Introduzione
Il genocidio nei confronti del popolo curdo oggi in atto è stato definito come la “tragedia umana del XXI secolo”. I processi di assimilazione e genocidio tentano di eliminare non solo la resistenza curda, ma anche l’idea democratica di mondo confederale applicata e supportata oggi in diverse parti del Kurdistan e del mondo. Negli ultimi dieci anni infatti lo sviluppo della lotta di liberazione curda ha chiamato esplicitamente ad un movimento globale per la democrazia. Ad un’analisi più attenta il problema curdo è in effetti un problema creato e mantenuto dal sistema capitalista egemonico e patriarcale. In una comprensione democratica e femminista notiamo come in un contesto internazionale il movimento di liberazione curdo sia riuscito a mostrare una prospettiva di libertà con l’esempio d’avanguardia della liberazione delle donne, l’economia sociale, l’ecologia, in una convivenza interculturale tra popoli basata sull’autonomia dallo Stato-Nazione. All’interno dei tentativi di eliminazione fisica e culturale di questo processo, le donne sono le più colpite, in quanto rappresentano le forze più pericolose in questo sistema: le donne hanno sempre avuto nella storia un ruolo di primo piano nella resistenza contro l’omologazione ad uno status quo dominante, per questo attaccare le donne è uno dei primi obbiettivi di controllo. Le organizzazioni delle donne, storicamente in ogni area della loro vita hanno fatto sì che le donne emergessero come soggettività e soggetti di primo piano in ogni luogo e momento della storia. L’analisi e la conoscenza delle donne diviene, secondo un’analisi di genere, nell’intervento che segue, una denuncia forte per comprendere e superare il funzionamento della mentalità e delle pratiche genocide. Emerge da questo contributo la necessità non solamente di considerare e indagare separatamente il femminicidio all’interno dei genocidi in Kurdistan, ma di analizzare i genocidi nei confronti del popolo curdo da un punto di vista delle donne.
Il 20° secolo in Kurdistan è caratterizzato da attacchi genocidi, assimilazione e resistenza per l‘autodeterminazione. Dopo la Prima Guerra Mondiale e il crollo dell’Impero Ottomano si sono formati nuovi Stati i cui confini innaturali passavano per il Kurdistan e quindi hanno diviso in quattro il Paese delle curde e dei curdi. Promesse di autonomia non sono state rispettate. Rivolte contro politiche imperialiste-colonialiste sono state stroncate con una violenza estrema. Per garantire che le curde e i curdi non si organizzassero di nuovo per l’autodeterminazione fu fatto un piano genocida. Con il cosiddetto „Piano di riforma per l‘oriente“ è stato programmato di procedere in modo sistematico contro la resistenza curda. Questo piano prevedeva misure di assimilazione, di cui facevano parte deportazioni, ricollocazioni e omicidi di massa.
La politica di genocidio fisico e culturale in Kurdistan va valutato a parte da una prospettiva femminile. Perché i molti esempi che si propongono solo nell’ultimo secolo mostrano che il genocidio e l’assimilazione in Kurdistan sono stati e sono messi in pratica soprattutto attraverso il femminicidio – come si vede chiaramente nell’esempio di Shengal. Mentre gli uomini per la maggior parte sono vittime di uccisioni di massa fisiche, lo sradicamento, l’assimilazione, la distruzione delle strutture sociali e in questo contesto il genocidio culturale e sociale doveva essere praticati soprattutto attraverso le donne. Anche se sui singoli genocidi e massacri esistono alcune ricerche specifiche dal punto di vista femminile, manca ancora una valutazione complessiva die genocidi in Kurdistan da una prospettiva delle donne.
Ora vorrei mostrare sulla base di due esempi storici del 20° secolo il parallelismo tra genocidio e femminicidio in Kurdistan.
Vorrei iniziare con Dêrsim, una città curda nel Kurdistan del nord, nella quale vivono curdi di fede alevita. Dêrsim rappresenta allo stesso tempo anche un centro della fede alevita che per lungo tempo di fatto è stata autonoma. Questo è cambiato negli anni ’30. Nel 1934 era entrata in vigore la cosiddetta legge di popolamento (İskan Kanunu). Dersim era la prima zona nella quale si voleva applicare la legge. La regione doveva essere spopolata. Tutte le istituzioni della leadership tribale e religiosa furono abolite e confiscate le proprietà terriere. All’inizio del 1936 Dêrsim fu rinominata in Tunceli e messa sotto amministrazione militare. L’intenzione era di procedere a una riorganizzazione politico-amministrativa con il sostegno della repressione militare. A questo scopo a Dêrsim fu proclamato lo stato di emergenza.
Nel 1937 si creò una rivolta contro la politica di assimilazione e turchizzazione dello Stato kemalista turco. Questa rivolta era guidata da Seyit Rıza. La resistenza armata invece era guidata dalla coppia Alişêr e Zarife. Questi significa che qui le donne hanno svolto un ruolo determinante nella rivolta.
La rivolta contro le politiche genocide dello Stato turco è stata soffocata per mezzo di un genocidio fisico e culturale. Nel corso del genocidio del 1937/38 secondo le stime quasi 14.000 persone di Dêrsim sono state uccise. Questo equivale a un quinto della popolazione.
Dêrsim dal punto di vista della sistematicità del genocidio attraverso il femminicidio, rappresenta un esempio particolarmente infame. Perché qui le donne non sono “solo” state assassinate, ma il genocidio fisico doveva essere completato grazie al genocidio bianco. Dêrsim doveva diventare completamente Tunceli. Per questo era necessaria una turchizzazione e sunnitizzazione delle donne e delle ragazze. Perché l’identità collettiva, lingua, cultura e spirito nelle società rurali sono trasmessi prevalentemente dalle donne. Le ragazze e le donne di Dêrsim non solo dovevano essere derubate delle loro famiglie, delle loro case, della loro terra natia, ma soprattutto di quello che le determina: della loro identità culturale, sociale, religiosa, etnica e linguistica. Per loro tramite doveva essere cancellata l’identità autentica e la memoria collettiva di Dêrsim. Questo avvenne per la maggior parte per mezzo della deportazione delle ragazze e delle donne giovani.
Durante il genocidio le ragazze e le donne si diedero la morte in gran numero buttandosi da dirupi o sparandosi, per non cadere nelle mani die militari turchi. Donne che non vennero giustiziate sul momento vennero stuprate e poi accoltellate. Alle donne incinta vennero conficcate baionette nella pancia. Le ragazze sopravvissute al massacro vennero portate nei campi di concentramento a Dêrsim ed Elazığ.
Nel citato “Piano di Riforme per l’Oriente” sottoscritto all’epoca dal governo turco è scritto che per la prevenzione di rivolte curde bisogna provvedere in particolare alla turchizzazione delle razze e delle donne. In concreto viene proposto di alloggiare ragazze curde in collegi turchi e di far sposare donne curde con uomini turchi. Questo è stato applicato per la prima volta durante il genocidio a Dêrsim. Nei campi di concentramento vennero selezionate ragazze sane e di aspetto “grazioso” tra i 5 e i 10 anni e distribuite agli ufficiali che avevano preso parte al genocidio. Ogni ufficiali doveva portarsi via una o due ragazze. Si trattava di un ordine dal livello più elevato, perché sappiamo che le mogli degli ufficiali si sono opposte e non volevano accogliere le ragazze. Anche se spesso la vicenda viene rappresentata come se le ragazze fossero state orfane, ricerche mostrano che solo una piccola parte era orfana e che i genitori e parenti delle ragazze per anni, se non perfino per decenni, hanno cercato le loro figlie deportate.
Le ragazze malate e che non avevano un aspetto “grazioso” vennero caricate su dei vagoni neri e a ogni fermata distribuite a ricchi o commercianti residenti del posto. Nelle nuove famiglie le bambine dovevano essere turchizzate e sunnitizzate. Per prima cosa gli venne rasata la testa e vennero lavate. Questo veniva fatto per umiliarle. Perché nella società curda i capelli rappresentano qualcosa di prezioso, qualcosa di intimo, che non deve essere toccata da estranei. Il fatto di rasare i capelli, può essere visto anche come una metafora: non gli venivano tagliate solo le trecce, ma le radici, l‘origine. Così dovevano essere „depurate“ della loro intera identità. Non venivano accolte come figlie proprie e non venivano considerate alla pari. La maggior parte di loro non veniva mandata a scuola. A casa si insegnava loro la cultura turca e a parlare un buon turco. Vennero cambiati i loro vestiti. Come segno della civilizzazione dovettero indossare gonne corte. Gli veniva continuamente inculcato: se non ci fossimo noi, da tempo sareste morte o finite in strada. Dovevano mostrare gratitudine.
Per decenni queste donne hanno taciuto. Alcune hanno portato il loro segreto con sé nella tomba. Solo con il lavoro di elaborazione del genocidio il tema delle ragazze di Dêrsim scomparse è arrivato all’ordine del giorno e con questo nelle nostre coscienze. Le donne hanno ancora difficoltà a parlare del loro destino. Perché il confronto con il passato è estremamente doloroso. Per decenni le donne hanno dovuto tacere e nascondere che erano di Dêrsim. Altrimenti non sarebbero state sposate. Perché venivano considerate “sporche Kizilbash, quindi alevite”. Erano “figlie di ladri e banditi”.
Anche se ci sono singole ricerche e lavori si questo argomento, un confronto con il genocidio turco a Dêrsim e nel contesto di verità e giustizia per le ragazze scomparse ancora non c‘è. In questo senso la ferita di Dêrsim continua a sanguinare da ben 80 anni.
Arriviamo ora ad Anfal e il genocidio delle curde e die curdi nel Kurdistan del sud. Anfal è la denominazione delle misure genocide intraprese tra il 1988 e il 1989 dal regime Baath irakeno sotto Saddam Hussein contro la popolazione curda e altre minoranze, come gli assiri, gli yezidi e i caldei nel Kurdistan del sud, ovvero nell’Iraq del nord.
Il nome Anfal si basa sulla definizione dell’ottava sura del Corano e significa “preda”. La scelta della definizione religiosa doveva promuovere l’approvazione dei sunniti religiosi. Il nome dell’operazione indica la stigmatizzazione delle persone colpite come infedeli.
Anfal consisteva di una serie di complessivamente 8 operazioni militari tra il febbraio e il settembre del 1988. Ma gli attacchi genocidi del regime Baath nel 1988 erano già iniziati. Solo tra il 1980 e il 1988, 1650 villaggi curdi sono stati distrutti dal governo irakeno. Nel 1988 si aggiunsero altri 2600 villaggi. Nel corso del genocidio si stima che siano stati uccidi circa 100mila civili. A questo si aggiungono come atti di genocidio la distruzione totale dello spazio vitale, la deportazione e la ricollocazione. Torture, arresti ed esecuzioni di massa. Le persone vennero deportate in massa in campi di concentramento.
Il genocidio Anfal da parte del regime Baath irakeno richiede una valutazione particolare da un punto di vista femminile. Durante il genocidio sono stati uccisi per la maggior parte uomini. Ma le ferite che il genocidio ha aperto nei corpi e nelle anime delle donne, ancora attendono di essere guarite. Perché le conseguenze a lungo termine del genocidio si verificano in prevalenza attraverso le vittime di genere femminile.
Gli autori del genocidio avevano scelto in modo molto consapevole il nome „preda“ per il loro genocidio. La “preda principale” era rappresentata dalle donne e dalle ragazze. Ricerche dimostrano che migliaia, se non decine di migliaia di donne sono state sistematicamente stuprate nei campi di concentramento, nelle carceri, per strada nei loro villaggi. Innumerevoli donne e ragazze sono state deportate come bottino di guerra e vendute come schiave. Alcune sono state „regalate“ da uomini ad altri uomini come schiave sessuali. Solo pochi anni fa è emerso che durante Anfal donne curde sono state perfino deportate in paesi arabi e qui vendute a sceicchi e proprietari di locali notturni. Per esempio in un documento ufficiale con timbro del governo irakeno ritrovato nel 2006 si legge che nel dicembre 1989 18 ragazze curde di età tra 14 e i 18 anni sono state vendute in Egitto per esservi sfruttate nei locali notturni.
Molte di queste ragazze sono state deportate dalle carceri e dai campi di concentramento. A questo proposito una testimonianza oculare afferma: “I soldati presero tutte le ragazze giovani nel campo e non le riportarono. Non sono più tornate. Forse le hanno uccise dopo averle stuprate. Non sappiamo cosa gli sia capitato.”
Nel momento del genocidio la maggior parte della società del Kurdistan del sud viveva in villaggi nelle regioni di montagna. Le loro vite erano divise tra l’allevamento di bestiame e l’agricoltura. Anche se la società va definita feudale, le donne partecipavano in misura elevata al superamento della vita quotidiana. Insieme al genocidio vennero però costrette a lasciare il loro ambiente consueto e vennero cacciate in città a loro completamente estranee. Donne i cui padri, fratelli, mariti e figli erano stati uccisi, erano completamente prive di protezione ed esposte a grandi difficoltà e pericoli. Anche qui erano esposte a violenza fisica, piscologica e sessuale.
Dal genocidio Anfal sono passati solo 30 anni. Anche se nel 2005 dopo le elezioni nel Kurdistan del sud è stato costituito il Ministero per le Questioni Anfal, il destino delle vittime di genere femminile del genocidio viene fin troppo spesso taciuto. L’opinione che parlare dei crimini commessi nei confronti delle donne non sia utile alle donne, purtroppo prevale. A causa della concezione di onore vigente, non avviene un confronto e un’elaborazione ad ampio spettro. Anche se ci sono alcune ricerche sulle conseguenze di Anfal per le donne, il silenzio generale porta al fatto che le ferite delle vittime di genere femminile non possono essere guarite. Gli scialli neri che molte donne nel Kurdistan del sud portano dal genocidio, testimoniano dolore e lutto. E questi forse non finiranno mai. Ma un’elaborazione complessiva è urgentemente necessaria. Non va dimenticato un numero non precisato di donne del Kurdistan del sud che all’epoca sono state deportate in Paesi arabi, sono tuttora disperse.
In conclusione voglio tornare all’argomento di questo contributo. In base a questi due esempi diventa chiaro che esiste un forte intreccio ideologico tra genocidio e stupro. Non è un caso che nei genocidi e nei massacri le donne diventano in modo mirato e sistematico vittime di stupri. Alla base di questo c’è una mentalità, un’ideologia, che noi come movimento delle donne curde chiamiamo “cultura dello stupro”, cultura di segno negativo. Occupazione, saccheggio, distruzione, fanno parte delle espressioni di questa mentalità. A questo si aggiunge la concezione di “bottino”. Terra e donne vengono considerate come bottino. Il corpo delle donne diventa zona di occupazione. In questo contesto non c’è solo la necessità di considerare e indagare separatamente il femminicidio all’interno dei genocidi in Kurdistan, ma di analizzare i genocidi dei curdi da un punto di vista delle donne.
*di Meral Çiçek, intervento alla conferenza su yezide: “Genocidio e femminicidio delle yezide e degli yezidi: l’elaborazione dei traumi richiede un riconoscimento, protezione, auto-organizzazione e giustizia”, 15.03.2017, articolo tratto da UIKI-Onlus