o entrambe. Passione che si è trasformata in ossessione per la propria inviolabilità, si è cristallizzata nel meccanismo di potere che ha determinato alcuni tra i peggiori crimini politici dell’umanità. Stalin, inoltre, non era solo: il suo regno di terrore si è realizzato grazie ad un’innumerevole schiera di collaboratori. Tra questi, chi ha collaborato consciamente e volontariamente lo ha fatto proprio infiammato dalla passione, dalla dedizione alla causa di cambiamento politico e sociale che Stalin avrebbe portato al paese o dalla consacrazione allo stesso Stalin.
Ergo, sostiene Suu Kyi, il potere può generare passione, e, di converso, il potere necessita della passione come suo agente.
Tra potere e passione esiste, però, una sostanziale asimmetria, che sbilancia l’equilibrio dalla parte della passione. Nonostante tutta la sua forza, dice la Lady, il potere è meno autosufficiente della passione. La passione è, infatti, in grado di generare il suo proprio potere. Di più: la passione è in sé un tipo di potere che per sua stessa natura scatena forza cinetica. Il potere, invece, tende a cristallizzarsi, a sostantivarsi, a trincerarsi nella sua autoconservazione.
La passione, dunque, è più efficace in termini di forza di cambiamento politico, ma ha bisogno di stabilizzarsi. Il potere ha bisogno di passione come origine e come spinta cinetica, per continuare a conservare la sua natura processuale. Per continuare ad essere un verbo servile.
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