Alessandro Tamagnini – Dall’incontro di linguaggio e politica

 

Il tema trattato riguarda il linguaggio e la politica: negli ultimi decenni molte delle partecipanti al movimento femminista hanno attribuito una funzione decisiva al rapporto tra diventare soggetti e linguaggio. Per le donne la gabbia dei pregiudizi e degli stereotipi hanno rappresentato degli ostacoli per l’accesso alla piena partecipazione alla vita comune. Il mancato accesso o esercizio di una parola continua a essere una sfida in vista di un ordine politico giusto. Ho scelto questo argomento trattato perché penso che decenni fa alle donne venivano attribuiti troppi pregiudizi; le donne così non potevano garantirsi una partecipazione alla vita quotidiana come gli altri, perché fatte oggetto di stereotipi dal più delle persone. Leggendo il libro scritto dalla scrittrice Luisa Muraro ho trovato interessanti alcuni dei temi che lei ha voluto spiegare e trasmettere ai lettori attraverso giri di parole o figure retoriche.

Nelle prime pagine del libro preso in esame, “Maglia o uncinetto”, parla di una teoria di Roman Jakobson risalente agli anni Cinquanta. Premettendo che parlare è come lavorare a maglia, secondo la teoria di Jakobson, quando parliamo, operiamo su due assi fondamentali: su uno selezioniamo le unità linguistiche, mentre sull’altro le combiniamo tra loro. La teoria di Jakobson fu importante per due ulteriori sviluppi: il primo fu che egli ha avanzato l’ipotesi che i due assi corrispondano ai processi primari di ogni produzione simbolica; il secondo, ha ravvisato in due figure retoriche, la metafora e la metonimia, i procedimenti che caratterizzano dal punto di vista semantico l’asse delle selezioni e quello delle combinazioni. In conclusione Jakobson ha parlato di direttrice metaforica per l’asse delle selezioni e direttrice metonimica per quello delle combinazioni. La sua teoria fu ripresa anche fuori dalla linguistica. Lacan l’ha riconosciuta coincidente con la sua lettura di Freud, dell’inconscio che è il linguaggio, assicurando così a metafora e metonimia una sorta di popolarità. Ormai queste due figure retoriche formano una sorta di coppia fissa, poiché non le si sa più distinguere. Questo pensiero è opposto a quello che invece aveva in mente Jakobson, il quale attuava una differenziazione tra metafora e metonimia, due figure retoriche tradizionalmente poste vicine. Esse hanno in comune di essere espressioni che significano qualcosa di diverso dal loro senso; prendendo il posto di un’espressione che sarebbe quella abituale. La metafora rinforza la percezione di una somiglianza, a volte la determina. Le teorie politiche generalmente si appoggiano sul procedimento metaforico per darci una rappresentazione generale dei fatti, che nell’esperienza concreta possono invece presentarsi come frammentari o che intrattengono tra loro rapporti che la teoria stessa spiega essere irrilevanti. Lacan identifica metafora e metonimia con i meccanismi del sogno che Freud chiama rispettivamente condensazione e spostamento: un’identità completa salvo che per la messa in scena si esige che i pensieri siano tradotti in immagine. Stabilita questa corrispondenza tra i due processi, metonimico e metaforico, essi risultano sì nettamente distinti, ma non si vede tra loro un’opposizione o una rivalità. Nel lavoro del sogno, al quale Lacan ha accostato i due processi linguistici, il processo di condensamento e quello di condensazione lavorano sempre in una sorta di collaborazione, non risultando incongruenti o opposti l’uno con l’altro. Finisce paradossalmente che proprio il discorso di Lacan costringa a pensare che tra l’ordine simbolico e l’ordine sociale esista una complicità ancora non chiarita: servitù materiali che diventano esigenze logiche, viceversa, delle condizioni della produzione simbolica che diventano imposizioni sociali. Secondo Lacan e le sue teorie tutto si trova preso nelle macchinazioni del linguaggio: le istituzioni sociali come i comportamenti individuali o i rapporti sessuali fino alle più labili emozioni, nel loro svolgimento considerato normale, non c’è quasi bisogno che abbia ragione in ciò che dice poiché con il suo discorso non fa che rendere vero ciò che comunque si sta verificando. Da Freud a Lacan la psicanalisi si è tenuta vicina al processo di disgregazione del corpo sociale in una somma di individui e alla sua reintegrazione a forza di parole e immagini. In una società la cui materializzazione va distruggendo i contenuti dello scambio sociale, la polemica tra i due principi della produzione simbolica sembra destinata a risolversi con la prevalenza del principio metaforico e la conseguente chiusura del linguaggio in una totalità fondamentalmente senza storia, così come si presenta in Lacan. Freud ha inventato un linguaggio e un luogo, la scena analitica, dove si può sapere che chi parla, oltre ad avere un corpo, ha un corpo, generato da un uomo o da una donna, con una vicenda biografica rilevabile. La psicanalisi è inutile dirlo che ha rappresentato una scossa in quel tempo; non è bastata però a cambiare il modo della socializzazione e quello della produzione simbolica. Lacan ha voluto adottare la psicanalisi come teoria stessa della smaterializzazione dei rapporti tra esseri umani. Si tratta di un esito distante se non opposto a quello che aveva in mente Freud. In sintesi Lacan non ha fatto altro che tradurre la scoperta freudiana dell’inconscio nei concetti della tradizionale linguistica strutturale.

Torniamo alla teoria di Jakobson: non esiste un’esperienza immediata originaria e non ha senso quindi appellarsi ai corpi, alla vita, alle cose, come le istanze originali. Può esserci una forzatura nell’ordine simbolico e può esserci una forzatura nell’ordine sociale tale per cui alcuni si trovano mutilati per ciò di cui l’ordine simbolico non rende conto. La teoria di Jakobson dice che la produzione simbolica si determina storicamente. Il simbolico dunque impronta in sé la realtà sociale, essendone parte in causa. Il simbolico esercita la sua potenza macchinatrice nella quotidianità; infatti è proprio lì che si vede come la produzione simbolica proceda in coincidenza con precise imposizioni di ordine sociale. In una teoria il superamento teorico è un movimento relativo. Tra i fattori che relativizzano le conquiste teoriche vi sono sicuramente le conoscenze di cui uno dispone praticamente. C’è chi lavora nei laboratori di linguistica, chi fa scuola agli analfabeti, chi cerca le parole per formulare un desiderio ecc. Si può dire che tutti ci poniamo dei problemi linguistici e, benché sia quasi probabile che questi siano tra loro collegati, non è dato per scontato che i concetti più rispondenti in una situazione lo siano anche in un’altra. Attraverso una metafora si spiega come il passaggio dalla linguistica strutturale a quella generativa di Chomsky sia paragonabile a una castrazione simbolica: ridimensionare una pretesa eccessiva e acquistare in tal modo potenza e produttività, con un’operazione che ripete, a distanza di circa quattro secoli, il gesto inaugurale della scienza moderna. Nell’ultima parte del libro si parla dell’enigma che è del nostro essere corpo e essere parola, insieme. Noi attenuiamo l’enigma quando diciamo di “possedere” un corpo. In passato si è cercato di pensare che sia veramente così, cioè che siamo “parola” (mente, pensiero, anima), e che abbiamo un “corpo” (con tutto quello che un corpo comporta). Il corpo ci risulta eterogeneo al pensiero e se uno si mettesse a pensare se stesso, inevitabilmente si riconosce in ciò che è trasparente al pensiero, che è il suo stesso essere pensiero. In questa parte viene spiegata la scoperta di un paradosso: il nostro “essere parlati” dal corpo vi è stato concepito come l’esatto inverso del nostro essere parlanti del corpo: noi parliamo il mondo e intanto il mondo ci parla, noi ci rappresentiamo noi stessi e intanto quello che noi siamo, senza sapere di esserlo, si rappresenta nel nostro parlare. In sintesi sono: attivi in quanto pensanti, passivi in quanto pensati, passivi mentre ci pensiamo attivi e viceversa. Questa specularità, di un essere corpo che opererebbe sul nostro essere parola quello che il linguaggio opera sul mondo, presuppone che il linguaggio sia il principio della separazione tra essere corpo e essere parola. Così non è, poiché il linguaggio, oltre a riprodurre in sé l’enigma nella divisione significante/significato, lo riprende ed elabora nella doppia generazione del significato. Tra le ultime riflessioni vi è quella in cui viene ammesso che ognuno di noi ha ancora da scoprire quanta intelligenza possa venire dal nostro essere corpo e quale stretto legame ci sia tra piacere e sapere. L’idea di questa possibilità ce l’abbiamo, e proviene dal linguaggio, il quale ce la suggerisce con la sua difformità costitutiva e il suo insormontabile squilibrio.

Testi di riferimento:

Luisa Muraro: “Maglia o uncinetto”; “Un corpo di qua, un corpo di là”; “Difesa dello schema povero”; “Piacere e sapere di essere di essere parte”.

Redazione

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